Questa primavera l’Argentina potrebbe mettere in agitazione i mercati globali. In parte è a causa del diffuso fascino esercitato sugli investitori dal personaggio colorito di Javier Milei, l’economista libertario che ora è alla guida del paese sudamericano. Un altro fattore importante è però Albany, la fredda capitale dello stato di New York, negli Stati Uniti. Non è uno scherzo. All’inizio di marzo i parlamentari dello stato hanno presentato un disegno di legge che ha l’obiettivo di cambiare il modo in cui i tribunali di New York gestiscono le procedure di ristrutturazione dei debiti pubblici. È una questione rilevante, dato che la metà dei titoli di stato collocati dai paesi emergenti, per un valore di 870 miliardi di dollari, fa riferimento alla legge dello stato di New York. L’obiettivo principale è impedire che possa ripetersi la saga del 2016, quando il fondo speculativo Elliott Management si rivolse ai giudici di Albany per recuperare il 100 per cento di alcuni titoli di stato argentini del 2001 che Buenos Aires non aveva rimborsato. Alla fine Elliott realizzò un profitto di due miliardi di dollari, mentre i paesi creditori dell’Argentina dovettero accettare meno soldi di quanto gli spettava.

Non si sa ancora se la legge sarà approvata. Nel 2023 è stata discussa un’iniziativa simile, ma poi è stata insabbiata. Di sicuro Wall street ricorrerà al suo straordinario potere lobbistico – e ai suoi soldi – per opporsi al provvedimento. Tuttavia sembra che il sostegno tra i legislatori di Albany sia tale che studi legali come Clifford Chance stanno producendo in fretta e furia documenti di approfondimento sull’argomento per i loro clienti.

La motivazione alla base della proposta di legge è che l’attuale quadro normativo per affrontare le insolvenze sui debiti pubblici è “del tutto compromesso e deteriorato”, per citare le parole recenti di Jay Newman, il finanziere che guidò l’azione di Elliott nel 2016. Ma a prescindere dal suo esito, la proposta di legge contribuirà a far crescere le pressioni perché si arrivi a una riforma. E questa è una buona notizia, anche se tardiva.

Per capirlo vale la pena di leggere un appunto inviato al parlamento dello stato di New York da Martín Guzmán e José Antonio Ocampo, rispettivamente gli ex ministri delle finanze di Argentina e Colombia, e dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.

Nella nota si osserva che in tutti i paesi i meccanismi di ristrutturazione del debito privato assumono la forma di leggi sui fallimenti, attualmente considerate una parte vitale delle economie di mercato. “Non esistono invece meccanismi simili per i debiti pubblici”, sottolineano Guzmán, Ocampo e Stiglitz. In quest’ambito i risultati dipendono dalla situazione specifica, hanno esiti disomogenei ed è difficile imporre un accordo.

Clausole di azione collettiva

Nel novecento enti come il Club di Parigi (un gruppo informale di organizzazioni finanziarie dei 22 paesi più ricchi del mondo) o il Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno contribuito a colmare questa lacuna coordinando i creditori. Di recente, inoltre, nei titoli di stato sono state incluse le clausole di azione collettiva, che permettono a una maggioranza di creditori di imporre un accordo. Nel 2020, infine, i paesi del G20 hanno creato un Quadro comune per la ristrutturazione dei debiti, che offre un’altra via all’azione collettiva. Al quadro comune, però, mancano delle norme di riferimento, mentre strutture come il Club di Parigi e l’Fmi sono sempre meno efficaci. Una delle ragioni è che, senza dare nell’occhio, la Cina è diventata il principale creditore dei paesi poveri, superando perfino le banche di sviluppo multilaterali occidentali, e il suo ruolo nei processi di ristrutturazione è imprevedibile.

Il secondo problema riguarda i fondi speculativi come Elliott: la loro presenza sta crescendo e, spesso, per i paesi poveri è così costoso contrastare i creditori privati nei tribunali occidentali che cedono alle loro richieste. “Nel 2010 la quota di debito dei paesi in via di sviluppo detenuta da creditori privati era del 46 per cento”, si legge nell’appunto di Guzmán, Ocampo e Stiglitz. “Alla fine del 2021 era del 61 per cento”. Nel frattempo nell’ultimo decennio i costi legati ai debiti degli stati poveri, in rapporto alle entrate, sono quasi triplicati, mettendo 48 paesi in una situazione di sofferenza. In effetti, dal 2020 a oggi le insolvenze sono già state una decina e hanno prodotto solo caos. Basti pensare all’Etiopia, allo Sri Lanka e allo Zambia.

La soluzione prospettata ad Albany è offrire ai paesi emergenti due opzioni per gestire un’insolvenza: un amministratore nominato dallo stato di New York che interviene per organizzare e imporre un accordo o, in alternativa, il meccanismo del G20. In un caso o nell’altro il punto è che i creditori privati e quelli pubblici subiranno lo stesso trattamento. Non dovrà più succedere che i contribuenti patiscono mentre Elliott realizza enormi profitti.

Come c’era da aspettarsi, una prospettiva simile risulta indigesta ad alcuni operatori finanziari. Secondo loro, introducendo modifiche retroattive a titoli di stato già emessi s’indebolirà la fiducia dei mercati nel ruolo della legge e si creerà un sistema ancora più frammentato. Fondi di gestione patrimoniale come Pimco e Fidelity avvertono che aumenterà il costo dell’emissione di obbligazioni, perché gli investitori vorranno essere compensati per la futura incertezza normativa. C’è anche la possibilità che l’emissione di obbligazioni emigri a Londra o in Texas.

I sostenitori della legge replicano che queste misure in realtà permetteranno degli interessi più bassi, perché un quadro complessivo più equo e prevedibile aumenta la possibilità che un debito sia rimborsato. Fanno inoltre notare che i parlamentari britannici stanno prendendo in considerazione la possibilità di copiare l’idea di Albany.

Al momento, in realtà, è impossibile valutare quanto inciderà il progetto di legge. Tuttavia è ormai evidente che il sistema va cambiato. Le misure in discussione ad Albany saranno anche imperfette, ma se alla fine dovessero contribuire ad accelerare l’azione per creare un quadro normativo comune, dovremmo tutti esserne felici. Non ultimo perché il 2024 potrebbe presto produrre altre situazioni di crisi del debito. Per esempio in Argentina: l’anno prossimo il paese sudamericano dovrà versare 5,5 miliardi di dollari ai creditori privati, una cifra che Milei avrà difficoltà a mettere insieme. ◆ gim

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina 101. Compra questo numero | Abbonati