Mentre il Regno Unito e altri paesi si avviano a completare la vaccinazione della popolazione adulta contro il covid-19, emerge una domanda: serviranno nuovi richiami? La risposta dipende da tre fattori ancora ignoti: la durata dell’immunità, l’effettiva protezione garantita dai vaccini attuali contro le varianti presenti e future, e il reale funzionamento dei richiami.

I richiami sono usati per alcune malattie infettive per prolungare l’immunità o aggiornarla contro eventuali varianti. Nel caso del tetano, per esempio, il richiamo è raccomandato ogni dieci anni per rinnovare l’immunità, mentre nel caso dell’influenza si fa ogni anno per proteggere dalle varianti stagionali.

chiara dattola

Secondo l’immunologa Alex Richter, dell’università di Birmingham, presto avremo dati affidabili sulla durata dell’immunità contro il covid. Sono in fase avanzata vari studi, tra cui il Siren, che sta monitorando più di 44mila dipendenti di 135 ospedali britannici per verificare la durata dell’immunità del vaccino Pfizer. “Dato che le prime dosi sono state somministrate a dicembre, a giugno sarà disponibile una valutazione semestrale”, spiega Richter. “Se si dovesse riscontrare una riduzione significativa degli anticorpi, questo influenzerebbe le decisioni future”.

Anticorpi efficaci

Se invece emergesse che i vaccini non sono efficaci contro le varianti bisognerebbe mettere a punto una campagna con richiami modificati. Secondo Anthony Harnden dell’università di Oxford, vicepresidente del comitato britannico sulla vaccinazione e l’immunizzazione, gli studi di laboratorio indicano che gli anticorpi prodotti dai vaccini sono efficaci contro la variante B.1.1.7 (inglese) e P.1 (brasiliana), ma forse non altrettanto contro la B.1.351 (sudafricana). “Anche nel caso della sudafricana, però, i vaccini sembrano capaci di proteggere dai sintomi più gravi”, spiega.

Al momento non è chiaro se la “fuga immunitaria” delle varianti sia un pericolo reale. “È una domanda cruciale”, spiega il virologo Deenan Pillay dello University college di Londra. “Bisogna analizzare a fondo i casi di contagio tra i vaccinati. Sono causati dalle varianti o da una riduzione degli anticorpi?”. Uno studio recente ha documentato due casi d’infezione su 417 vaccinati dovuti probabilmente a una nuova variante. “Ma i dati non permettono di stabilire una linea di condotta generale”, dice Pillay.

Un altro fattore di cui tener conto in tema di varianti è il cosiddetto peccato originale antigenico, in base al quale un vaccino aggiornato potrebbe riattivare una memoria immunologica precedente invece di crearne una nuova. È stato osservato in altre infezioni virali, tra cui l’influenza, dice Anthony Costello dello University college di Londra, ma non è chiaro se si verificherà anche con il virus sars-cov-2. Bisogna fare chiarezza in fretta, dice John Moore del Weill Cornell medicine di New York, perché il peccato originale antigenico potrebbe rendere inutile una campagna vaccinale di richiami specifici per le varianti.

I richiami possono fallire anche per altri motivi. La terza dose di un vaccino a vettore virale come AstraZeneca potrebbe limitarsi a potenziare la risposta immunitaria al virus innocuo usato come vettore per trasportare il principio attivo. “Non è detto che aumentino gli anticorpi contro la proteina spike”, spiega Teresa Lambe dell’università di Oxford, che sta studiando la risposta immunitaria a una terza dose.

Per questa e altre ragioni, per rafforzare l’immunità potrebbe essere meglio usare un vaccino diverso da quello già somministrato. Alcuni dati indicano che l’uso di due vaccini per la prima e la seconda dose – un metodo chiamato vaccinazione eterologa prime-boost – produce un’immunoreazione più efficace rispetto a una doppia somministrazione dello stesso composto. Nel Regno Unito si stanno facendo dei test sull’abbinamento di vaccini diversi e, secondo Harnden, i risultati potrebbero incidere su un’eventuale campagna di richiami. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1410 di Internazionale, a pagina 101. Compra questo numero | Abbonati