Prima aveva molta sete, poi sono arrivate le convulsioni. Era troppo stanco per stare seduto e non riusciva più neanche a urinare. Vomitava tutto quello che ingeriva, liquido o solido. Fadhil, 24 anni originario dell’Indonesia, lavorava sulla Wei-Yu 18, una nave cinese specializzata nella pesca di calamari, a 285 miglia nautiche (circa 528 chilometri) dalle coste del Perù. Quando si è ammalato, ha supplicato il responsabile dell’equipaggio di mandarlo a terra per farsi curare. Il responsabile si è rifiutato dicendo che il contratto di Fadhil non era ancora finito e gli ha dato dell’ibuprofene.
“I miei genitori devono riavere il mio corpo”, ha mormorato Fadhil a un altro marinaio, Ramadhan Sugandhi, il giorno prima di morire, dopo quasi un mese di sofferenze, il 26 settembre 2019. Il capitano ha ordinato di avvolgere il cadavere in una coperta e di metterlo nella cella frigorifera, ma il corpo è diventato livido. Meno di tre giorni dopo, i resti sono stati messi in una bara di legno zavorrata con una catena d’ormeggio e gettati in acqua. “Ero disperato”, ricorda Ramadhan.
Imbarcandosi sulla Wei-Yu 18, Fadhil era entrato in quella che è forse la più grande operazione marittima di tutti i tempi. Per soddisfare il crescente appetito mondiale di pesce e frutti di mare, la Cina ha esteso enormemente le sue attività di pesca. Con una flotta d’alto mare di 6.500 navi (cioè il triplo di Taiwan, la sua prima concorrente con una flotta tra 1.100 e 1.800 navi, secondo i dati dell’Istituto Allen per l’intelligenza artificiale, consultati dall’Outlaw Ocean Project), Pechino gestisce anche dei terminal in più di novanta porti in tutto il mondo e sta comprando il sostegno dei governi, in particolare dei paesi costieri dell’America Latina e dell’Africa occidentale. Il risultato è che oggi la grande potenza cinese è l’incontestata numero uno mondiale della pesca.
Il suo controllo sulle acque del pianeta ha un costo umano e ambientale enorme. Il mestiere di pescatore ha già di per sé un tasso di mortalità altissimo. A questo si aggiunge che le navi cinesi specializzate nella cattura dei calamari sono tra quelle dove si lavora nelle condizioni più terribili. Il lavoro per debiti (una forma assimilata alla schiavitù), la tratta di esseri umani, le violenze, le negligenze, le ferite e la morte sono all’ordine del giorno. Quando l’ong inglese Environmental justice foundation ha intervistato 116 indonesiani che tra il settembre 2020 e l’agosto 2021 si erano imbarcati sui pescherecci cinesi, il 97 per cento di loro ha parlato di lavoro per debiti, di documenti d’identità confiscati e di compensi non pagati; il 58 per cento aveva visto o subìto delle violenze fisiche.
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La Cina è anche al primo posto per la pesca illegale, in particolare per quella dei calamari. Il Parlamento europeo ha commissionato un rapporto (pubblicato nel 2022) sui casi di pesca illegale, non dichiarata né regolamentata, osservati tra il 1980 e il 2019 nel mondo. Secondo il rapporto, nella metà dei casi le navi identificate erano imbarcazioni cinesi per la pesca dei calamari. Quando si tratta dei diritti dei lavoratori e della preservazione degli oceani, la Cina ignora non solo le regole internazionali e la pressione dei mezzi d’informazione, ma è anche poco trasparente sulla sua flotta e gli impianti di trasformazione, osserva Sally Yozell, direttrice del programma di sicurezza ambientale dello Stimson center, un centro di ricerca di Washington. Poiché gran parte del pesce consumato negli Stati Uniti è pescato e trasformato dalla Cina, è molto difficile per i distributori determinare se il prodotto che vendono viene dalla pesca illecita o è legato a violazioni dei diritti umani.
Una volta portato sulla terraferma, il pescato è spesso lavorato in Cina, in stabilimenti che usano manodopera uigura. In dieci anni il governo cinese ha deportato decine di migliaia di persone della minoranza musulmana dello Xinjiang. Le ha ammassate su treni, aerei e pullman per poi mandarle dall’altra parte del paese, sulla costa orientale, nelle fabbriche della provincia dello Shandong, la più importante per il settore della pesca. Nel 2022 le Nazioni Unite hanno confermato che alcuni documenti del governo cinese rivelavano un uso della forza per includere i “lavoratori in eccedenza” uiguri nei programmi di trasferimento. Lo stesso anno anche l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) ha espresso la sua “profonda preoccupazione” per le politiche del lavoro nello Xinjiang, denunciando le deportazioni di manodopera.
Sulla base di email e relazioni annuali aziendali e di documenti provenienti dai mezzi d’informazione statali e dai social network cinesi, abbiamo potuto accertare che negli ultimi cinque anni più di un migliaio di persone, uigure o di altre minoranze musulmane, sono state mandate a lavorare in almeno dieci fabbriche per la trasformazione del pesce.
L’industria ittica cinese usa anche manodopera nordcoreana, per lo più negli impianti della provincia del Liaoning, nel nordest della Cina. Di fatto da trent’anni il governo della Corea del Nord spedisce i suoi cittadini nelle fabbriche della Russia e della Cina, prendendosi fino al 90 per cento dei loro stipendi, cioè centinaia di milioni di dollari all’anno. Dal novembre 2022 più di 80mila nordcoreani hanno lavorato nelle città di frontiera cinesi, e diverse centinaia negli impianti per la trasformazione del pesce. Alcuni video pubblicati nel novembre 2022 su Douyin (la versione cinese di TikTok), mostrano delle donne nordcoreane impegnate nelle fabbriche di Dandong e di Donggan, nel Liaoning.
Una storia ordinaria
La storia di Fadhil è tristemente comune. Come la maggior parte delle persone che lavorano in alto mare, aveva avuto un posto sulla Wei-Yu 18 attraverso un’agenzia di collocamento. Queste agenzie gestiscono tutto, dalla retribuzione ai biglietti aerei fino alle tasse e i passaporti, e agli uomini che reclutano promettono un’altra vita, più ricca. Nel luglio 2018, dopo averne sentito parlare in giro, alcuni indonesiani, tra cui Fadhil, avevano lasciato il loro villaggio per andare nella capitale Jakarta. Avevano aspettato lì due mesi prima di imbarcarsi, nel frattempo avevano firmato i contratti. Senza giorni di riposo per malattia né straordinari, questi ragazzi avrebbero lavorato con turni da 15 a 24 ore consecutive, a volte sette giorni su sette. Dallo stipendio mensile gli avrebbero trattenuto cinquanta euro per i pasti, e se la nave non si fosse trovata vicino a un porto comodo per il rimpatrio dei marinai, il capitano sarebbe stato autorizzato a prolungare all’infinito il loro soggiorno a bordo. Gli stipendi sarebbero stati versati alle famiglie in una sola volta, alla fine del contratto, un sistema illegale nella maggior parte dei paesi.
Con sede a Bogor, a sud di Jakarta, l’agenzia PT Multi Maritim Baru ha assunto almeno tre degli indonesiani che hanno lavorato con Fadhil a bordo della Wei-Yu 18. Anche se inizialmente gli erano stati proposti più di 450 dollari al mese, questi uomini avevano dovuto fare subito i conti con la realtà: i loro stipendi si avvicinavano ai trecento dollari, da cui erano trattenute delle percentuali. L’agenzia si era limitata a vaghe spiegazioni tra montagne di carte, calcoli frettolosi e termini poco familiari: “Confisca dei passaporti”, “tasse obbligatorie”, “retribuzioni secondarie”. Inoltre i marinai avrebbero pagato delle penalità che potevano arrivare fino a mille dollari se avessero abbandonato la nave prima della scadenza del contratto. La PT Multi Maritim Baru non ha voluto rispondere alle richieste di chiarimenti dell’Outlaw Ocean Project.
Così il 28 agosto 2018 Fadhil era salito a bordo della Wei-Yu 18 nel porto di Pusan, in Corea del Sud, e si era unito a un equipaggio composto da nove indonesiani e venti cinesi. La barca bianca e rossa, corrosa dalla ruggine, aveva navigato per settimane prima di raggiungere le coste sudamericane, per pescare vicino al Perù e poi più a sud, al largo delle coste del Cile. In 22 mesi, avrebbe fatto uno solo scalo, a Punta Arenas, in Cile, mentre per il resto del tempo sarebbe rimasta a centinaia di chilometri dalle coste. Gli uomini lavoravano in turni di 12-24 ore consecutive, per lo più di notte, quando la pesca di calamari è più produttiva.
L’80 per cento dell’equipaggio andrebbe via, se ne avesse la possibilità
A bordo dormivano in quattro per cabina, su letti di legno a castello, con una sola coperta a testa. Le pareti erano ricoperte di condensa e i materassi di gommapiuma erano fradici. L’acqua da bere, color ruggine, aveva un sapore metallico (i colleghi cinesi avevano diritto all’acqua in bottiglia). E per lavarsi potevano usare solo l’acqua di mare. La violenza era all’ordine del giorno: gli uomini hanno raccontato che il capo dell’equipaggio e il capitano prendevano a testate, schiaffi e calci chi non capiva le istruzioni in cinese, ci metteva troppo a sbrogliare le lenze o faceva cadere i calamari sul ponte.
Nell’agosto 2019, dopo più di un anno passato in mare, l’equipaggio della Wei-Yu 18 era stato colpito da un’epidemia di beriberi, una malattia peraltro facile da evitare. Provocata da una carenza di vitamina B1, il beriberi è spesso il frutto di un’alimentazione poco varia, a base di alimenti come il riso bianco. I due primi indonesiani ad ammalarsi erano stati trasportati sulla terraferma da un altro peschereccio, erano stati curati e una volta guariti erano potuti rientrare a casa in aereo. Quando nel settembre 2019 era stato Fadhil ad ammalarsi, lui e altri marinai avevano chiesto al capo dell’equipaggio di poter rientrare a casa o entrare in ospedale. In base al contratto, il suo lavoro di un anno era già finito. Ma, secondo altri pescatori, il responsabile dell’equipaggio ha detto a Fadhil che doveva rimanere a bordo due anni. Meno di un mese dopo il ragazzo era morto, e neanche tre giorni dopo il capitano aveva ordinato di gettare il suo corpo in mare. Sosteneva di aver ricevuto l’autorizzazione dai genitori di Fadhil, cosa che esaspera ancora di più gli indonesiani, che non gli credono. “Quale genitore si sbarazzerebbe in questo modo di un figlio?”, dice indignato Ramadhan Sugandhi.
Quasi trenta mesi dopo la morte di Fadhil, un giornalista del progetto The Outlaw Ocean ha individuato la Wei-Yu 18 nella zona di pesca del Blue Hole, circa 386 miglia nautiche a nord dell’arcipelago delle Falkland (Malvine). Per radio un uomo gli ha confermato di essere da dieci anni il capitano dell’imbarcazione, ma ha rifiutato di rispondere a domande su Fadhil o di far salire a bordo il giornalista, citando come scusa il covid-19.
Nuove rotte
Da decenni i cinesi stanno rafforzando la loro presenza nei mari. Hanno cominciato nel 1985, quando la China National Fisheries Corporation (Cnfc) inviò tredici pescherecci con a bordo 233 uomini al largo della Guinea Bissau, nell’Africa occidentale. Oggi questo colosso statale è la più grande azienda di pesca d’altura al mondo. E la Wei-Yu 18, su cui è morto Fadhil, è una delle centinaia di imbarcazioni che le forniscono pesce e frutti di mare. La Cnfc possiede più di 250 tra pescherecci e navi rifornimento, almeno sei stabilimenti per la trasformazione e magazzini refrigerati, e più di quindici navi frigoriferi che portano a terra il pescato: un gran numero di queste imbarcazioni viola impunemente le leggi internazionali.
Per gran parte del novecento la pesca d’alto mare è stata dominata da tre paesi: l’Unione Sovietica, il Giappone e la Spagna. Tuttavia, con la dissoluzione dell’Urss nel 1989 e con l’aumento dei costi per esigenze sociali e ambientali, queste flotte hanno faticato a rimanere competitive sul mercato internazionale e hanno perso terreno. Nel frattempo la Cina investiva miliardi di dollari, approfittava delle nuove tecnologie per farsi spazio e consolidava la sua autonomia costruendo all’estero impianti per la lavorazione del pescato, depositi frigoriferi e porti.
Questa politica ha dato risultati che vanno oltre ogni aspettativa. Nel 2020 la Cina è arrivata a 2.269 milioni di tonnellate di prodotti ittici, una quantità enorme rispetto ai novanta milioni di tonnellate del 1988. Oggi è l’indiscusso campione mondiale della pesca. Nessun paese gli si avvicina nemmeno lontanamente.
Per la Cina questa “armata” ha un valore immenso. Non solo le permette di mantenere il primato, ma la aiuta anche a creare lavoro, a ottenere profitti e a sfamare una classe media in piena espansione. Può aprire nuove rotte commerciali, dimostrare la sua forza sulla scena, difendere le rivendicazioni su diversi territori e consolidare la sua influenza nel mondo in via di sviluppo.
Per gli analisti politici occidentali, questo potere su una risorsa così preziosa come il pesce crea un pericoloso squilibrio. Gli esperti del mondo marino e i difensori degli oceani avvertono: Pechino può compromettere la sicurezza alimentare di tutti, minacciare il diritto internazionale e inasprire le tensioni militari. “Molti paesi usano metodi di pesca distruttivi, ma la Cina in più ha una flotta colossale e se ne serve per obiettivi geopolitici”, avverte Ian Ralby, responsabile dell’I.R. Consilium, una società di consulenza specializzata in sicurezza marittima. “Nessun altro stato possiede tanti pescherecci e impianti per la trasformazione, ha leggi che obbligano i suoi pescherecci a raccogliere e a trasmettere informazioni al governo, o invade così attivamente le acque degli altri stati”. Con la sua flotta d’alto mare, prosegue Ralby, la Cina cerca di appropriarsi delle acque internazionali. Appoggiandosi al concetto giuridico di “prescrizione acquisitiva”, che accorda diritti di proprietà a chiunque occupi e controlli una zona per un determinato periodo di tempo. Firmato di recente da 193 paesi, il trattato dell’Onu sull’alto mare mira a proteggere la biodiversità marina e, in futuro, il 30 per cento degli oceani. Ma quasi certamente il trattato non potrà fare molto contro le ambizioni cinesi. “Probabilmente la Cina pensa che la presenza della sua flotta le darà dei diritti su queste acque e sulle risorse che contengono”, continua Ralby. “Il 70 per cento della superficie della Terra è coperto dall’acqua, quindi dobbiamo attivarci contro qualsiasi tentativo di uno stato di appropriarsi di questi beni comuni”.
Gregory Poling, del centro studi statunitense Center for strategic and international studies, mette in evidenza un altro problema: centinaia di pescherecci cinesi non pescano. Come una sorta di milizia civile, cercano d’imporre le rivendicazioni territoriali di Pechino, che in molti casi riguardano le riserve di petrolio e di gas presenti nei fondali marini. Il controllo del mar Cinese meridionale, per esempio, fa parte dello stesso progetto che comprende il controllo di Hong Kong e di Taiwan, spiega Poling. Lo scopo è riconquistare i territori “persi” e restaurare la gloria cinese del passato.
La Cina sta costruendo questo impero nel momento in cui il mondo ha più che mai fame di prodotti ittici. Il pesce, ultima grande fonte di proteine non di allevamento, costituisce un pilastro fondamentale dell’alimentazione di gran parte dell’umanità. In cinquant’anni il consumo mondiale si è più che quintuplicato, e il settore soddisfa questa domanda grazie a progressi tecnologici come la refrigerazione, il miglioramento dei motori e degli scafi, e i radar. Altra piccola rivoluzione: la navigazione satellitare permette alle navi di rimanere più a lungo in mare e di percorrere distanze maggiori.
La pesca industriale ormai somiglia più a una scienza che a un’attività artigianale, più a una forma di raccolto che a un’attività di caccia. Competere con la Cina richiede conoscenze e capitali che mancano al Giappone e agli altri paesi europei. Senza dimenticare che il gigante cinese è estremamente determinato a vincere.
Pechino ha allargato la sua flotta, soprattutto grazie a sovvenzioni pubbliche, che nel 2018 hanno raggiunto circa sette miliardi di dollari (6,02 miliardi di euro). Nessun altro paese ha aiutato così generosamente la pesca. La maggior parte di questi sussidi serve a coprire spese come l’acquisto di carburante o di nuove imbarcazioni. Per gli scienziati marini sono investimenti molto dannosi perché facendo aumentare le dimensioni e l’efficienza delle flotte contribuiscono a ridurre le riserve ittiche già in difficoltà.
Il sostegno del governo è vitale per la flotta cinese. Secondo Enric Sala, direttore del progetto Pristine seas del National Geographic, senza le sovvenzioni più della metà della pesca mondiale d’alto mare sarebbe in perdita (la pesca dei calamari con la totanara è la meno redditizia).
La Cina fornisce alla sua flotta anche un sostegno logistico, per la sicurezza e lo scambio di informazioni riservate. Invia ogni settimana ai pescherecci specializzati nella pesca di calamari una lista con le dimensioni e la posizione delle più grandi colonie di questi molluschi. In questo modo aiuta le imbarcazioni a decidere quando e dove pescare, e a lavorare in modo coordinato. Nel luglio 2022 un giornalista ha potuto seguire un gruppo di circa 260 barche che pescavano calamari in una zona a 340 miglia nautiche a ovest delle Galapagos. Un giorno ha visto il grosso della flotta spostarsi improvvisamente e quasi all’unisono verso una zona a circa 115 miglia nautiche a sudovest. “Manovre simili sono insolite”, commenta Ted Schmitt, direttore del programma di sorveglianza marittima Skylight. “Negli altri paesi i pescherecci non lavorano in modo così coordinato”.
Giornalisti a bordo
Negli ultimi quattro anni una squadra di giornalisti del progetto Outlaw Ocean ha condotto un’inchiesta mondiale sulla catena di approvvigionamento del pesce e dei frutti di mare. L’inchiesta si è occupata in particolare delle condizioni di lavoro, delle violazioni dei diritti umani e dei reati ambientali. Si è concentrata in particolare sull’enorme flotta d’altura cinese attiva in tutto il mondo e tristemente famosa per la sua violenza. I giornalisti hanno intervistato gli ufficiali e sono saliti a bordo di imbarcazioni che navigano nell’oceano Pacifico meridionale in prossimità delle Galapagos, nell’Atlantico meridionale vicino alle isole Falkland (Malvine), nell’oceano Atlantico vicino al Gambia e nel mare del Giappone al largo della Corea.
Questo lavoro ha messo in luce una lunga e dettagliata lista di violazioni dei diritti umani e del diritto del lavoro: dipendenza per motivi economici, blocco dello stipendio, orari di lavoro eccessivi, confisca dei passaporti, mancato accesso alle cure mediche, violenze fisiche che possono provocare la morte e così via. Su molte di queste imbarcazioni cinesi gli equipaggi lavorano 15 ore al giorno, sei giorni alla settimana, e vivono in spazi molto ridotti. Ferite, tagli, malnutrizione e malattie sono all’ordine del giorno, in particolare il beriberi, riscontrato dai giornalisti in molti casi. La storia di Fadhil descrive bene la schiavitù moderna che caratterizza i pescherecci cinesi.
Nel febbraio 2022, con l’aiuto dell’ong per la protezione degli oceani Sea Shepherd, diversi giornalisti sono stati autorizzati a salire a bordo di un peschereccio cinese che operava nel Blue Hole, un sito particolarmente ricco di calamari nell’Atlantico meridionale, vicino alle Falkland. Il capitano gli ha permesso di circolare liberamente sulla barca a condizione di non citare né il suo nome né quello dell’imbarcazione.
Nella pesca al calamaro la maggior parte del lavoro avviene di notte. Le barche sono circondate da centinaia di lampade grosse come palle da bowling, che attirano i cefalopodi verso la superficie. Una volta issati sul ponte, i molluschi secernono fiumi d’inchiostro violaceo. Caldo e viscoso, il liquido coagula in pochi minuti e ricopre tutte le superfici, che diventano molto scivolose. E poiché i calamari d’alto mare contengono molta ammoniaca per galleggiare meglio, la barca è invasa rapidamente da un pestilenziale odore di urina.
Da ogni lato della barca pendono una cinquantina di totanare azionate da mulinelli automatici. I membri dell’equipaggio sul ponte sono incaricati di sorvegliare due o tre mulinelli alla volta e di assicurarsi che non si blocchino. Questi forzati del mare sono emaciati, hanno i denti gialli per le sigarette che fumano in continuazione, le mani tagliate e gonfie per l’umidità. Il loro sguardo è assente, perso nel vuoto. L’espressione del volto ricorda le parole del filosofo sciita Anacarsi, che divideva gli uomini in tre categorie: i vivi, i morti e quelli che vanno per mare.
Ferite, tagli, malnutrizione e malattie sono all’ordine del giorno
Sul ponte due cinesi con giubbotto di salvataggio arancione sorvegliano i mulinelli. Uno di loro ha 28 anni, l’altro 18. Per quella che è la loro prima esperienza in mare, hanno firmato un contratto di due anni. Guadagnano circa diecimila dollari all’anno, ma se mancano un giorno di lavoro a causa di una malattia o di una ferita, perdono tre giorni di paga. Il più anziano racconta di aver visto un membro dell’equipaggio rompersi un braccio con una totanara che oscillava violentemente.
Mentre il capitano rimaneva sul ponte, un ufficiale ha seguìto uno dei reporter in ogni suo spostamento. Ma quando a un certo punto l’ufficiale è stato chiamato e ha dovuto allontanarsi, il più anziano dei marinai ha spiegato al giornalista di essere trattenuto sulla barca contro la sua volontà: “Non vogliamo rimanere qui, siamo trattenuti con la forza. È impossibile essere felici su questa barca”. Ha detto che l’80 per cento dell’equipaggio se ne andrebbe se ne avesse la possibilità. “Viviamo isolati dal resto del mondo”. Il più giovane, nervoso, si è rifugiato in un corridoio buio per chiedere sottovoce aiuto al giornalista: “Ci hanno preso i passaporti e non vogliono restituirceli”. Poi, per timore di essere sentito, ha taciuto e ha scritto su un pezzo di carta il suo numero di telefono: “Lo può dare all’ambasciata in Argentina?”.
L’uomo che li sorvegliava in assenza dell’ufficiale ha dovuto a sua volta allontanarsi, cosa che ha permesso ai pescatori di continuare a parlare con il giornalista. “Ora non posso dirle molto, ho paura di provocare dei problemi sulla barca e ci devo ancora lavorare”, ha scritto il diciottenne sul suo telefono. “Per favore contatti la mia famiglia”, ha implorato il ragazzo, prima di interrompere bruscamente la conversazione al ritorno del sorvegliante.
Le storie di uomini diventati prigionieri su queste barche continuano a circolare. Di recente, nel giugno 2023, una bottiglia è stata ritrovata su una spiaggia di Maldonado in Uruguay. Al suo interno il messaggio di un marinaio di un’altra nave cinese di pesca al calamaro diceva: “Salve, faccio parte dell’equipaggio della Lu-Qing-Yuan-Yu 765, sono prigioniero. Se trovate questo messaggio, chiamate per favore la polizia! SOS”. L’azienda proprietaria del peschereccio, la Qingdao Songhai Fishery, sostiene che siano accuse inventate.
La lettera
A Gampong Rawa, un piccolo villaggio costiero all’estremità settentrionale dell’isola di Sumatra, quasi 2.400 chilometri a nordovest di Jakarta, la famiglia di Fadhil ha ricevuto una lettera, ufficialmente per delle questioni che riguardano l’assicurazione. Secondo il documento, “Fadhil è morto cadendo in mare (anche se le foto della sua inumazione dimostrano il contrario), e la famiglia ha ricevuto un aiuto per presentare una domanda d’indennizzo all’assicurazione”.
Nel corso di alcune interviste, tre indonesiani della Wei-Yu 18 hanno raccontato che non avevano mai lavorato in alto mare in passato e che non sospettavano quali rischi correvano. Secondo la definizione dell’Ilo, si parla di lavoro forzato quando una persona compie un lavoro “contro la sua volontà e sotto la minaccia di una pena”. Una definizione che spesso si adatta alle condizioni di lavoro a bordo della Wei-Yu 18. Ed è quello che ha indicato un sondaggio confidenziale realizzata sulla barca nel luglio 2020 da C4ads, un’altra organizzazione di ricerca nel campo della sicurezza. Le accuse sono numerose: percosse, carenza di cibo, condizioni di vita malsane, dipendenza per debito. La sua conclusione è che sulla Wei-Yu 18 le prove di lavoro forzato erano evidenti.
A causa dell’opacità delle catene mondiali di approvvigionamento dei prodotti ittici, sono pochi i distributori che non sanno con precisione da dove arrivano i prodotti che commercializzano e quali sono le condizioni di vita a bordo dei pescherecci. Secondo i registri di esportazione che abbiamo potuto consultare, tra maggio 2017 e maggio 2022 la società Shandong Baoma, a cui appartiene la Wei-Yu 18, ha consegnato negli Stati Uniti più di 140 tonnellate di calamari. Sul suo sito internet l’azienda spiega che vende i suoi prodotti in Giappone, in Corea del Sud, in Europa e, attraverso una filiale di Walmart, in Cina. La Shandong Baoma non ha risposto alle richieste di commentare i suoi rapporti con i responsabili di attività di pesca illegale e violazioni dei diritti umani. Un portavoce di Walmart ha risposto per email: “Walmart pretende che tutti i fornitori rispettino i suoi standard e gli obblighi contrattuali, in particolare nel campo dei diritti umani”.
A proposito del caso di Fadhil, Victor Weedn, medico legale di Washington, osserva che lasciar morire un marinaio di beriberi costituisce quasi certamente una negligenza criminale, perché questa malattia si può prevenire semplicemente con un’alimentazione varia o con degli integratori vitaminici, e si può curare con un trattamento adeguato. È disumano lasciar morire in questo modo una persona dopo settimane di sofferenza, aggiunge con rabbia: “Equivale a far morire qualcuno a fuoco lento, è un omicidio”. ◆ adr
Ian Urbina è un giornalista statunitense. Ha lavorato per anni al New York Times, dove nel 2009 ha partecipato a una serie di inchieste sul governatore di New York che hanno vinto il premio Pulitzer. È il fondatore di The Outlaw Ocean Project.
Questa inchiesta è stata realizzata da The Outlaw Ocean Project, un’organizzazione giornalistica non profit di Washington, Stati Uniti, ed è uscita anche sul quotidiano francese Le Monde. Hanno contribuito al lavoro d’indagine e alla redazione Ian Urbina, Joe Galvin, Maya Martin, Susan Ryan, Daniel Murphy e Austin Brush.
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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati