Gli israeliani vogliono davvero continuare a vivere in questo modo? Impugnando le armi, una guerra dopo l’altra, una più inutile dell’altra, tutte cominciate per scelta di Israele, senza un futuro e senza scopo? Quella dei giorni scorsi è stata la diciassettesima operazione su Gaza in diciannove anni. Un conflitto quasi ogni anno. A volte, come nel 2004, anche due. L’ultima doveva terminare sabato sera, alla vigilia del suo sesto giorno. Una guerra dei sei giorni.
Questa è stata forse la più inutile e banale di tutte. Senza scopo, suscitando l’interesse di pochi. Mentre era in corso, Tel Aviv si è goduta un concerto di Aviv Geffen in un parco, e poi tutti sono andati a guardare il festival Eurovision. Il conflitto è scoppiato perché un detenuto, Khader Adnan, dell’organizzazione radicale palestinese Jihad islamica, è stato lasciato morire. Anche le versioni ufficiali delle autorità sulla sua morte sono diventate insignificanti. Tutto quello che è successo dopo è stata la copia, con precisione sanguinaria, della volta precedente e di quella prima ancora. Solo la quantità di sangue versato cambia da una guerra all’altra, anche se a morire ogni volta sono soprattutto i palestinesi.
È la spaventosa banalità di quest’ultimo conflitto a renderlo così pericoloso. Gli israeliani si sono abituati all’idea che le cose stanno così, che non c’è niente da fare. Pioggia d’inverno e guerra d’estate
È la spaventosa banalità di quest’ultimo conflitto a renderlo così pericoloso. Gli israeliani si sono abituati all’idea che le cose stanno così, che non c’è niente da fare. Pioggia d’inverno e guerra d’estate. Una guerra all’anno, senza una causa, senza nulla da guadagnare, senza risultati, senza vincitori né vinti, solo un massacro periodico, come il tagliando dell’auto.
Vogliamo davvero, noi israeliani, continuare a vivere in questo modo? Questa domanda è la più importante di tutte, più importante perfino della questione della riforma della giustizia, e non viene nemmeno discussa. Continuare a vivere così significa accettare la situazione, con l’incoraggiamento entusiasta di commentatori e giornalisti guerrafondai. Non c’è opposizione in Israele, certamente non nelle fasi preliminari degli scontri, e quindi non si cerca alcuna alternativa.
Vogliamo davvero vivere in questo modo? La risposta a questa domanda è sempre: “Che scelta abbiamo?”. C’è un’alternativa che non è mai stata provata, ma che non può nemmeno essere proposta. La gamma delle opzioni presentate agli israeliani spazia solo tra il massacro e l’uccisione, tra un attacco aereo e un’operazione di terra. Siamo in guerra. Non c’è altro.
Continuare a vivere in questo modo significa uccidere un numero spaventoso di persone per soddisfare i signori della guerra e, a volte, anche essere uccisi. Per poi, naturalmente, fare le vittime. Significa vivere nel terrore nel sud e a volte anche nel centro di Israele, oltre a ignorare il terrore a Gaza. Significa essere schiavi dei mezzi d’informazione, che nella maggior parte dei casi non raccontano le sofferenze nella Striscia di Gaza e, quando lo hanno fatto, sarebbe stato meglio se avessero evitato.
Ancora una volta non ci sarebbe stato modo di comprendere l’entità dell’orrore di questa piccola guerra senza il canale televisivo qatariota Al Jazeera. Mentre i mezzi d’informazione israeliani erano impegnati a raccontare di matrimoni rimandati e concerti annullati, Al Jazeera mostrava l’orrore di Gaza. Stavolta però il mondo non era interessato. È stanco. Lasciamoli sanguinare. Una condanna, uno sbadiglio, si fa la pipì e si va a letto.
Quando noi israeliani cominceremo a chiederci se vogliamo davvero continuare a vivere così, forse spunteranno fuori delle alternative. Non ci sono soluzioni miracolose. Una cosa sola è certa: le alternative non sono mai state provate. Non abbiamo mai pensato di agire con moderazione. È una cosa da deboli. Non ci siamo mai chiesti quale sia il risultato di tutte le uccisioni commesse. Non ci siamo mai chiesti se queste guerre contribuiscano davvero a tutelare la nostra sicurezza.
Vogliamo continuare a vivere così? Sì, senza dubbio. Se volessimo vivere diversamente, avremmo cambiato direzione molto tempo fa, interrotto l’assedio a Gaza e parlato con i suoi leader del futuro della Striscia. Se non ci abbiamo ancora provato, è segno che vogliamo continuare a vivere così. ◆ dl
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Questo articolo è uscito sul numero 1512 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati