Il peggio dovrà essere evitato fra tre settimane, non più fra tre anni. Venti giorni per impedire all’estrema destra di arrivare per la prima volta al potere in Francia attraverso le urne, dopo il trionfo alle europee. Tre settimane che separano i francesi dal primo turno delle elezioni legislative convocate a sorpresa dopo la sconfitta elettorale da Emmanuel Macron, che domenica sera ha usato l’espediente preferito dai presidenti della quinta repubblica francese quando sono con le spalle al muro: lo scioglimento dell’assemblea nazionale.

Sconvolti da un colpo di teatro istituzionale tanto legittimo quanto inatteso, la maggior parte dei commentatori ha scelto di ricorrere alle stesse metafore: una scommessa, un bluff. Il problema è che stavolta la posta in gioco siamo noi, i cittadini francesi, perché il 30 giugno (data del primo turno) e il 7 luglio (secondo turno) si deciderà frettolosamente il futuro della nostra democrazia e l’immagine con cui ci presenteremo agli alleati e ai partner europei. Il tutto mentre il continente è in guerra e il mondo è alle prese con una catastrofe climatica.

Il problema è che il pokerista ha perso il controllo della situazione, forse già da prima dell’umiliazione europea. Renaissance, il partito di Macron, ha preso meno della metà dei voti del Rassemblement national (Rn) di Marine Le Pen, che ha superato il 40 per cento dei consensi.

La campagna elettorale ha finito per amplificare quell’insieme di arroganza e di goffaggine, tipico di Macron, che irrita molti elettori, spingendoli a rifugiarsi nel voto di protesta. Il problema è che i primi argomenti che filtrano dall’Eliseo per giustificare lo scioglimento delle camere – un misto tra bluff e autopersuasione – somigliano molto ai recenti exploit di comunicazione del governo – gli interventi che hanno messo in ombra i capilista alle europee di Renaissance, i riferimenti strumentali alla guerra in Ucraina o allo sbarco in Normandia – che si sono tutti rivelati controproducenti.

Macron, insomma, è alle prese con il contraddittorio imperativo che lui stesso si è dato: togliere voti all’estrema destra senza avere una politica capace di estirpare le radici del suo successo, molto più profonde di quel rifiuto dell’immigrazione di cui si parla sempre. Con il ritorno alle urne lo schieramento di Macron dovrà fare i conti con l’errore commesso due anni fa, quando la maggioranza di governo non ritenne necessario prolungare il fronte repubblicano che gli aveva permesso di vincere due elezioni presidenziali, ed estromise gli altri partiti. Come ristabilire il fronte dopo averlo tradito? Nei prossimi giorni se lo dovranno chiedere tutti i partiti che in buona fede vogliono impedire al clan dei Le Pen di arrivare al governo.

Alle radici del problema

Ma Macron non è l’unico responsabile degli errori che hanno finito per paralizzare la sua presidenza. La crescita dell’estrema destra è una faccenda che precede i sette anni della presidenza di Macron, nel frattempo passato da beneficiario a vittima designata del cambiamento. L’esito della partita dipenderà anche da chi si trova intorno al tavolo da gioco.

E la destra gollista? Il non brillante risultato ottenuto dai Républicains punisce ancora una volta l’assurda politica che il partito persegue da anni.

Per quanto riguarda la sinistra, la sociologia elettorale non gioca in suo favore, nonostante il risultato incoraggiante della lista d’ispirazione socialista guidata da Raphaël Glucks­mann. Ma è proprio da qui che potrebbero arrivare le risposte più efficaci per far arretrare in modo durevole l’estrema destra: la ricerca di una transizione climatica equa, lo smantellamento dei ghetti urbani, la difesa dei servizi pubblici e la lotta contro gli eccessi della società dei consumi. Per imporre questi temi è indispensabile creare unità, cosa che però non sembra interessare a Jean-Luc Mélenchon, leader del partito di sinistra radicale La France insoumise. Il trauma dello scioglimento del parlamento riuscirà a cambiare la situazione? Solo attraverso gli sforzi di tutti la rischiosa scommessa voluta da un presidente in difficoltà potrà essere vinta da una forza diversa dal Rassemblement national. ◆ adr

Da sapere
Un accordo che divide

La convocazione di elezioni anticipate, decisa dal presidente francese Emmanuel Macron dopo il tracollo del suo partito alle europee, ha creato scompiglio nella destra repubblicana francese. L’11 giugno Éric Ciotti, leader del partito gollista Les Républicains (Lr), ha annunciato un accordo elettorale con l’estrema destra del Rassemblement national di Marine Le Pen. Una scelta che, ha commentato il quotidiano Libération, equivale a “collocare al di fuori dell’arco repubblicano il partito che era stato di De Gaulle e di Chirac. Un’annuncio che resterà negli annali come un affronto alla storia di una formazione politica che è stata lungo tra le più influenti di Francia”.

Le scelta di Ciotti, che a quanto pare non era stata sottoposta a dibattito interno, ha innescato una rivolta tra i dirigenti gollisti, contrari a concludere accordi con l’estrema destra e a superare il cosiddetto cordone sanitario tra forze repubblicane che finora ha tenuto Marine Le Pen e il padre Jean Marie lontani dal governo e dalla presidenza della repubblica. La mattina del 12 giugno dieci dirigenti di Lr hanno pubblicato un intervento sul quotidiano Le Figaro per definire il percorso politico in vista del voto e prendere le distanze dalla scelta di Ciotti: “I Républicains devono riaffermare la fedeltà alla loro storia e alle loro convinzioni. La posizione espressa da Éric Ciotti ci porta in un vicolo cieco, non ha nulla a che vedere con la nostra famiglia politica e non rappresenta in nessun modo la linea del partito”. Nel pomeriggio l’ufficio politico dei Républicains ha espulso Ciotti, affidando la guida del partito a François-Xavier Bellamy e Annie Genevard. L’ex leader, tuttavia, considera l’espulsione illegittima e si è rifiutato di dimettersi. Oltre ad aver suscitato un sussulto democratico e repubblicano nella destra gollista, scrive Libération, la vicenda potrebbe avere anche un altro effetto positivo: convincere i leader della sinistra a unire le forze in vista delle elezioni del 30 giugno e 7 luglio. ◆


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Questo articolo è uscito sul numero 1567 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati