In una sera di giugno, la stessa del fatidico dibattito televisivo tra Joe Biden e Donald Trump, i Rolling Stones si sono esibiti a Chicago. Mentre negli studi della Cnn il leader del mondo libero barcollava verso il podio, Mick Jagger si proiettava sul palco, troppo rapido perfino i cameraman. Per due ore Jagger si è contorto e ha piroettato nei suoi jeans attillati. Jagger e Biden, che sembrano lontani anni luce l’uno dall’altro, avrebbero potuto andare a scuola insieme. Biden è nato nel 1942, mentre le foglie cadevano dagli alberi. Jagger è venuto al mondo l’estate dopo.
Oggi la vista di ottuagenari arzilli è un miracolo quotidiano in un’epoca che di miracoli ne ha prodotti pochissimi. Nel Regno Unito circa il 20 per cento della popolazione ha più di 65 anni. Questa proporzione influenza la politica più di quanto si possa percepire, collegando interrogativi apparentemente slegati come “chi beneficerà dei costosi sussidi per la benzina?” e “chi sarà l’attrazione principale di questo costoso festival musicale?”.
Un lungo terzo atto
Nel libro Hope I get old before I die, il giornalista musicale David Hepworth tenta di capire come il rock e il pop dei baby boomer – “che un tempo erano considerati solo una moda passeggera” – siano riusciti a sopravvivere in quello che il giornalista ha definito “il terzo atto del rock”. Hepworth si concentra sul periodo tra la metà degli anni ottanta e la pubblicazione del documentario sui Beatles Get back, nel 2021, raccontando il tour Steel wheels _dei Rolling Stones, _Tears in heaven di Eric Clapton e l’esibizione di Elton John al funerale della principessa Diana. “Come hanno fatto le divinità del rock ad andare avanti così a lungo?”, si domanda Hepworth.
In un’intervista alla Bbc del 1963, Paul McCartney trova ridicola l’idea di suonare la musica dei Beatles dopo i quarant’anni: “Vecchi che suonano From me to you? Non credo che nessuno vorrebbe ascoltarli”, commentava nervoso. Si sbagliava. Nel dicembre 2024 McCartney, a 82 anni, forse canterà proprio quella canzone durante i concerti nel Regno Unito, già tutti esauriti. I casi come il suo sono tutt’altro che rari.
Secondo Hepworth il terzo atto della musica rock è cominciato con la chiusura del Live Aid nel 1985, in cui proprio McCartney ha cantato Let it be, e con il lancio della rivista Q nel 1986. Q ha contribuito a tagliare il legame tra la stampa musicale britannica e i giovani, favorendo un sodalizio ancora molto forte tra le pop star attempate e la critica.
Nessuna generazione è stata accusata di avere una fortuna sfacciata più di quella dei boomer. Ecco un’altra dimostrazione: il declino artistico delle star degli anni sessanta e settanta è stato bilanciato dagli incassi colossali delle ristampe e dei concerti. Perché i musicisti di quella generazione continuano a esibirsi? Quando gli incentivi commerciali sono così forti (come vi confermeranno i contabili dei fratelli Gallagher) serve un autocontrollo monastico per smettere di spremere la gallina dalle uova d’oro. Quante pop-star con inclinazioni monastiche conoscete?
Nel nuovo millennio il terzo atto del rock ha preso una svolta imprevista. All’inizio del decennio Gil Scott-Heron, poeta del soul che con The revolution will not be televised ha probabilmente aperto la strada all’avvento dell’hip-hop, è riemerso dalla giungla del sistema carcerario statunitense con un album elettronico prodotto dal millennial Jamie XX. A quel punto gli artisti anziani hanno capito di poter essere qualcosa di più che semplici icone: potevano sperimentare e rifiutare di farsi da parte docilmente.
Nel 2016 l’ultimo disco di David Bowie, Blackstar, è stato accompagnato dalle opere del rapper Kendrick Lamar, dell’artista rnb D’Angelo e di alcuni jazzisti moderni in un album pubblicato 48 ore dopo la morte dell’artista. Alcuni mesi dopo, quando a 82 anni Leonard Cohen ha presentato il suo ironico e scarno You want it darker, il messaggio promozionale è stato essenziale: “Sono pronto ad accogliere la morte”. Diciassette giorni dopo la pubblicazione, Cohen è morto. Lo stesso è capitato a Scott Walker, che nel decennio precedente al suo trapasso (nel 2019) ha scritto musiche tra le più dense e difficili di una carriera altrettanto densa e difficile. Quelli erano i boomer maledetti, imbarazzati dalle esibizioni magniloquenti dei loro contemporanei e più interessati alla rinascita creativa.
Così, per la prima volta, è stata tracciata una road map credibile attraverso la vita rock, dai primi vagiti agli ultimi lamenti. Questo è accaduto in un decennio in cui lo streaming e le difficoltà della crescita del rock hanno spinto i millennial ad ascoltare gli artisti boomer con la stessa facilità con cui si schieravano dalla parte di politici anziani come Jeremy Corbyn o Bernie Sanders.
L’inarrivabile Bob Dylan
Oggi, esattamente come accadeva durante il primo atto del rock, c’è un artista capace di creare un esempio particolare e, immaginiamo, esasperante per i suoi contemporanei: Bob Dylan. Ancora più interessante dell’assegnazione del Nobel per la letteratura nel 2016 è il fatto che alcune delle canzoni più apprezzabili di Dylan siano arrivate dopo quel premio.
A settembre la rivista statunitense Pitchfork ha inserito il brano Murder most foul, pubblicato da Dylan nel 2020, nella lista delle dieci canzoni migliori del decennio in corso. Accanto a Lana Del Rey e a RXKNephew, in classifica troviamo una meditazione di 17 minuti, musicalmente statica, sull’omicidio del presidente Kennedy del 1963 e sul successivo rifugio degli Stati Uniti nella cultura popolare.
Dylan ha aperto nuove strade per gli artisti ottuagenari con un ritmo di produzione che sembra il prodotto di un patto celestiale, inarrivabile per i suoi pari. Mentre i nuovi album invenduti degli artisti boomer diventavano sottobicchieri e frisbee negli uffici delle case discografiche, il lavoro di Dylan, arrivato alla soglia degli 83 anni, ha saputo cogliere in modo sempre più intenso la storia dell’America del novecento, nonché lo status personale dell’artista all’interno di essa.
Il terzo atto del rock si sta concludendo, mentre il sole tramonta su una generazione e sul genere in sé. Oggi quasi nessuno dei tour più redditizi è incentrato sui gruppi rock. All’origine della caduta di un impero non c’è mai solo un motivo. Si possono citare i costi elevati di una band o il passaggio del rock da musica battagliera e innovativa a forma d’arte autoreferenziale che parla solo del passato.
Le pop star che controllano gli imperi musicali di oggi non resteranno giovani per sempre. Non tutte le carriere dureranno a lungo, ma gli artisti che sopravvivranno potranno prolungare la loro esistenza lavorativa. Esattamente come noi persone comuni. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati