Per quattro giorni, in un tribunale parigino, si è parlato di un’arma. Non una qualunque. La più potente del regime siriano, che Bashar al Assad ha usato e continua a usare senza ritegno: la sparizione forzata. In questo caso, si trattava di Mazen Dabbagh e di suo figlio Patrick, rapiti nella loro casa di Damasco da agenti del servizio informazioni dell’aeronautica, uno dei più spietati del regime. Il figlio è stato portato via il 3 novembre 2013. Il padre il giorno dopo. Un testimone, arrestato con loro e poi rilasciato, li ha visti il giorno successivo nella sede del servizio all’aeroporto militare di Mezzeh. Poi sono scomparsi nelle viscere della macchina della repressione siriana.

I loro cari hanno dovuto aspettare fino al 2018, quando la burocrazia siriana ha pubblicato ottomila certificati di morte di prigionieri, per conoscere il destino di Mazen e Patrick. Sarebbero morti rispettivamente il 25 dicembre 2017 e il 21 gennaio 2014. Nessuno può dire se queste date siano vere. Nessuno ha comunicato alla famiglia dove sono sepolti.

“Hanno buttato via centinaia di libri di Mazen e tutti gli album di famiglia”

Nel frattempo Obeida Dabbagh, fratello di Mazen e residente in Francia, ha presentato una denuncia a Parigi, insieme alla Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e alla Lega per i diritti umani (Ldh), con il sostegno del Centro siriano per i media e la libertà di espressione (Scm). La giustizia francese ha emesso mandati di arresto per tre esponenti di primo piano del regime: Ali Mamlouk, Jamil Hassan e Abdel Salam Mahmoud. Tutti e tre sono stati condannati all’ergastolo il 24 maggio, in contumacia, per complicità in crimini di guerra e contro l’umanità. È la prima volta che succede in Francia.

Alla base del sistema

Nel suo dodicesimo rapporto, pubblicato il 30 agosto 2023 in occasione della giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, la Rete siriana per i diritti umani (Syrian network for human rights, Snhr) ha individuato 112.713 persone sparite in Siria dall’inizio della rivoluzione, nel marzo 2011. Tutti questi uomini, donne, bambini, giovani e anziani si sono volatilizzati; della grande maggioranza, l’86 per cento secondo il macabro conteggio dell’Snhr, è responsabile il regime di Assad. Anche alcune organizzazioni non statali, in particolare il gruppo Stato islamico (Is), praticano le sparizioni forzate, ma su scala molto più ridotta.

Garance Le Caisne, giornalista francese che ha scritto due libri sulle sparizioni forzate in Siria, spiega: “Nella gran parte dei casi, la persona è arrestata arbitrariamente da uno dei quattro principali servizi segreti: sicurezza militare, sicurezza politica, sicurezza di stato o intelligence dell’aeronautica. È inviata in un centro di detenzione dell’apparato repressivo in questione. E lì scompare. I servizi non avvisano le famiglie. Quindi, se nessuno ha assistito all’arresto o ha visto quale dipartimento l’ha eseguito, la persona sparisce dalla faccia della terra”. Le Caisne, che ha codiretto il documentario The lost souls of Syria, in cui si parla del caso Dabbagh, continua: “La sparizione forzata, come la tortura, serve al regime per diffondere il terrore. È una forma di tortura. Il suo obiettivo è disintegrare gli individui e le famiglie, disperderli e disgregarli”.

Di padre in figlio

La sparizione forzata si articola su più livelli. Comincia con l’arresto arbitrario ed è sempre seguita da detenzione illegale, maltrattamenti e torture nelle forme più diverse: fisiche, psicologiche e sessuali. L’esito è spesso la morte. Un processo, anche se ingiusto, è quasi un sollievo, perché fa ammettere l’arresto e la detenzione. Il padre dell’attuale dittatore, Hafez al Assad, ha preceduto il figlio nell’uso di quest’arma del terrore. Il solo nome di Palmira faceva tremare la Siria e il vicino Libano, perché nei pressi delle rovine della città romana si trovava la prigione più orribile del paese, dove gli oppositori sparivano.

Due fratelli di Anwar al Bunni, avvocato siriano nato in una famiglia di militanti comunisti e direttore del Centro siriano di studi e ricerche giuridiche, ci hanno trascorso sei anni, senza che nessuno sapesse più nulla di loro. “Furono arrestati rispettivamente nel 1977 e nel 1978 e non ne abbiamo più saputo nulla fino al 1981, quando furono rilasciati. Poi sono stati incarcerati ancora, dal 1986 al 1994. Gli arresti arbitrari e le sparizioni sono stati usati dagli Assad fin dall’invasione siriana del Libano nel 1975. Molti libanesi ne sono stati vittime”.

Bashar al Assad ha superato il padre in ferocia. Fin dai primi mesi della rivoluzione, spaventati dalla determinazione popolare a rovesciare il regime, Assad e il suo clan hanno trasformato gli arresti arbitrari e le sparizioni forzate in una regola. “Sotto Hafez gli arresti delle persone e a volte dei loro familiari erano un mezzo di pressione”, racconta Sana Yazigi, creatrice del sito di archivio Creative memory of the Syrian revolution. “Con Bashar, durante la rivoluzione, il fenomeno è diventato di massa e sistematico. Riguarda intere famiglie, persone che passavano per strada accanto a un posto di blocco, prese a caso. È su una scala enorme”.

Al Bunni è stato imprigionato tra il 2006 e il 2011. È dovuto fuggire dal paese nel 2014. Rifugiato a Berlino si dedica a rintracciare i criminali siriani in Europa. “La sparizione forzata è l’arma più potente del regime. Perché colpisce tutte le famiglie siriane, in un modo o nell’altro”, spiega. “Ogni siriano subisce questa minaccia. Cosa succede se torno in Siria? Se mi arrestano e mi processano posso difendermi. Ma non sarà così. Mi arresteranno e sparirò. Allo stesso modo, se oso alzare la voce e parlare contro il regime, i miei familiari rimasti in Siria potrebbero scomparire”.

La sparizione forzata è diventata un pilastro del regime, tanto che intorno si è sviluppata un’industria mafiosa, di cui beneficiano i maggiori responsabili della macchina della morte. Anche in questo caso, la storia dei Dabbagh è esemplare. La moglie di Mazen ha pagato 15mila dollari a un intermediario che avrebbe dovuto far uscire padre e figlio. Senza successo. Decine di migliaia di famiglie hanno sborsato somme folli per un indizio, una promessa, alcune sono state truffate più volte quando i loro cari erano già morti.

Un altro aspetto di questo sistema mafioso è il furto delle proprietà degli scomparsi. “La casa di famiglia dei Dabbagh è stata confiscata e rubata da Abdel Salam Mahmoud, capo del servizio investigativo dell’intelligence dell’aviazione che sta dietro l’arresto di Mazen e Patrick”, chiarisce Le Caisne. “Hanno buttato via centinaia di libri di Mazen e tutti gli album fotografici di famiglia. Di fatto, hanno rubato la storia privata della famiglia”. Abdel Salam Mahmoud è uno dei tre accusati di crimini contro l’umanità nel processo.

Da quando le sparizioni forzate sono diventate un sistema di repressione di massa, i siriani lottano contro l’oblio. Per trovare tracce e prove. Ci sono i testimoni, uomini e donne che sono passati per il carcere e che, sui social network, hanno fornito i nomi raccolti nell’inferno delle prigioni. C’è il dossier Caesar, il nome in codice del fotografo militare che ha disertato e consegnato all’opposizione 55mila immagini di undicimila corpi seviziati, morti per tortura, fame o malattie in detenzione. Migliaia di famiglie hanno riconosciuto nelle foto i loro cari scomparsi.

Nel 2022 dieci associazioni siriane hanno lanciato la Carta per la verità e la giustizia e hanno pubblicato uno studio sui modi per rivelare il destino delle persone scomparse. L’assemblea generale delle Nazioni Unite ha affrontato la questione e nell’agosto 2022 il segretario generale ha proposto la creazione di un meccanismo indipendente, attualmente in fase di organizzazione, per cercare e identificare gli scomparsi in Siria. Ciò risponde anche alla richiesta di aiuto delle organizzazioni siriane e al loro desiderio di conservare le informazioni in un unico luogo sicuro.

“Le sparizioni forzate sono una ferita immensa. Talmente grande che accomuna – ed è l’unica cosa a farlo – tutti i siriani, dentro e fuori il paese, perché tutti hanno detenuti e persone scomparse”, afferma Sana Yazigi. “La maggior parte per mano del regime, ma anche dell’Is, dei curdi, di Jabhat al nusra e così via”.

Creative memory of the Syrian revolution dedica un progetto a questo tema. “L’arte e gli artisti sono testimoni dal marzo 2011. Abbiamo pubblicato più di 1.500 opere, di tutte le categorie, che parlano di detenzione e sparizione”, spiega Yazigi. “Le stiamo trasformando in un libro”.

Rapporti, testimonianze, arte, processi, come quello che si è concluso a Parigi, e un unico obiettivo: che gli scomparsi non siano mai cancellati dalla faccia della terra e dalla memoria dell’umanità. Che il regime siriano, in questa impresa di annientamento, sia sconfitto. ◆ adg

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Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati