Non sappiamo quanto ci sia di personale in questo breve romanzo, ma tutto è credibile e durissimo. L’autore è un cinquantenne, emigrato negli Stati Uniti dopo la prima guerra del Golfo, che insegna letteratura araba. Si parte dal manoscritto di un prigioniero – un genere non nuovo, si potrebbe dire, aggiungendo un “purtroppo” – ritrovato e analizzato dai suoi carcerieri anche nelle sue “deviazioni” letterarie, perché il regime e il suo super leader vigilano anche sulla grammatica. Una sorta di diario orwelliano, nell’ambizione dichiarata di scrivere un corrispettivo iracheno di 1984. Gli anni tornano, il manoscritto è ritrovato, si dice, nel 1989. Narra di come hanno vissuto i giovani sotto la dittatura, ed è anche una storia d’amore dello studente che l’ha scritto con una coetanea e d’attesa di rivedere un amico, chissà se davvero amico. Non si apprende più di quel che si può immaginare o che non si sappia già, ma la scrittura è nervosa e abile, forse anche troppo; l’autore è un esperto di letteratura irachena e non solo, e insegna negli Stati Uniti. Un buon libro in certe parti volutamente agghiacciante, con il solo limite, diciamo così, professionale e geografico, perché molti sono gli scrittori che hanno visto e vissuto l’orrore e lo narrano da un occidente protetto, dove tuttavia incombe l’eterna “struggle for life”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1431 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati