“Compagno presidente Vladimir Putin”. Con il berretto rosso calcato sulla testa e stretto in una tuta mimetica, il capitano burkinabé Ibrahim Traoré aveva reso omaggio al suo ospite prima di lanciarsi in un discorso contro l’imperialismo. Se dovessimo scegliere un’immagine per riassumere il vertice Russia-Africa del 28 luglio 2023 a San Pietroburgo, sarebbe proprio la scena della complicità tra il giovane ufficiale del Burkina Faso, volto del colpo di stato militare avvenuto nel paese dieci mesi prima, e il capo del Cremlino, pieno di premure. “Condividiamo la stessa storia, nel senso che noi russi e africani siamo i popoli dimenticati dal mondo”, aveva proclamato Traoré con aria seria, applaudito da un Putin mellifluo.
È ormai evidente che la Russia in Africa non è più un fantasma. Non è un miraggio né il prodotto di una guerra dell’informazione. A sud del Mediterraneo è una realtà geopolitica pesante, forte e probabilmente stabile, che rimescola le carte tra le grandi potenze. Ha creato la sua rete infiltrandosi negli interstizi delle frontiere e ramificandosi sulla base di affinità ideologiche. Dal Sudan al Niger, passando per la Libia, il Burkina Faso, il Mali, la Repubblica Centrafricana e il Madagascar, tra il 2017 e il 2018 Mosca ha cominciato a estendere la sua influenza nel continente al servizio di nuovi obiettivi in cui si contrappone all’occidente.
La situazione non è cambiata nemmeno dopo la morte di Evgenij Prigožin, capo e fondatore del gruppo paramilitare privato russo Wagner, arma segreta della penetrazione russa in Africa. A un anno di distanza dall’incidente aereo del 23 agosto 2023 in cui perse la vita, il Cremlino continua a muovere le sue pedine. La sola differenza è che lo fa più apertamente. Il ministero della difesa russo ha preso il controllo di gran parte dell’impero costruito da Prigožin, in particolare nel continente africano. Il generale Junus-bek Evkurov, viceministro della difesa, continua a fare la spola tra varie capitali africane per concludere accordi nel settore della sicurezza. L’etichetta della Wagner è scomparsa quasi ovunque dai vessilli russi che sventolano in Africa – tranne che in Mali e nella Repubblica Centrafricana – ed è stata sostituita dalla scritta Africa corps. Un nome che ricorda quello degli Afrika korps, la divisione dell’esercito della Germania nazista che tra il 1941 e il 1943 operò in Nordafrica sotto il comando del maresciallo Erwin Rommel.
Non è ancora chiaro se questo “clone” potrà uguagliare i risultati del gruppo originario, un apparato con ramificazioni militari, economiche, politiche e propagandistiche. Prigožin, soprannominato “lo chef di Putin”, era riuscito a sottrarsi alla gerarchia ufficiale. Ma quella volontà di autonomia gli è stata fatale, come dimostra l’ammutinamento del giugno 2023. Tornando sotto il potere centrale, questi combattenti avranno lo stesso impatto?
Nuove fonti di entrate
Il rinnovato interesse della Russia per l’Africa è spesso ricondotto ai tempi del primo allarme per l’Ucraina, con l’annessione russa della Crimea nel 2014. All’epoca Mosca era stata colpita dalle sanzioni occidentali e doveva trovare il modo di aggirarle. Era urgente individuare nuove fonti di entrate, come quelle derivanti dallo sfruttamento di miniere africane – soprattutto d’oro – facendo transitare il denaro attraverso circuiti finanziari poco trasparenti, alcuni dei quali sfruttavano un sistema di riciclaggio che passava dagli Emirati Arabi Uniti.
Nel 2017 il Sudan è stato il primo paese a entrare nel mirino delle ambizioni russe, aprendo poi la porta alla vicina Repubblica Centrafricana e successivamente agli stati del Sahel (Mali, Burkina Faso e Niger), dove dal 2020 si sono susseguiti colpi di stato orchestrati da militari con velleità panafricaniste. Intanto la Russia aveva consolidato il suo potere in Cirenaica, la regione orientale della Libia. Mosca offre alle élite che cercano di rafforzare il loro potere servizi di sicurezza e consulenze nel campo dell’informazione in cambio dell’accesso alle risorse dei loro paesi. Il carattere apertamente predatorio di questo modo di agire ha trasmesso l’immagine di un metodo empirico e opportunista, senza un disegno strategico. Questa percezione è cambiata con l’invasione dell’Ucraina scatenata da Mosca nel febbraio 2022, che ha aggravato lo scontro tra Mosca e i paesi occidentali.
Oggi l’Africa, oltre che una riserva di materie prime, è considerata un bacino di voti alle Nazioni Unite e il braccio commerciale di un sud globale che l’alleanza nascente tra la Russia e la Cina cerca di contrapporre all’occidente.
Dopo un vertice Russia-Africa a Soči nel 2019 a cui parteciparono 43 capi di stato africani, Putin ha replicato il formato nel luglio 2023 a San Pietroburgo organizzando un incontro molto pubblicizzato, accompagnato da un coro di appelli per un “mondo multipolare”. Tuttavia la partecipazione africana è stata minore rispetto al 2019 – solo diciassette capi di stato – anche perché in tanti si erano accorti delle difficoltà russe in Ucraina e temevano l’instabilità delle forniture di cereali russi all’Africa, continente fragile dal punto di vista della sicurezza alimentare.
La storia dell’intervento russo in Siria è importante perché spiega meglio l’offensiva che ne è seguita a sud del Mediterraneo
Vecchi ricordi
Putin poteva comunque rallegrarsi: la crisi ucraina aveva creato una spaccatura. Molti paesi africani avevano preso le distanze dall’occidente. Secondo il centro studi statunitense Carnegie endowment for international peace, dal marzo 2022 al febbraio 2023, in occasione del voto alle Nazioni Uniti di cinque risoluzioni di condanna per l’aggressione russa in Ucraina, il 38 per cento dei paesi africani si è astenuto, il 6 per cento si è pronunciato contro e il 14 per cento non ha partecipato. Di fatto si è ridotto il potere dell’occidente sui paesi tradizionalmente alleati, che ora preferiscono un allineamento à la carte, a seconda dei loro interessi nazionali.
Questo nuovo atteggiamento non è necessariamente una dimostrazione di vicinanza alla Russia, ma facilita le cose a Mosca mentre cerca di allontanare il nord dal resto del mondo. Nel sud globale, e in particolare nel mondo musulmano, la sanguinosa guerra a Gaza ha consolidato l’immagine negativa di un occidente che usa “due pesi e due misure” quando si tratta di applicare il diritto internazionale. E la Russia di Putin indirettamente ne approfitta. “La posizione filopalestinese ha permesso a Mosca di guadagnare simpatie in Nordafrica, sia tra la popolazione sia tra le classi dirigenti”, conferma un diplomatico di un paese nordafricano che lavora in Russia, sottolineando che gli stati del continente “non sono ingenui” e comunque sono consapevoli della “strumentalizzazione fatta dai russi”. In realtà, si tratta di uno scambio di favori: la Russia rompe il suo isolamento internazionale grazie agli stati africani, che a loro volta la usano come leva nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
“All’Onu le cancellerie africane pensano che sia utile avere al loro fianco la Russia, con il suo potere di veto, in particolare quando si votano risoluzioni sui conflitti nel continente”, spiega un diplomatico europeo in Russia.
In questa guerra d’immagine, il Cremlino non parte da zero: può farsi forte del ricordo dell’Unione Sovietica e del suo sostegno ai movimenti di decolonizzazione, in particolare nell’Africa meridionale. Sulla bandiera del Mozambico c’è ancora il simbolo del kalashnikov. Questa storia è costantemente rievocata. Al vertice di San Pietroburgo del 2023 Putin – che è andato solo tre volte nel continente africano, e sempre in Sudafrica – ha ricordato che la Russia aveva “sostenuto i popoli africani nella loro lotta di liberazione dall’oppressione coloniale”. Oltre a fornire appoggio politico-militare, Mosca formava anche le élite dei nuovi stati indipendenti che volevano far parte della grande famiglia socialista.
Tra il 1960 e il 1991 nelle università sovietiche studiarono 45.500 africani subsahariani, di cui 5.500 nella famosa università Patrice Lumumba di Mosca. Dall’Unione Sovietica sono passati anche due degli attuali leader del Mali – il primo ministro Choguel Maïga e il ministro della difesa Sadio Camara – nonché il maresciallo libico Khalifa Haftar.
“In occidente tendiamo a dimenticarcene, ma l’Unione Sovietica formò tutta una classe di dirigenti africani e questa è ancora una fonte di simpatie verso la Russia”, ricorda Jean-François Bayart, dell’Istituto di alti studi internazionali e dello sviluppo di Ginevra. In questa storia c’è però un grande vuoto, rappresentato dalla scomparsa della presenza russa in Africa dopo il 1991, quando chiusero nove ambasciate. L’assenza durò una quindicina di anni. Il primo segnale di ritorno si può rintracciare nel 2006, con un contratto per la vendita di armi da 7,5 miliardi di dollari concluso con l’Algeria in cambio dell’annullamento di 4,7 miliardi di dollari di debiti che Algeri aveva con Mosca.
All’epoca la Russia s’interessava anche alla Libia. In particolare, voleva costruire una base a Sirte, ma Muammar Gheddafi non glielo concesse. La morte del leader libico, linciato a Sirte nel 2011 dai ribelli sostenuti dalla Nato, non fu comunque motivo di gioia per Putin. E la sua insoddisfazione fu ancora più forte poiché la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che autorizzava l’intervento in Libia era stata adottata anche grazie all’astensione russa.
Questa lezione sarebbe tornata utile nel corso di un altro movimento rivoluzionario nato dall’ondata delle primavere arabe: quello della Siria. In questo caso Mosca è andata in soccorso di un regime amico, quello guidato da Bashar al Assad, di cui voleva evitare il crollo a tutti i costi.
La storia dell’intervento russo in Siria è importante perché spiega meglio l’offensiva che ne è seguita a sud del Mediterraneo. In Siria è stata decisiva la rinuncia statunitense a intervenire: alla fine dell’agosto 2013 Washington si rifiutò di colpire il regime di Assad nonostante le prove dell’uso di armi chimiche contro i ribelli siriani. Così facendo mandò un messaggio che fu interpretato da Mosca come un via libera alla riconquista delle sue posizioni storiche in quell’area.
La Siria è diventata la piattaforma da cui la Russia si è proiettata verso un nuovo teatro operativo, la Libia, che aveva avuto un ruolo fondamentale nell’irrigidimento strategico del presidente russo verso gli occidentali. Lì il capo del Cremlino ha puntato tutto su Khalifa Haftar, l’“uomo forte” della Cirenaica, a cui ha fornito armi contro i “terroristi”, e che ha usato come punto di accesso nell’ex eldorado petrolifero. Anche in questo caso si è trattato di riprendere una zona d’influenza del passato, visto che la Libia di Gheddafi, importante compratore di armi da Mosca, aveva accolto tra il 1973 e il 1982 molte migliaia di esperti sovietici.
In uno scacchiere regionale in via di ricomposizione, per la Russia puntare sul maresciallo Haftar significava aprirsi una strada nel Sahara, verso il Sudan a est e nel Sahel (Ciad e Niger) a sud. Così quando i mercenari della compagnia privata russa Wagner si sono insediati, grazie ad Haftar, in alcune basi della Cirenaica e del Fezzan, i collegamenti logistici russi tra la Siria e l’Africa hanno assunto maggiore coerenza, alimentando grandi ambizioni.
Vantaggi insperati
L’ingresso in Africa è stato facilitato in modo insperato dal contemporaneo ritiro occidentale. La rinuncia di Washington a intervenire in Siria si è ripetuta in Libia. Gli statunitensi, traumatizzati dell’assalto jihadista del 2012 al loro consolato a Bengasi, che era costato la vita all’ambasciatore Christopher Stevens, si sono disimpegnati dalla Libia e non hanno fatto nulla per ostacolare le nuove mosse russe.
Contemporaneamente la Francia cercava di uscire dal pantano del Sahel (regione dov’era intervenuta nel 2013 per fermare l’avanzata tuareg e jihadista verso la capitale maliana Bamako). Nel giugno 2021 il presidente Emmanuel Macron ha annunciato la fine dell’operazione Barkhane.
Tra le élite africane il timore del vuoto ha preso il posto del risentimento causato dall’interventismo di Parigi. E ben presto sono arrivati i colpi di stato, poi sfruttati da Mosca, in Burkina Faso e in Niger.
Risalendo il filo dell’avanzata russa in Africa, si può trovare un modello simile nella sua penetrazione del 2017 nella Repubblica Centrafricana, che è stata il laboratorio del “modello Wagner”. In quel caso la Francia lasciò alla Russia il compito di promuovere all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una proposta per alleggerire l’embargo dell’Onu sulle armi, in modo da poter consegnare 1.500 kalashnikov al presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra. Parigi favorì i contatti tra Touadéra e gli inviati di Mosca, aprendo la strada alla futura collaborazione. È stata una delle tante incoerenze, velleità e contraddizioni della strategia occidentale in Africa che Mosca ha saputo sfruttare a suo vantaggio. In realtà tutto questo ha solo accelerato un’offensiva che era in preparazione già dalla metà degli anni dieci. Una grande rilevanza l’ha avuta lo sforzo di sedurre le popolazioni del continente, oltre alla fornitura di garanzie nel settore della sicurezza a poteri vecchi e nuovi. Al vertice di San Pietroburgo, Putin ha parlato di “rispetto della sovranità degli stati africani, delle loro tradizioni e dei loro valori”. Parole che ottengono ampia risonanza in un’Africa segnata dalla memoria dei traumi coloniali e dal ritorno dei discorsi sull’“autenticità africana”, spesso in reazione all’egemonia culturale occidentale. “Le società tradizionali dell’oriente, dell’America Latina, dell’Africa e dell’Eurasia costituiscono la base della civiltà mondiale”, aveva dichiarato Putin in un incontro del 2022 organizzato da un centro studi vicino al Cremlino, facendo ben attenzione a citare l’Africa come una delle fonti di un’etica universale.
Così quando il leader russo critica la “perversione” e la “degenerazione” dell’occidente, le sue affermazioni risuonano tra una certa parte della popolazione africana sensibile alla radicalizzazione, sia cristiana sia musulmana. “Ci sono affinità elettive tra le rivoluzioni conservatrici in corso in Russia e in Africa”, sottolinea Bayart. “Un punto di contatto è l’omofobia: insistono che l’omosessualità è stata diffusa dall’occidente nelle sane società africane e in quella ortodossa”.
Coincidenza inquietante: negli ultimi anni il patriarcato della chiesa ortodossa russa ha intensificato il suo proselitismo nelle comunità cristiane d’Africa, già esposte a un’aggressiva penetrazione dei movimenti pentecostali. Non è un caso se alla fine del 2021 ha creato un esarcato d’Africa.
Cereali e armi
Il settore economico, altra fonte dell’influenza russa in Africa, è invece più fragile. I grandi gruppi russi come Rosatom (nucleare), Gazprom (idrocarburi), Rusal (alluminio), Alrosa (diamanti) o Renova (manganese) moltiplicano i contatti in tutto il continente. Dopo l’invasione dell’Ucraina la diplomazia dei cereali russa è molto attiva e Mosca si è impegnata a garantire le consegne. Tra il 2022 e il 2023 le importazioni di cereali provenienti dalla Russia in Tunisia sono aumentate di cinque volte. Un altro punto forte sono le armi, di cui la Russia è la prima venditrice in Africa: secondo l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma (Sipri), tra il 2018 e il 2022 Mosca controllava il 40 per cento del mercato continentale, davanti agli Stati Uniti (16 per cento).
Tuttavia, a parte i proclami, la realtà potrebbe essere diversa, in ragione di un pil russo che è paragonabile a quello dell’Italia o del Brasile. Nel 2019 a Soči Putin si era impegnato a raddoppiare gli scambi commerciali tra il suo paese e l’Africa, valutati all’epoca intorno ai venti miliardi di dollari. Nel 2022 questi scambi erano fermi a 18 miliardi di dollari, pari al 5 per cento del commercio euroafricano e al 6 per cento del commercio sinoafricano. Gli investimenti russi rappresentano meno dell’1 per cento del capitale straniero in Africa. Di fatto nel continente la Russia, al di là delle promesse, ha una rilevanza economica molto piccola.
“Unire le forze per far progredire la modernità e costruire una comunità sinoafricana di alto livello con un futuro comune”. È stato il tema del nono Forum sulla cooperazione sinoafricana (Focac) chi si è svolto a Pechino dal 4 al 6 settembre 2024. Hanno partecipato decine di paesi africani: il Sudafrica di Cyril Ramaphosa, il Camerun di Paul Biya, il Togo di Faure Gnassingbé, il Madagascar di Andry Rajoelina, il Mali di Assimi Goita e molti altri. “Questo vertice dei leader africani con i rappresentanti della seconda potenza mondiale era un’opportunità che l’Africa non poteva lasciarsi sfuggire”, scrive il quotidiano Le Pays del Burkina Faso. In quell’occasione il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di creare almeno un milione di posti di lavoro in Africa, di garantire 51 miliardi di dollari di nuovi finanziamenti e di sostenere trenta progetti infrastrutturali nel continente. “L’Africa è diventata l’arena delle rivalità per eccellenza”, continua il quotidiano citando tutti i paesi che hanno organizzato dei vertici con i leader africani: non solo la Cina, ma anche Francia, Stati Uniti, Russia e Giappone. “Tutti cercano di posizionarsi per trarre vantaggio dalle relazioni con il continente del futuro”, continua Le Pays. “Come potrebbe essere altrimenti quando, oltre a essere un importante fornitore di materie prime, l’Africa è anche un importante mercato? Detto questo, ora spetta ai capi di stato africani fare un’attenta analisi della situazione e scegliere i partner migliori. Il contesto è favorevole: l’Africa deve trovare la sua strada e difendere gli interessi delle sue popolazioni. Del resto, le grandi potenze non sono mosse dal loro buon cuore. Il crescente interesse di nuovi partner, oltre a spingere l’Africa a credere nelle proprie capacità, deve accompagnarsi a un ripensamento delle relazioni con gli alleati tradizionali, che devono essere più equilibrate. A sessant’anni dalle indipendenze l’Africa si trova in una nuova fase della sua storia. Con tutto il suo potenziale, dev’essere in grado di guadagnarsi il rispetto nel concerto delle nazioni. È una questione di prospettiva e di volontà politica”. ◆
Ma rimane un interrogativo: come ha fatto la Russia, con capacità tutto sommato modeste, a ottenere vantaggi strategici così grandi? Come ha potuto produrre effetti così importanti con un’offensiva low cost, con pochi uomini e pochi mezzi? Confusi dalla loro presunzione, gli occidentali – soprattutto i francesi – hanno a lungo sottovalutato gli elementi di fondo dell’avanzata russa, in particolare il cambio del paradigma post-indipendenza che stava maturando tra le élite e le popolazioni africane. L’offerta russa sarebbe diventata rapidamente vana se non avesse incontrato una domanda africana in cui hanno la loro parte la psicologia, i sentimenti e la memoria di lungo periodo dei popoli. La guerra di propaganda scatenata da Mosca, abile nel demonizzare l’occidente “colonialista” e nell’esaltare il machismo da giustizieri dei nuovi patrioti africani, ha alimentato e strumentalizzato questa domanda. Ma non l’ha creata.
Molto probabilmente arriverà un’inversione di tendenza quando l’estrema violenza della Wagner e dei suoi successori, il cinismo delle loro azioni, la “bunkerizzazione” autoritaria dei regimi golpisti e il crescente scontento delle popolazioni scalfiranno i miti e dissiperanno le illusioni. In ogni caso si è aperto un nuovo ciclo. Nuovi equilibri stanno emergendo in campo diplomatico, con la nascita dell’Alleanza degli stati del Sahel, formata da Mali, Niger e Burkina Faso, apertamente filorussa, e in quello della sicurezza.
◆ Di fronte all’offensiva russa in Africa, l’Ucraina reagisce, scrive Peter Fabricius in un’analisi per l’Institute for security studies sudafricano, in cui si chiede se la guerra tra Russia e Ucraina non stia traboccando nel continente, con il rischio di renderlo un nuovo teatro di una guerra per procura. Fabricius cita in particolare l’attacco compiuto alla fine di luglio a Tinzawaten, in Mali alla frontiera con l’Algeria, compiuto da combattenti tuareg e jihadisti, in cui sono morti decine di soldati maliani e di mercenari inviati dalla Russia. In quell’occasione un portavoce dei servizi segreti ucraini aveva commentato che gli aggressori avevano tutte le “informazioni necessarie” per compiere il loro attacco, lasciando pensare che Kiev potesse averlo facilitato. Questo ha portato a una rottura dei rapporti tra il Mali e l’Ucraina.
Bisognerà seguire con attenzione le ambizioni russe di creare una nuova base navale a Sirte, vecchio sogno di Mosca, che rappresenterebbe una frattura strategica nella regione. Gli Stati Uniti sanno del pericolo, ma non hanno ancora trovato una risposta adatta. “Dalla Libia la Russia vuole minacciare il fianco sud della Nato”, ha dichiarato nel marzo 2023 a Washington il generale Michael Langley, responsabile del comando statunitense per l’Africa (Africom).
La Libia confina anche con il Sudan, dove la Russia, presente dal 2017, vorrebbe costruire una base navale a Port Sudan, sopra lo stretto strategico di Bab el Mandeb. Questo le permetterebbe di proiettarsi nel mar Rosso, attraverso cui transita un terzo del traffico mondiale dei container, e nell’oceano Indiano. Sempre la Libia è un possibile trampolino verso il Ciad, ultimo stato del Sahel, insieme alla Mauritania, a non essersi ancora avvicinato allo schieramento russo, anche se le pressioni in questo senso sono molto forti. “Alla Russia manca ormai solo il Ciad per tagliare l’Africa in due”, ha dichiarato con preoccupazione un diplomatico europeo.
Ed è sempre verso la Libia – e la Tunisia – che si dirigono i flussi di migranti subsahariani che transitano dal Niger nella speranza di attraversare il Mediterraneo. La chiusura della frontiera tra Niger e Libia è una vecchia ossessione dell’Unione europea, che nel 2015 aveva spinto Niamey ad adottare una legge contro il traffico di esseri umani. Ma gli autori del colpo di stato del luglio 2023 l’hanno cancellata.
Probabilmente non è un caso se la decisione è stata presa quando i militari di Niamey si stavano avvicinando a Mosca. Viene da chiedersi se non siano stati i russi a ispirarla, per destabilizzare l’Europa aumentando la pressione migratoria. Potrebbe trattarsi di una replica di quanto successo in Bielorussia, alleata della Russia, che nel 2021 ha permesso l’arrivo di migranti e di profughi in Polonia, Lettonia e Lituania. Per il momento comunque non è dimostrato che il Cremlino sfrutti i flussi migratori nel Sahel.
Ma è significativo che alcuni diplomatici europei abbiano preso in considerazione questa eventualità, cosa che dà la misura dei progressi fatti da Mosca nella guerra psicologica scatenata contro l’Europa. Di fatto si rafforza l’impressione che l’Africa sia diventata il nuovo fronte tra la Russia e l’occidente. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1580 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati