L’oppressione israeliana era sotto gli occhi di tutto il mondo, e nessuno poteva mettere in dubbio che i palestinesi fossero le vittime. La loro causa appariva giusta ed era il momento di ridare vita alla questione palestinese, a lungo in ombra.

Ma Hamas, il movimento che controlla la Striscia di Gaza sostenuto dall’Iran, ha deciso di sottrarre ai palestinesi lo slancio che avevano acquisito durante la mobilitazione in difesa delle famiglie a rischio di espulsione nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. E ha sfruttato l’occasione per trasferire lo scontro da Gerusalemme a Gaza, trasformandolo da una sollevazione contro una forza di occupazione in una guerra balistica. Israele si è rallegrato di questa mossa, che gli ha consentito di distogliere l’attenzione dai crimini dei coloni.

All’inizio della mobilitazione a Gerusalemme avremmo potuto assistere a una terza intifada. Eravamo di fronte a un’occupazione violenta e si stava formando un’opinione pubblica globale che considerava arbitrarie e ingiuste le sentenze dei tribunali israeliani. Oggi invece dobbiamo fare i conti con uno scontro militare in cui il mondo eviterà di prendere posizione. E che non permette ai civili di Gerusalemme di avere un ruolo.

Era la prima volta che i palestinesi abitanti d’Israele facevano fronte unico con quelli dei territori occupati e di Gerusalemme Est. In uno scenario del genere, il governo israeliano non poteva fare molto. Non poteva invocare un pericolo imminente per giustificare la repressione. Stavano già emergendo i contorni di questa nuova intifada: civili palestinesi di fronte a coloni israeliani armati e una polizia che difende chi viola il diritto dei palestinesi a vivere dove sono nati.

Benjamin Netanyahu sperava in un regalo da Gaza e l’ha avuto. Era con le spalle al muro, incapace di formare un governo, ed ecco che la situazione gli apre nuovi orizzonti e gli permette di ritrovare dei margini di manovra. Allo stesso tempo Hamas ha l’opportunità di trasformare l’oppressione in un modello attraverso il quale continuare a governare il territorio sotto il suo controllo.

Gli abitanti di Gerusalemme sono le vittime di questo scontro. È lo stesso meccanismo da decenni. Gli arabi smetteranno di applaudire i lanci di razzi al momento del cessate il fuoco, quando Hamas griderà vittoria e Netanyahu sarà riuscito ad approfittare delle circostanze per formare un nuovo governo o per convocare le quinte elezioni anticipate, durante le quali potrà fregiarsi della sua gloria di guerra. Il tutto dopo un numero sempre più alto di vittime civili.

La posta in gioco

Questo scontro avviene mentre sullo sfondo c’è un’altra questione cruciale: i negoziati di Vienna tra Stati Uniti e Iran sul nucleare. Israele ritiene forse che l’allargamento del conflitto porrà nuovi ostacoli ai negoziatori. E, da parte loro, gli iraniani eccellono nell’arte di negoziare mentre si trovano sull’orlo del baratro. I palestinesi sono abituati a vedere strumentalizzata la loro causa al tavolo di negoziati in cui si parla di questioni che non li riguardano.

Spostando lo scontro da Gerusalemme a Gaza, Hamas ha cambiato la posta in gioco. Se prima la questione era la lotta dei palestinesi contro l’occupazione e la violenza dei coloni, ora lo scontro è tra Tel Aviv e Teheran, mentre Israele guarda con preoccupazione ai negoziati di Vienna e allo stallo politico interno.

Forse bisognerà aspettare di raggiungere una tregua e vedere cosa succederà a Vienna per conoscere il destino degli abitanti di Sheikh Jarrah e capire se ci sarà abbastanza energia per riprendere lo slancio di Gerusalemme. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1410 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati