D opo l’invasione dell’Ucraina a febbraio, il presidente russo Vladimir Putin ha fatto leva per quasi tutto il 2022 sulla sua presunta onnipotenza energetica, tenendo l’economia mondiale in ostaggio dei suoi capricci. La scorsa estate ha bloccato le forniture di gas all’Europa, sperando che in inverno i cittadini europei, al freddo e senza riscaldamento, si sarebbero rivoltati contro i loro governi, rendendo politicamente insostenibile l’aiuto all’Ucraina. La minaccia era enorme: nel 2021 la Russia aveva esportato l’83 per cento del suo gas in Europa. La vendita al resto del mondo di sette milioni di barili di petrolio al giorno e di duecento miliardi di metri cubi di gas all’anno assicurava al Cremlino la metà circa delle sue entrate. E, cosa ancora più importante, le esportazioni di materie prime svolgevano un ruolo cruciale nelle catene di produzione globali: l’Europa dipendeva dalla Russia per il 46 per cento delle sue forniture di gas e aveva livelli comparabili di dipendenza da altri prodotti russi, tra cui i metalli e i fertilizzanti. Oggi è evidente che la Russia ha perso definitivamente il potere economico di cui godeva sui mercati mondiali. Grazie a un inverno insolitamente mite in Europa, il momento di massima forza ricattatoria di Putin è passato senza incidenti. Anzi, si può dire che la vittima principale sia stata la Russia stessa. Oggi quella forza ricattatoria praticamente non esiste più, perché il mondo – e, cosa più importante, l’Europa – non ha più bisogno del gas russo.
Il vecchio continente non è morto di freddo e invece si è rapidamente assicurato forniture alternative, in particolare quelle di gas naturale liquefatto (gnl), di cui 55 miliardi di metri cubi dagli Stati Uniti (le esportazioni statunitensi di gnl verso l’Europa sono aumentate di due volte e mezzo rispetto a quelle precedenti alla guerra in Ucraina). Grazie anche all’aumento dell’energia ricavata dalle fonti rinnovabili, dal nucleare e, momentaneamente, dal carbone, la dipendenza dell’Europa dal gas russo è scesa al 9 per cento. Inoltre, gli stoccaggi sono stati a malapena intaccati e potranno resistere fino al prossimo inverno inoltrato. A gennaio quelli tedeschi erano pieni al 91 per cento, un record rispetto al 54 per cento dall’anno precedente, e questo significa che nel 2023 l’Europa dovrà comprare una quantità di gas significativamente inferiore rispetto al 2022.
Tempo prezioso
Le implicazioni sono enormi. Oggi l’Europa si è garantita una scorta di gas che basterà come minimo fino al 2024, guadagnando tempo prezioso per adottare e far entrare a pieno regime fonti alternative più economiche. Tra un anno, per esempio, potrebbe essere in condizioni di ricevere ulteriori esportazioni di gnl, fino a duecento miliardi di metri cubi all’anno, che potranno sostituire definitivamente i duecento miliardi di metri cubi esportati dalla Russia. Ormai, inoltre, sono acqua passata i giorni in cui si registravano prezzi elevati dell’energia a causa delle “strozzature nelle forniture volute dal Cremlino”. Non solo si prevede in futuro una domanda più bassa di gnl in Europa, ma anche la Cina si sta orientando verso fonti interne. Se a tutto questo si aggiunge il rapido aumento delle forniture di gnl, non deve sorprendere il fatto che oggi il prezzo attribuito al gas per il 2024 sia inferiore ai livelli di prima della guerra.
A causa della sua arretratezza tecnologica, la Russia non riuscirà ad aumentare le vendite di gnl, già molto basse
A Putin non resta più alcuna leva e non ha modo di sostituire i suoi vecchi clienti. Sta scoprendo a sue spese che, per i compratori, sostituire un fornitore di materie prime inaffidabile è molto più facile di quanto non lo sia, per un fornitore di materie prime, trovare nuovi mercati. Già oggi la Russia non ricava più profitti dalle vendite di gas, perché i 150 miliardi di metri cubi che vendeva all’Europa sono stati sostituiti da sedici miliardi di metri cubi convogliati verso la Cina e qualche spicciolo ricavato dalle vendite globali di gnl, sufficienti appena a coprire le spese. Putin non ha mercati in grado di assorbire neanche lontanamente quello che vendeva all’Europa: almeno per altri dieci anni alla Cina mancheranno i gasdotti necessari a ricevere altro gas e, oltretutto, Pechino preferisce puntare su fonti interne e diversificate. A causa della sua arretratezza tecnologica, la Russia non riuscirà ad aumentare le vendite di gnl, già molto basse.
Si sta indebolendo anche la leva del petrolio. Sono passati i giorni in cui si temeva che la decisione di Putin di eliminare dal mercato le forniture di petrolio russo avrebbe causato improvvisi rialzi, fino al 40 per cento in due settimane. In realtà, quando Putin ha annunciato che dal 1 febbraio vieterà l’esportazione verso i paesi che accettano il tetto al greggio russo voluto dai paesi del G7, i prezzi sono scesi. Come mai? Perché è evidente che il mondo non dipende più dal petrolio di Putin. Il mercato sta volgendo a favore dei compratori visto l’aumento delle forniture, più che sufficienti a compensare possibili diminuzioni della produzione di greggio in Russia (a dicembre il vicepremier Aleksandr Novak ha detto ai mezzi d’informazione russi che Mosca si preparava a diminuire la produzione di greggio fino a settecentomila barili al giorno nel 2023). Oggi i prezzi del petrolio sono più bassi rispetto al periodo precedente alla guerra e già solo nella seconda metà del 2022 si è registrato un aumento di forniture pari a quattro milioni di barili al giorno da produttori come gli Stati Uniti, il Venezuela, il Canada e il Brasile. Con le ulteriori nuove forniture previste quest’anno, qualsiasi ammanco di greggio russo sarà sostituito senza interruzioni né difficoltà nel giro di poche settimane. E questa volta Putin non potrà costringere l’Arabia Saudita a correre in suo aiuto tagliando drasticamente le quote di produzione per l’Opec+, come ha fatto a ottobre.
Il progetto di Putin è fallito anche perché il tetto al prezzo del greggio russo lo vede sconfitto a prescindere. Finirà per erodere la posizione della Russia nel mercato dell’energia, qualunque cosa decida di fare. La Cina e l’India non hanno aderito al tetto, ma lo stanno sfruttando nei loro negoziati con Mosca, ottenendo sconti fino al 50 per cento. Per questo motivo, anche se l’India sta comprando petrolio russo in quantità 33 volte superiori all’anno scorso, la Russia non ci guadagna molto, considerando la soglia dei 44 dollari al barile necessari a coprire i costi di produzione, a cui vanno aggiunte spese molto più alte per i trasporti. Se però Putin dovesse tagliare ulteriormente la sua produzione, come ha minacciato di fare, perderebbe una quota rilevante nel mercato del petrolio, e questo mentre registra un crescente surplus di forniture e i suoi ricavi continuano a diminuire, inguaiando la Russia, che è già drammaticamente a corto di liquidità.
Putin ha puntato anche sulle materie prime. La sua mossa di trasformare in arma il grano è crollata miseramente quando perfino i suoi alleati gli hanno voltato le spalle. E in alcuni mercati dei metalli in cui la Russia ha storicamente una posizione dominante, come quelli del nichel, del palladio e del titanio, la combinazione tra compratori preoccupati da possibili ricatti e prezzi più alti ha accelerato la tendenza al rientro di aziende nei paesi d’origine e rivitalizzato investimenti pubblici e privati nelle filiere minerarie strategiche e nei progetti d’estrazione. Questo sta avvenendo soprattutto nelle Americhe e in Africa, dove si trovano molte riserve minerarie sottoutilizzate. Di fatto la produzione delle miniere che apriranno nei prossimi due anni sarà più che sufficiente a sostituire in modo permanente i metalli russi nelle catene di fornitura globali.
Forza di volontà
Le scommesse economiche fallite di Putin sono solo una parte della lunga lista di errori commessi dal Cremlino, tra cui la sottovalutazione della resistenza ucraina e dell’unità e della forza di volontà dell’occidente. Naturalmente la guerra economica ed energetica di Mosca ha delle conseguenze. Le scelte russe hanno avuto effetti profondi su molte vite, hanno trasformato le catene di produzione, hanno modificato i flussi commerciali, e i consumatori avvertono ancora le difficoltà dovute ai prezzi più alti, perché ci vorrà tempo prima che i ribassi registrati di recente riescano a penetrare in tutti i settori economici. Quello che importa, però, è che s’intravede la fine: Putin non sarà mai più nella posizione di provocare caos e distruzione nell’economia globale come nel 2022, perché ha indebolito in modo permanente e senza alcuna possibilità di recupero l’arma principale della Russia, cioè il suo potere nel campo dell’energia e delle materie prime. Si combatte ancora sul terreno, ma almeno sul fronte economico s’intravede la vittoria. ◆ gim
Jeffrey Sonnenfeld insegna alla Yale school of management, negli Stati Uniti.
Steven Tian dirige lo Yale chief executive leadership institute.
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Questo articolo è uscito sul numero 1496 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati