Mario Calabresi, giornalista e scrittore, scrive un libro in cui il messaggio principale non è solo la storia in sé, ma come fare a tramandarla oltre la vita di chi l’ha vissuta. Chi racconterà la shoah quando non ci sarà più un testimone che ha vissuto quell’orrore? Come prevenire l’amnesia, la rimozione, per mancanza di testimoni? È un tema attuale e delicato. Riguarda la vita e la morte, la memoria e la sua presenza costante in una società che preferisce dimenticare. Per raccontare tutto questo ai bambini Calabresi crea due personaggi: una nonna e un nipote, Joshua e Andra, sopravvissuta ad Auschwitz. È Joshua a farsi carico della storia della nonna. E per spiegarlo meglio alla sua classe, compagni e professori, fa una cosa bizzarra. Si chiude in garage per una settimana in modo da patire il freddo, la fame, avere un po’ paura. Così non può capire a pieno l’esperienza devastante della nonna, ma ci si può avvicinare. Il ragazzo sa che Auschwitz non è stato solo freddo e fame, ma crudeltà, violenza perpetua, lenta asfissia di speranza. Però il suo piccolo esperimento gli permette di farsi in qualche modo carico della vita della nonna e raccontarla. Joshua è la risposta che Calabresi dà a tutte le bambine e i bambini. La memoria è nel racconto, e nel riuscire a farlo proprio. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1507 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati