Negli ultimi anni il Giappone ha promosso la sua immagine all’estero con una campagna chiamata “Cool Japan” (il Giappone fico), nel tentativo di attirare i turisti con insegne futuristiche, un’affascinante cultura tradizionale e richiami moderni come i manga, gli anime e, più in generale, un’idea di accogliente dolcezza. Tuttavia, dopo che per due anni le frontiere del paese sono rimaste chiuse agli stranieri relegando studenti, lavoratori e familiari di cittadini giapponesi in un limbo, quell’immagine è cambiata. Il nuovo slogan è “cruel Japan” (il Giappone crudele).

Lo storico quotidiano Nikkei, di orientamento liberista, si è occupato dei danni che questa situazione ha causato alla reputazione del Giappone e al suo soft power (influenza culturale) a livello globale. Un articolo pubblicato l’11 febbraio chiamava la terza economia del mondo zankoku Nihon, Giappone crudele. Nel giro di ventiquattr’ore l’hashtag #CruelJapan è diventato di tendenza su Twitter nel paese asiatico. Come al solito utenti di destra e nazionalisti hanno cercato di respingere le accuse, ma molti altri si sono dimostrati d’accordo. Insomma, l’articolo del Nikkei ha fatto scalpore. E la sua tesi è tutt’altro che infondata.

Il danno fatto non riguarderà solo la reputazione del paese

Secondo i mezzi d’informazione giapponesi, sono più di 140mila gli studenti con permesso di soggiorno per motivi di studio a cui è negato l’ingresso nel paese, e alcuni aspettano da più di due anni. All’inizio di gennaio più di quattrocentomila cittadini stranieri, studenti compresi, erano in lista d’attesa.

Secondo l’Agenzia giapponese per l’immigrazione (Isa), tutti avevano già ricevuto un’approvazione preliminare del loro status di residenti.

Dagli ambienti legati agli affari a quelli accademici di tutto il mondo sono piovute critiche contro le misure adottate dal Giappone per affrontare la pandemia, giudicate troppo severe.

Kumi Yokoe, docente di diplomazia dell’università di Tokyo, ha parlato del problema in un’intervista del 1 febbraio al Mainichi Shimbun. Ha sottolineato che, mentre i giapponesi vanno e vengono liberamente dal paese (nel 2021 l’hanno fatto in 512mila), gli stranieri non hanno questa libertà. “Il messaggio che in parte emerge è che ‘i giapponesi si preoccupano solo di se stessi’. I giapponesi possono andare all’estero in vacanza o per studio, mentre ci sono stranieri separati dalle loro famiglie o che aspettano di entrare nel paese da troppo tempo. Chiaramente tutto questo è ingiusto”.

Al controllo delle frontiere che già esisteva si sono aggiunte misure particolarmente severe nel novembre 2020, quando è emersa la variante omicron. Quelle misure stanno cambiando solo ora che nel paese i contagi hanno superato il picco. Il 17 febbraio il governo ha annunciato che avrebbe allentato le restrizioni alle frontiere, aumentando il ritmo degli ingressi di studenti e altre categorie da 3.500 a cinquemila al giorno, anche se i non residenti dovranno dimostrare di aver fatto tre dosi di vaccino. E ha anche detto che ridurrà i tempi di quarantena da sette a tre giorni per i nuovi arrivati. Al momento, però, non è nemmeno chiaro davanti alla porta di quale ufficio della labirintica burocrazia giapponese gli stranieri dovrebbero mettersi in coda.

Quando a novembre è comparsa la variante omicron, nel tentativo di guadagnare il tempo necessario a capire come affrontarla il primo ministro Fumio Kishida si è affrettato a chiudere le frontiere, lasciando molte persone nei guai. Il ministero dei trasporti ha detto alle compagnie aeree di sospendere le prenotazioni per il Giappone. Centinaia di voli sono stati cancellati. Solo quando i cittadini giapponesi che cercavano di tornare si sono infuriati, la richiesta è stata revocata.

Una misura senza senso

Tuttavia è evidente che i controlli alle frontiere “più severi di qualsiasi altro paese del G7”, come li ha definiti Kishida vantandosi, non hanno funzionato. La variante omicron è arrivata e ora più di duecentomila persone sono in quarantena a casa con sintomi lievi.

Ma la chiusura dei confini aveva poco di scientifico e mostrava un lato xenofobo fin dall’inizio. Anche l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) l’ha criticata. “Dal punto di vista epidemiologico è difficile capirne il senso”, ha detto Michael Ryan, capo del programma per le emergenze dell’Oms, durante una conferenza stampa. “Forse i titolari di certi passaporti avranno il virus e altri no? Il virus legge i passaporti? Conosce la nazionalità o la residenza?”.

Il messaggio è stato recepito, almeno da alcuni politici. Taro Kono, combattivo esponente di lungo corso del Partito liberaldemocratico, al governo, è stato uno dei primi a schierarsi. In un’intervista alla Reuters ha fatto eco alle parole degli esperti dell’Oms. “Perché dovremmo discriminare gli stranieri?”, ha detto. “Non ha alcun senso né scientificamente né economicamente”.

Non sono solo gli studiosi e i politici a essere frustrati. Un dirigente statunitense di un’azienda tecnologica a Tokyo – che ha chiesto di rimanere anonimo perché la moglie, giapponese, teme eventuali conseguenze per le sue dichiarazioni – è stato schietto: “È sempre stato difficile attirare in Giappone persone di talento, ma le restrizioni alla frontiera basate su due pesi e due misure, e francamente razziste, imposte durante la pandemia sono state un colpo mortale”, ha detto ad Asia Times. “Mi ha fatto infuriare vedere quelle stesse restrizioni allentate e ignorate per le migliaia di persone arrivate per le Olimpiadi l’estate scorsa”. L’uomo ha aggiunto che il divieto d’ingresso imposto il 1 aprile 2020 è stato esteso ai residenti stranieri, persone che vivono, lavorano e pagano le tasse in Giappone, e non è stato revocato fino al 1 settembre di quell’anno.

Altri si sono espressi esponendosi pubblicamente. Il 9 febbraio Christopher LaFleur, un consigliere speciale della camera di commercio statunitense in Giappone, ha usato termini sprezzanti, che suggeriscono che il danno fatto non riguarderà solo la reputazione del paese. “Il costo economico e sociale della chiusura delle frontiere è enorme. Insieme al blocco del rilascio di nuovi visti ha impedito alle aziende giapponesi e straniere di portare qui i professionisti di cui hanno bisogno. Hanno separato le famiglie, e hanno sicuramente rallentato gli sforzi per rilanciare l’economia del paese”.

Quest’ultimo punto è sostenuto anche dai mezzi d’informazione giapponesi. Secondo il quotidiano economico Nihon Keizai Shimbun, a un certo punto della pandemia l’azienda tedesca Siemens ha sospeso i progetti con le aziende giapponesi che producono macchinari. Anche alcuni nuovi programmi d’investimento sono stati bocciati. Questo perché tra il 10 e il 15 per cento del personale della filiale giapponese della Siemens è composto da cittadini stranieri, che non possono entrare e uscire dal Giappone. Eppure alcuni leader politici di alto livello rifiutano di affrontare la questione.

Impatto duraturo

L’8 febbraio la governatrice di Tokyo Yuriko Koike ha tenuto una conferenza stampa sul suo piano per trasformare la capitale in un centro finanziario globale come Singapore o Hong Kong. Koike ha pronunciato più volte le parole “inclusività” e “diversità”, ma ha evitato l’argomento. Asia Times le ha chiesto: “Come può garantire a uno straniero che venire qui sia conveniente e che sarà trattato come un essere umano, o almeno come un giapponese, dato che molti ormai considerano il Giappone un paese xenofobo in cui si è discriminati se non si è giapponesi? ”. Invece di rispondere la governatrice ha parlato della necessità di prendere misure per prevenire la diffusione del covid-19.

Asia Times ha anche fatto notare a Koike che negli ultimi decenni è stata la prima governatrice di Tokyo a non rendere omaggio ai coreani che lavoravano in Giappone durante il periodo coloniale e che furono massacrati dopo il terremoto di Kanto del 1923. Quel massacro fu frutto della xenofobia che portò i cittadini giapponesi e la polizia a incolpare i coreani per il caos che seguì al disastro naturale.

Gli atteggiamenti xenofobi sono riemersi durante la pandemia. Da qui lo slogan “cruel Japan”, che può danneggiare non solo l’immagine del Giappone, ma anche le aziende giapponesi. Uno studio recente pubblicato dall’Associazione giapponese per la cooperazione internazionale ha rilevato che il Giappone avrà bisogno di 6,74 milioni di lavoratori stranieri nel 2040 per mantenere la sua ricchezza economica. Ma l’eredità di due anni di controlli discriminatori alle frontiere potrebbe avere conseguenze gravi e durature. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1449 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati