Q quando Weili Wu si siede a tavola, l’anno del coniglio è appena finito e quello del drago muove i primi passi. Sul vassoio girevole al centro del tavolo tondo passano lingue d’anatra affumicate, stinco di maiale in agrodolce e meduse alla griglia. È passata una settimana dal capodanno cinese, ma fuori dal ristorante si sentono ancora esplodere i petardi e la luce delle lanterne di carta tinge la notte di rosso. Weili, 48 anni, è la titolare del Da Jia Le, il ristorante cinese più popolare di Berlino, la capitale tedesca. Per capodanno è tornata in Cina, a Qingtian, la città che ha lasciato quando aveva diciassette anni. A tavola con lei ci sono la sorella Yangli, per anni titolare del ristorante China-Garten a Wildau, vicino a Berlino; sua cognata Yongli, che lavora nel ristorante China-Palast a Kleve, al confine tra Germania e Francia; e la sorella di Yongli, Yongmei, che gestisce il Kaiser von China, nella periferia della città austriaca di Graz.
Qingtian, nel sudovest della Cina, ha circa 250mila abitanti: in Germania sarebbe considerata una grande città, mentre per gli standard cinesi è piuttosto piccola. Anzi, secondo i parametri amministrativi della Repubblica popolare, non dovrebbe neanche considerarsi una città, ma il capoluogo di un distretto. Eppure, questo posto ha influenzato più di qualunque altro la cucina cinese nel mondo. Sembra che oggi 380mila cinesi originari del distretto di Qingtian vivano all’estero. La maggior parte per lavorare in un ristorante.
Tra le persone sedute al tavolo con il vassoio girevole il solo a non aver mai lasciato la Cina è il suocero di Weili, un ottantenne dai capelli bianchi. L’unica cosa che ha mai sentito dire dell’Europa è che si mangia malissimo. Lo dice ridendo, ma in effetti è l’opinione della maggior parte dei cinesi sulla cucina occidentale.
Passeggiata in riva al fiume
Alla fine del banchetto Weili e i suoi familiari fanno una passeggiata notturna lungo il fiume Ou, che sfocia nel mar Cinese meridionale a cinquanta chilometri di distanza. Mezza città si è riversata sul ponte pedonale per festeggiare l’inizio dell’anno del drago e per far volare dal parapetto le lanterne di carta, che sono spinte verso l’alto dal calore delle candele e poi oscillano al vento seguendo il corso del fiume, oltre le facciate dei grattacieli di trenta piani con le loro luci tremolanti, verso le montagne.
Weili ne ha fatta tanta di strada. A Berlino questa donna minuta e delicata ha compiuto una specie di miracolo: insieme al marito Jun ha messo su un ristorante di autentica cucina cinese, diventato di moda tra i giovani berlinesi.
Nessuno l’avrebbe previsto quando Weili ha lasciato Qingtian, nel 1992. Da allora la città è cambiata tanto da essere diventata irriconoscibile, com’è successo a molti altri centri abitati di questo enorme paese in piena espansione. Oggi il lungofiume è costellato di grattacieli, ma quando lei era bambina c’erano solo case di legno a un piano. All’epoca il fiume si poteva attraversare in traghetto, mentre oggi oltre al ponte pedonale ce ne sono tre percorribili in auto. Il livello del fiume Ou è più basso di allora: a qualche chilometro da Qingtian è stata costruita una diga per produrre energia elettrica. Gli argini in muratura hanno preso il posto delle spiagge piatte dove Weili e le sorelle andavano a cercare sotto i ciottoli i granchi e i gamberetti da mettere nel wok per cena.
Su entrambe le sponde del fiume, dietro ai grattacieli si stagliano ripide le montagne. Nella stretta valle di Qingtian non c’è mai stato spazio per i terreni agricoli. Inoltre, prima che fosse costruita la diga, a primavera il fiume Ou esondava regolarmente, allagando le poche aree coltivate. Il distretto è sempre stato povero. L’unica materia prima di cui c’è sempre stata abbondanza è la pietra saponaria, estratta dalle montagne circostanti. Tradizionalmente, con la morbida pietra di Qingtian si scolpivano i sigilli e le statuette che ancora oggi decorano gli atri degli alberghi e le scrivanie dei dirigenti di tutto il paese. Alla fine dell’ottocento anche gli stranieri impararono ad apprezzare questi manufatti, e così è cominciata la storia dell’emigrazione da Qingtian.
Nella famiglia di Weili, il primo giovane a imbarcarsi per l’Europa con una valigia piena di statuette di pietra fu un fratello della nonna. Nessuno ricorda più quando: c’è chi dice negli anni venti, chi negli anni trenta. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: il mercante di Qingtian arrivò a Berlino e lì sposò una donna tedesca.
Per molti anni i contatti tra la famiglia a Qingtian e quella in Germania languirono. Prima ci fu la guerra in Europa e in Asia, poi il leader comunista Mao Zedong isolò la Repubblica popolare dall’occidente. Solo alla fine degli anni settanta, con le prime aperture in Cina, il parente perduto in terra straniera riprese i contatti con la famiglia rimasta a casa. Dai suoi racconti la vita in Germania risultava piuttosto attraente al confronto con le misere condizioni di vita nella provincia cinese.
A quel punto a partire fu uno zio di Weili, che presto scrisse a casa per chiedere rinforzi: in Germania c’era tanto da fare. Yangli, la sorella maggiore di Weili, che all’epoca aveva dodici anni, partì nel 1986, l’anno della tigre. Per farla arrivare in Germania lo zio dovette adottarla e lei frequentò per cinque anni la scuola nel quartiere berlinese di Neukölln. “Ero l’unica cinese”, dice Yangli. Per i primi due anni non ha desiderato altro che tornare a casa. “Poi le cose sono migliorate”.
Il turno di Weili è stato nel 1992, anno della scimmia: aveva diciassette anni e si era appena diplomata. Per due anni le sorelle hanno lavorato insieme nel ristorante cinese dello zio nel quartiere di Kreuzberg. Oggi il Tian Tang (“Paradiso”, in tedesco) non esiste più, ma lì Yangli ha incontrato suo marito, un altro emigrante originario di Qingtian.
Sempre in quegli anni, andando a trovare dei parenti a Parigi – anche loro di Qingtian e anche loro con un’attività nella ristorazione – Yangli aveva conosciuto un amico di famiglia, un giovane aiuto cuoco di nome Jun Wu. Un bel ragazzo, aveva pensato Yangli, bello proprio come mia sorella. E anche lui di Qingtian. Sarebbero stati una bella coppia.
Yangli l’aveva detto a Weili che, poco dopo, era partita per Parigi. Effettivamente i due facevano proprio una bella coppia.
Parlando del fatto che spesso gli emigranti di Qingtian si sposano tra loro, Yangli spiega che “in questo modo tutto è più semplice: parliamo lo stesso dialetto e abbiamo sempre qualcosa da dirci. Ci capiamo”.
Dopo i rispettivi matrimoni, le sorelle hanno lasciato Berlino per trasferirsi nel Brandeburgo dove entrambe hanno aperto un ristorante. Weili e Yangli hanno scelto lo stesso nome: China-Garten, giardino cinese.
Fino a qui la storia dell’emigrante Weili è simile a quelle di tanti altri viaggiatori ricostruite nel museo dell’emigrazione di Qingtian, dove sono esposte le foto ingiallite di mercanti di pietra saponaria vestiti in rigidi completi di lana che presentano il loro campionario nei mercati di artigianato artistico di tutto il mondo. All’inizio del novecento centinaia di persone lasciarono Qingtian per andare principalmente in Europa, ma anche negli Stati Uniti, in Sudamerica o in Nordafrica. Molte rimasero all’estero e per parecchio tempo non ebbero contatti con le famiglie, proprio come il prozio di Weili. Ma negli anni settanta in Cina cominciò la fase delle riforme, e di colpo gli abitanti di Qingtian si ritrovarono al centro di una rete familiare con ramificazioni in mezzo mondo.
Anche Yan Xiaohai, una delle guide del museo, è stato all’estero: prima di tornare a Qingtian e fondare il museo dell’emigrazione, vendeva scarpe da ginnastica in Ungheria e in Russia. Secondo lui la maggior parte degli abitanti di Qingtian partiti per l’estero sono finiti in Spagna e in Italia, circa centomila in ognuno dei due paesi. In Germania, invece, se ne sono insediati quasi diecimila, e altrettanti in Portogallo, Francia, Austria, Paesi Bassi, Belgio e Serbia. Comunità più piccole sono sparse in tutta l’Europa e un po’ ovunque nel mondo, per esempio in Brasile e negli Stati Uniti. Non tutti gli emigrati da Qingtian si guadagnano da vivere nella ristorazione: alcuni gestiscono fabbriche tessili, magazzini all’ingrosso, empori, bancarelle di frutta e verdura, tabaccai, bazar. Ma secondo le stime dell’amministrazione del distretto, quasi la metà lavora nella ristorazione.
Qingtian, nel suo piccolo, non si è limitata a cambiare il resto del mondo, si è anche trasformata in una specie di metropoli in miniatura: di scambi culturali così fitti non ce ne sono in altre parti della Cina.
“A Qingtian”, spiega Yangli, “l’espresso è più buono che in Germania”.
Il giorno dopo la cena di capodanno le due sorelle mangiano di nuovo al ristorante, questa volta italiano. I locali che fanno cucina europea sono rari in Cina e sono concentrati a Shanghai, la capitale economica, o nel quartiere delle ambasciate a Pechino. Ma neanche lì ci sono tanti cinesi appassionati del caffè espresso come a Qingtian, con il suo lungofiume pieno di bar, pizzerie e locali di tapas spagnoli, aperti da chi, tornando dall’estero, ha portato con sé nuove tradizioni culinarie. In qualunque altro angolo della Cina, per tutto questo non ci sarebbe mercato. Qui, invece, sì.
Anatra croccante
Nel 1992 in Germania la cucina cinese era praticamente sconosciuta, o almeno erano sconosciuti i piatti a cui era abituata Weili. I primi ristoranti in cui avevano lavorato lei e la sorella servivano ricette adattate al gusto tedesco, che in Cina nessuno avrebbe mai preparato in quel modo. Per Weili il piatto più emblematico di questa tendenza è “l’anatra croccante”. E in genere i ristoranti cinesi, incluso quello dei Wu in Brandeburgo, servivano un menù a buffet.
Nella cittadina di Luckau, dove avevano aperto il ristorante, erano gli unici cinesi e, in generale, gli stranieri erano pochissimi. All’asilo i tre figli di Weili, tutti nati in Germania, si sentivano fuori posto, anche se i genitori avevano scelto per loro nomi come Michael, Leon e Sophie. Weili e il marito temevano che senza la compagnia di altri cinesi i bambini non avrebbero mai imparato bene la lingua madre. E così decisero di tornare a Berlino.
Jun, il marito di Weili, pensava che i tempi fossero maturi per un nuovo tipo di ristorante: basta buffet con maiale in agrodolce, e spazio all’autentica cucina cinese. Anche se inizialmente le sembrava un’idea rischiosa, Weili si lasciò convincere.
Così affittarono un grande locale commerciale in un angolo all’epoca ancora malfamato del quartiere berlinese di Schöneberg, stretto tra una lavanderia e un bar con le slot machine, non lontano dalla zona a luci rosse. Trovarono un cuoco che oltre ai piatti classici cinesi inserì nel menù anche le specialità della sua regione, il Dongbei, nel nordest della Cina. Per sicurezza i Wu mantennero qualche piatto “alla tedesca”, come l’anatra croccante. Non rinunciarono neanche ai biscottini della fortuna, che in Europa sono un must, anche se in Cina nessuno ne ha mai sentito parlare. Al locale diedero il nome di Da Jia Le, cioè “tutti contenti”, che nel loro paese d’origine non è un nome insolito per un ristorante.
All’apertura, nel 2012, le cose non andarono molto bene. Ma qualche reazione entusiasta ci fu fin dall’inizio: un giovane appassionato di cucina gourmet, passato per caso dal Da Jia Le, si entusiasmò a tal punto da decidere di dare una mano ai titolari. Consigliò ai Wu di proporre una selezione di vini e di birre artigianali, li aiutò a preparare il menù delle bevande e invitò a cena critici gastronomici e foodblogger.
Pubblico internazionale
È stata una scommessa vincente: da chicca per intenditori, il Da Jia Le è diventato il ristorante cinese più amato di Berlino. Il locale nella Goebenstraße è stato preso d’assalto dalla comunità hipster anglofona, con i suoi artisti, musicisti e gente del mondo della moda.
Capita di incontrarci personaggi famosi, come il rapper Prinz Pi, mentre durante il festival cinematografico della Berlinale attira un pubblico internazionale e le case di produzione fanno a gara per usarlo come set. In definitiva il Da Jia Le è diventato la sala da pranzo degli hipster berlinesi e si è guadagnato perfino una citazione nel romanzo Allegro Pastell di Leif Randt (2020), con tutti i dettagli fedelissimi alla realtà, menù compreso: “Le pareti erano dipinte di un pallido verde menta e dal soffitto pendeva un lampadario all’apparenza di poco pregio. Tanja sosteneva che l’ambiente le trasmettesse, come per interposta persona, una sorta di nostalgia per il comunismo; e poi si mangiava davvero benissimo. Ordinarono intenzionalmente troppo: insalata di cetrioli, melanzane, manzo al cumino e poi un pollo piccantissimo con peperoncino e arachidi”.
A tarda sera, quando la cucina ha già chiuso e gli ultimi clienti bevono il bicchiere della staffa, i Wu e i loro dipendenti si siedono a un tavolo tondo vicino alla cucina. Durante la settimana è raro che comincino a cenare prima delle dieci e nel weekend fanno ancora più tardi. Per loro il cuoco prepara piatti fuori menù: granchi pelosi, trippa, lumache al peperoncino. Può capitare che alla tavolata si uniscano la sorella di Weili, Yangli, e il marito: vivono a Wildau, a cinquanta minuti dal centro di Berlino, e usano l’auto per andare a cena da loro.
Qualche volta, alla chiusura del ristorante, vanno tutti all’Aroma, nel quartiere di Charlottenburg, dove servono _dim sum _cantonesi fino alle tre di notte. Tra i clienti che rosicchiano zampe d’anatra fino a tardi ci sono molti asiatici, soprattutto vietnamiti. “Lavorano nel tessile”, spiega Weili. “Quindi la sera possono andare a cena fuori. I cinesi lavorano nella ristorazione e non hanno tempo per mangiare”.
Hanno chiamato il locale Da Jia Le, cioè “tutti contenti”, che nel loro paese d’origine non è un nome insolito per un ristorante
Anche i gestori dell’Aroma, raccontano i Wu, sono “compaesani”, cioè del distretto di Qingtian. A Berlino ci sono tanti ristoranti con titolari e dipendenti “compaesani” che per contarli non bastano le dieci dita di Weili: il Ming Dynastie sulla Jannowitzbrücke, frequentato dal personale della vicina ambasciata cinese; il China City a Mitte; il Tian Fu a Wilmersdorf; lo 008 a Friedenau; l’Aroma a Charlottenburg; il Do De Li, il Sonne, il Mei Shi Wu…
Poco prima di tornare a Berlino, durante uno degli ultimi giorni passati a Qingtian, Weili va in centro, in una zona piena di fornitori all’ingrosso: i negozi di alimentari espongono in vetrina prosciutti spagnoli e sacchi di caffè. Weili è interessata a un enorme negozio di attrezzature e accessori per ristoranti, dove lei e la sua famiglia si servono da anni. Acquistano lì le stoviglie e poi le spediscono in Germania via nave.
In un angolo sono esposti i modelli dei menù: grosse cartelline in finta pelle con i tipici nomi dei ristoranti cinesi in Europa incisi a caratteri dorati: China-Palast, Ristorante Cinese Drago d’Oro, Le Lotus Bleu, Čínska Reštaurácia Zlatá Cína, Restaurang Mr. Wok, Restaurante Confucio.
Studiare di più
Weili deve comprare delle ciotole, perché lei e il marito hanno un progetto: vogliono aprire un secondo ristorante vicino al loro, un bistrot che servirà quasi solo noodles, come ce ne sono tanti in Cina.
A febbraio è arrivata dal Giappone la macchina per prepararli, un enorme apparecchio di acciaio inox che, in attesa di essere messo in funzione, staziona vicino alla cucina del Da Jia Le. Per cominciare a servire noodles, ai Wu mancano solo le ciotole adatte. Weili fa una videochiamata con il marito a Berlino per mostrargli i modelli disponibili.
“Troppo cari”, dice Jun delle ciotole in porcellana.
Ceramica verniciata a polvere? “Troppo pesanti”.
Plastica? “Dozzinali”.
Ciotole smaltate color blu notte? “Troppo giapponesi”.
Alla fine Weili chiede di portare via alcuni pezzi in ceramica con scritte rosse e nere su fondo bianco.
Quando esce, passa davanti alla sua vecchia scuola. È un edificio fatiscente e ormai abbandonato dalla facciata decorata con sbiaditi ideogrammi rossi: “Abbiate ideali! Abbiate senso morale! Abbiate conoscenza! Abbiate disciplina!”.
I genitori di Wu le hanno sempre detto che la scuola non è importante e, del resto, tutti loro ci sono andati poco. Lei invece ai suoi tre figli ha sempre trasmesso il messaggio opposto, perché non vuole assolutamente che lavorino nella ristorazione. “Molto meglio stare in ufficio”, spiega. “A fine giornata stacchi, nel fine settimana resti a casa e, quando sei vecchia, vai in pensione”. Il figlio più grande, Michael, si è appena iscritto alla facoltà di fisica a Berlino. Leon, invece, quest’anno ha la maturità e non sa ancora cosa vuole fare da grande: il suo interesse principale sono i videogiochi. Sophie, la più piccola, forse tra due anni s’iscriverà a chimica.
Weili e Jun parlano cinese con i figli, ma loro tendono a rispondere in tedesco. Capita che si capiscano solo a metà, osserva Weili, perché il tedesco dei genitori ha delle lacune, proprio come il cinese dei figli.
Per intuire che Michael, Leon e Sophie non sono cresciuti in Cina basta osservare le loro abitudini alimentari: quando vanno al Da Jia Le di pomeriggio si preparano panini con margarina e prosciutto cotto oppure vanno a prendersi un kebab dietro l’angolo. E quando ci sono i noodles Sophie va a cercare una forchetta in cucina. “Non ci riesco a mangiarli con le bacchette, mamma!”, protesta.
Prima di ripartire, Weili e sua sorella fanno una passeggiata sul lungofiume di Qingtian per dare un’ultima occhiata alla loro città: era così povera quando l’hanno lasciata e ora, dopo trent’anni di crescita economica, è uno dei distretti più ricchi di tutta la Cina.
Cosa sarebbe successo se non se ne fossero andate via?
Per rispondere, le sorelle raccontano le storie di alcuni conoscenti rimasti a Qingtian. Uno, negli anni ottanta, ha cominciato a dedicarsi al business dell’estrazione mineraria: rivendeva nella metropoli in espansione di Shanghai il marmo estratto dalle cave nei dintorni. “È diventato milionario”, dice Weili. Altri due, invece, sono diventati funzionari pagati profumatamente e hanno reinvestito i loro redditi nel mercato immobiliare: “A ogni nipote hanno regalato un appartamento per il matrimonio”, racconta Yangli.
Ma loro due non si lamentano, le cose in Germania sono andate bene. Avrebbero potuto andare bene anche a Qingtian ma all’epoca della loro partenza non era ancora possibile intuirlo. Se fosse rimasta, pensa Weili, magari dopo la scuola avrebbe frequentato un corso di formazione professionale che le avrebbe aperto altre strade. “In Germania potevo solo lavorare in un ristorante”. I cinesi in Europa, aggiunge Yangli, hanno sempre cercato quei lavori che gli europei non volevano più: si sono fatti in quattro nei ristoranti, perché bastava tanta buona volontà e non servivano titoli di studio.
Oggi, però, secondo Yangli neanche i cinesi vogliono più vivere così. Uno dei suoi nipoti che lavora in un ristorante cinese di Berlino se n’è reso conto a proprie spese quando è andato per tre mesi a Qingtian a cercare moglie e non è riuscito a trovare una ragazza disposta a seguirlo all’estero. “I giovani di Qingtian non vogliono più andare in Germania a fare i lavapiatti”, spiega Yangli.
L’anno scorso lei e il marito hanno venduto il ristorante a Wildau in Brandeburgo. I compratori, cinesi anche loro, li hanno trovati attraverso un annuncio. Non si conoscevano. Solo quando si sono incontrati per le trattative hanno scoperto che anche loro erano emigrati da Qingtian. Erano compaesani. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1574 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati