Che la tv rincretinisca è un’accusa ripetuta fin troppo spesso. Nessun mezzo di comunicazione ha questo stigma. Forse neanche i cellulari: per loro c’è l’attenuante del messaggio, della comunicazione con il resto del mondo. La tv, che ci vede sbragati sul divano, la mano sul telecomando e lo sguardo da ipnotizzati, è stata condannata fin dagli esordi. Noi televisionari abbiamo rispedito al mittente queste considerazioni, figlie a nostro vedere di un insopportabile snobismo. Invece ora ci si mette pure la scienza. Alla Johns Hopkins Bloomberg school di Baltimora, negli Stati Uniti, hanno analizzato il cervello di numerosi adulti che per quattro ore al giorno durante il lockdown si sono cibati di format e serie. Il loro cervello si è ridotto di mezzo punto percentuale. Non conta il programma (Piero Angela e Barbara D’Urso sono pari) né la sedentarietà (lo stesso studio incoraggia videogiochi e tornei di burraco). È proprio l’apparecchio televisivo a fare strame di corteccia cerebrale. Soprattutto fra i trenta e i cinquant’anni di età, con alta probabilità di demenza senile. Nel saggio Il frigorifero del cervello (2002) si ricostruiva il turbolento rapporto tra il Pci e la tv. Un po’ perché la tv era in mano democristiana, un po’ perché, si sosteneva, avrebbe annichilito il senso critico, lasciando campo libero alle sirene del consumo. Parole che potremmo rivalutare, se nella testa non avessimo ormai una palla di neve. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1427 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati