Tim Wehage è cresciuto nel sud della Florida, negli Stati Uniti. A casa sua la tv era spesso sintonizzata su Fox News, che trasmetteva regolarmente tirate contro l’ipocrisia dei progressisti, ma lui non si considerava politicamente schierato. Dopo le superiori ha cominciato a lavorare nell’azienda edile di famiglia. Non aveva intenzione di continuare gli studi finché si è reso conto che non voleva passare l’età adulta a fare lavori manuali nel caldo tropicale. All’università, specializzandosi in ingegneria meccanica, ha scoperto le energie rinnovabili e ha imparato la scienza alla base del cambiamento climatico. Nel 2017, un paio d’anni dopo essersi laureato, si è trasferito dall’altra parte del paese, a Seattle, nello stato di
Washington, per lavorare in un’azienda che migliora l’efficienza degli impianti di raffrescamento ad acqua usati negli ospedali e nelle università. Non aveva l’auto e andava a piedi ovunque. È diventato vegano. Amava essere immerso nella bellezza della costa settentrionale del Pacifico.
Da bambino non aveva viaggiato molto, così ha deciso di trascorrere il 2019 in giro per il mondo, con l’aiuto di un’azienda chiamata Remote Year, che organizza soggiorni di un mese ciascuno in dodici città per chi lavora a distanza. A Kuala
Lumpur, in Malaysia, l’aria era opaca. A Hanoi, in Vietnam, ha cominciato ad avere problemi al seno nasale, e ha pensato che i quasi otto milioni e mezzo di abitanti della città respiravano quell’aria ogni giorno della loro vita. In Indonesia ha sentito un abitante del posto dire che gli oranghi si stavano estinguendo, e si è sentito stordito dal dolore. Ha fatto un giro nella giungla di Sumatra sperando di vederne uno finché poteva, invece ha visto chilometri e chilometri di piantagioni di palma da olio, dove l’habitat degli oranghi era stato raso al suolo per far spazio alle coltivazioni. La guida ha chiesto se nel gruppo c’erano statunitensi e se qualcuno di loro controllava le etichette dei prodotti per vedere se contenevano olio di palma. “Be’, quando non lo fate, questo è quello che succede”, ha aggiunto.
“Per anni leggi tutti gli articoli”, mi ha detto Wehage al telefono poco tempo fa. “Guardi le foto dell’inquinamento, pensi all’avidità che lo alimenta. Ti fa rabbia. Ma poi, quando sei lì, capisci che è molto peggio di qualunque cosa tu abbia letto”. È tornato a Seattle sconvolto. Ha cominciato a cercare l’olio di palma sulle etichette, ma sapeva che non era abbastanza. Non riusciva a smettere di pensare alle emissioni di gas serra provocate da tutti i suoi voli, e al fatto che in alcune delle città dov’era stato l’acqua era così inquinata che l’unica soluzione era bere quella nelle bottiglie di plastica. Poi è arrivata la pandemia. La relazione di Wehage è finita, e lui si è trovato da solo in un appartamento semplice e spoglio (non aveva voluto comprare niente di superfluo destinato a finire in una discarica). Faceva lunghe camminate, a volte portando con sé un sacco dei rifiuti per ripulire le strade, ma era oppresso dal senso d’impotenza. Vedeva pubblicità di auto ogni due minuti alla televisione, andava su Reddit e leggeva senza sosta dell’apocalisse climatica. Ha smesso di apprezzare le cose che un tempo gli piacevano: giocare a basket, fare escursioni.
La psicoterapia non era una cosa che si faceva nel posto dov’era cresciuto, ma dopo un po’ di incoraggiamento da amici e parenti Wehage ha deciso di provare. Sul sito della Climate psychiatry alliance ha trovato una lista di trecento terapisti che considerano il cambiamento climatico un’importante causa di disagio mentale e hanno sviluppato metodi per parlarne e affrontarlo. Ha contattato una decina di loro, ma nessuno era disponibile. Ha fatto un’altra decina di tentativi nella sua città prima di trovare una psicoterapeuta che potesse riceverlo. Quando le ha detto qual era il suo problema, lei gli ha risposto che parlava della crisi climatica con la maggior parte dei pazienti. “Dopo tanto isolamento, pensare che non ero da solo mi ha fatto venire le lacrime agli occhi”, mi ha detto Wehage.
La terapista lo ha aiutato a capire che leggere notizie sul cambiamento climatico per un’ora appena sveglio non lo avrebbe aiutato e lo ha incoraggiato a essere meno severo con se stesso. Wehage ha arredato il suo appartamento con cose trovate attraverso Buy Nothing (una rete per lo scambio di oggetti) e piante di una serra vicina. Ha rinunciato quasi del tutto ai social network. Ha fatto un’escursione di due giorni da solo, un’idea che lo aveva sempre spaventato, e ha incontrato un gruppo di escursionisti che lo ha invitato a bere tequila sulla spiaggia. Hanno parlato di cambiamento climatico e di molto altro.
Quando ho conosciuto Wehage, un anno fa, mi ha detto che dopo le sessioni di terapia si sentiva meno oppresso e più ottimista. Voleva collaborare con delle associazioni e aveva deciso di “smettere di pensare di essere un lupo solitario e di dover fare qualunque cosa per risolvere il problema”. Per uscire dal tunnel, mi ha detto, “inspiro profondamente, espiro e penso: cosa posso fare come individuo? Cosa possiamo fare come società? Quali misure sono state approvate e quali sono in discussione? Cosa è possibile fare con quello che ho di fronte a me oggi?”.
Davanti all’abisso
È difficile pensare seriamente alla realtà del cambiamento climatico per più di novanta secondi senza sentirsi depressi, arrabbiati, colpevoli, dispiaciuti o semplicemente pazzi. La Terra si è riscaldata di più di un grado rispetto all’epoca preindustriale e i danni sono irreparabili. Vaste zone prive di ossigeno si espandono negli oceani; le api selvatiche, le lucciole e gli uccelli stanno sparendo; uno studio ipotizza che circa metà degli alberi in vita oggi saranno morti entro quarant’anni. Nel 2022 a Delhi, in India, l’asfalto si è sciolto. Nel 2021 ci sono state alluvioni catastrofiche in Cina e in Europa occidentale, una delle più intense ondate di calore mai registrate nell’ovest del Nordamerica e una tempesta di ghiaccio apocalittica nel centro degli Stati Uniti. In questi disastri sono morte migliaia di persone. Milioni muoiono ogni anno per l’inquinamento, la siccità e altri fattori legati al clima.
“In questo momento la Terra è davvero molto malata”, ha detto recentemente Joyeeta Gupta, copresidente della Earth commission, dopo che la sua organizzazione ha pubblicato uno studio secondo cui sette delle otto soglie ambientali cruciali per la vita sul nostro pianeta sono già state superate. E oggi la situazione è migliore di quanto lo sarà mai nell’arco delle nostre vite: ogni volta che usciamo di casa in questo tempo improbabile, troviamo un clima più sano e stabile di quello che ci aspetta in qualunque altro giorno del nostro futuro.
Meglio cambiare argomento prima di cadere in depressione? Ci sono molte altre crisi che si contendono la nostra attenzione, e di fronte al cambiamento climatico informarsi può sembrare inutile, se non peggio: nei trent’anni trascorsi dal primo accordo internazionale per la riduzione delle emissioni, abbiamo immesso nell’atmosfera più gas serra che in tutto il resto della storia umana. Le calotte glaciali continuano a sciogliersi, il permafrost a rilasciare metano, e il futuro a scivolare in un abisso di sofferenza e terrore. Entro la fine del secolo centinaia di milioni di persone dovranno emigrare per colpa del riscaldamento globale. In un sondaggio condotto nel 2021 tra ragazzi e ragazze della generazione Z (nati tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli anni dieci del duemila), il 56 per cento degli intervistati si è detto convinto che “l’umanità è spacciata”. E più le cose peggiorano meno ne parliamo: nel 2016 quasi il 70 per cento dei partecipanti a un altro sondaggio ha dichiarato di non parlare mai o quasi del cambiamento climatico con gli amici e i parenti, mentre nel 2008 erano il 60 per cento.
“La gente dice che la nostra generazione ha l’ecoansia, che è preoccupata per il futuro, ma io rispondo che siamo preoccupati per il presente”
Un paio di anni fa, mentre leggevo un rapporto sul clima sul telefono a notte fonda, sono entrata in una tipica spirale emotiva pensando a tutto questo. Ho svegliato il mio ragazzo, cercando conforto. Lui ha ascoltato il mio sfogo frenetico e si è rimesso a dormire. Il mattino successivo ha stilato un elenco di trenta azioni possibili, che andavano dal passare a una banca online a smettere di viaggiare all’estero fino all’ecosabotaggio. Sulla lista c’erano cose che facevamo da anni, come riciclare i rifiuti e comprare oggetti di seconda mano, ma anche altre che non avevamo mai preso in considerazione. Inoltre da poco avevamo avuto un bambino, la cui impronta ecologica probabilmente aveva già superato quella di interi villaggi del Burundi. Era una battaglia persa in partenza contro i miei desideri di consumatrice. Ogni giorno mi sentivo un pezzo di merda egoista.
“Siamo arrivati a credere di avere il diritto di essere risparmiati dalla scocciatura di doverci preoccupare per ogni dettaglio”, scrive la psicanalista inglese Sally Weintrobe nel suo libro Psychological roots of the climate crisis (Bloomsbury 2021). Sostiene che molti di noi sono a disagio con un certo tipo di atteggiamento neoliberista; che siamo stati plasmati fino a diventare il tipo di consumatore su cui si basa il sistema economico che ha rovinato il pianeta, persone aggrappate all’idea che il mondo può e deve rimanere com’è. Weintrobe è tra i fondatori della Climate psychology alliance, che come la Climate psychiatry alliance e una manciata di altre associazioni professionali simili è mossa dalla convinzione che la psicologia e la psichiatria possono aiutarci non solo a comprendere la crisi climatica, ma anche a fare qualcosa per affrontarla.
Ho parlato per la prima volta con Tim Wehage dopo aver letto il libro di Weintrobe. Ho parlato anche con psicologi, attivisti e altre persone di quelle che a volte sono chiamate emozioni climatiche, nel tentativo di capire i princìpi della terapia climatica. Ero attirata dall’idea che il giusto tipo di terapista può incanalare queste emozioni in modo da incoraggiare seri e costanti sforzi per combattere il cambiamento climatico. Ero anche preoccupata che un terapista potesse limitarsi a scacciare queste emozioni, aiutandomi a sentirmi più calma di fronte a un mondo in fiamme. Se l’obiettivo è fare in modo che il nostro pianeta sia ancora abitabile nel prossimo secolo, qual è il giusto livello di panico, e come si fa a sopportarlo?
Negazione e fatalismo
Leslie Davenport, una psicoterapeuta dello stato di Washington, è una pioniera nel campo della terapia legata al clima. Negli anni ottanta ha cominciato a sentirsi in ansia per quello che stava succedendo al pianeta, e ha cercato di alleviare quel disagio: ha firmato petizioni, ha cercato organizzazioni ambientaliste da sostenere. Poi si è resa conto che il cambiamento climatico era causato dal comportamento delle persone, e che il comportamento era il suo ambito professionale. “Gran parte di quello che c’insegnano, nel campo della salute mentale, è superare la negazione, affrontare il dolore, incoraggiare modifiche nello stile di vita, facilitare le conversazioni conflittuali”, mi ha detto al telefono. “Impariamo a fare tutte queste cose che servono a dare alle persone gli strumenti per rispondere alla crisi climatica”. Davenport ha scritto un libro, Emotional resiliency in the era of climate change (Jessica Kingsley 2017), per aiutare gli specialisti a capire quando i pazienti sono afflitti da questo problema. In seguito ha fatto pressioni per stabilire dei requisiti formativi legati al clima e ha creato programmi per terapisti simili ai moduli obbligatori per gli abusi contro gli anziani e l’autolesionismo.
L’ansia per il clima è diversa dalle altre forme di ansia che un paziente può affrontare durante la terapia – come quelle causate dai luoghi affollati, dal parlare in pubblico o dal bisogno di lavarsi continuamente le mani – perché l’obiettivo non è liquidare il sentimento intrusivo. “L’approccio non è ‘resta calma e vai avanti’”, mi ha detto Davenport. Quando si tratta di cambiamento climatico, il desiderio del cervello di risolvere l’ansia e il disagio spesso porta alla negazione o al fatalismo: alcune persone si convincono che il cambiamento climatico non è un problema grave, o che se ne occuperà qualcun altro; altre arrivano alla conclusione che tutto è perduto e non c’è più niente da fare. Davenport spinge i suoi pazienti a puntare a una via di mezzo di angoscia sostenibile. Secondo lei dobbiamo essere più a nostro agio davanti all’incertezza, e rimanere presenti e attivi nonostante la paura e il dolore. Di solito i suoi pazienti rientrano in due categorie: alcuni sono smaniosi di agire e non riescono ad ammettere i loro sentimenti, altri sono così consapevoli dei loro sentimenti che non riescono ad agire.
Ho chiesto a Davenport cosa mi direbbe se fossi una sua cliente e avessi cominciato a pensare che nessuna delle mie azioni sarà mai abbastanza. “Ogni volta che tocco della plastica, mi immagino di arrivare alle porte del paradiso e trovarmi di fronte tutta l’immondizia non biodegradabile che ho prodotto nel corso della mia vita”, le ho raccontato. “Ogni volta che lascio il rubinetto aperto troppo a lungo mentre lavo i piatti, vedo un bambino con un bicchiere vuoto”. Le ho descritto la mia sensazione che per una consumatrice occidentale l’ignoranza sia l’unica via per la spensieratezza, e che le nostre belle vite siano basate sulle sofferenze degli altri. Erano pensieri sani?
Davenport ci ha pensato un po’, poi ha mormorato in segno di comprensione. “Ok”, ha detto. “Se qualcuno non fosse così preoccupato, lo incoraggerei a tenere gli occhi aperti in modo più responsabile. Ma stando alla tua descrizione ti inviterei a fare un passo indietro. Per quanto possa sembrare scontata, ti ricorderei la guida della Preghiera della serenità, e ti darei il compito di fare quello che puoi per cambiare le cose e accettare quello che non puoi cambiare”. E ha aggiunto: “Ti consiglierei di provare a concentrare queste sensazioni in un’ora al giorno, in cui affrontare le tue preoccupazioni, valutare se ti è possibile fare qualcosa e stabilire dei piani”.
In seguito, ripensando alla risposta di Davenport, mi sono accorta che non aveva fatto tre cose che ormai ero abituata ad aspettarmi nelle conversazioni sul clima. In primo luogo, non aveva sminuito la responsabilità individuale: nessuna alzata di spalle sul fatto che l’aereo sarebbe decollato che io fossi stata a bordo o meno. Non mi aveva lodato per i miei sforzi e le miei preoccupazioni, dicendo “almeno stai usando i pannolini lavabili!”. E non aveva suggerito che le mie visioni di montagne di spazzatura e bambini assetati fossero in sé un segno di disadattamento. “Non ti ha mentito perché non mentiva a se stessa”, mi ha detto un amico quando gli ho descritto quella conversazione.
Eppure il consiglio di Davenport sulla Preghiera della serenità mi ha fatto pensare al giudizio espresso da Andreas Malm in Come far saltare un oleodotto (Ponte alle Grazie 2022), secondo cui finora il movimento per il clima è stato “estremamente gentile e moderato”. Il fatto che potevo permettermi il lusso di ponderare le mie emozioni quanto volevo dimostrava che ero molto più vicina al problema che alla soluzione: i peggiori effetti del cambiamento climatico ricadranno sempre sui poveri e sui diseredati, a livello locale e globale, e in questo contesto era difficile credere che insegnare alle persone fortunate del mondo come dovevano sentirsi fosse qualcosa di più che un’altra forma di egocentrismo. Mi chiedevo se stavo seguendo le lezioni sbagliate, per quanto giuste sembrassero.
Modalità di sopravvivenza
“In occidente non fanno che elaborare, andare in terapia per le loro emozioni, andare nei parchi urbani che noi non abbiamo a pensare alla Terra e scrivere sui loro diari”, mi ha detto Isabella Tanjutco su Zoom qualche settimana dopo il mio primo incontro con Davenport. “Buon per voi che potete, ma noi non possiamo”.
Isabella ha 22 anni e frequenta la Parsons school of design a New York. Lei e sua sorella Natasha, 23 anni, sono cresciute a Manila, e da adolescenti sono diventate attiviste per il clima. Secondo alcune stime le Filippine, un arcipelago di più di settemila isole responsabile di meno dello 0,5 per cento delle emissioni globali di anidride carbonica, è il paese più minacciato dal cambiamento climatico: il livello dei mari che le circondano sale più velocemente della media globale, e la maggior parte della popolazione vive nelle pianure costiere.
Isabella e Natasha sono cresciute in una famiglia benestante, ma fin da bambine hanno compreso le terribili sofferenze che i tifoni infliggevano ai poveri. Natasha ricorda quando era andata a fare volontariato insieme a sua nonna dopo Ketsana, l’ottavo tifone del 2009, che aveva provocato più di trecento vittime. “Il cielo era sereno e la tempesta era finita da giorni, ma la comunità era ancora in ginocchio, e questo mi sconvolgeva”, ha spiegato. Allora aveva otto anni.
“Possiamo imparare a vedere ogni giorno come se fosse la morte di ciò che è stato prima. Ci renderà liberi di affrontare qualunque problema”
Quando le due sorelle avevano 15 e 13 anni hanno fondato un’associazione chiamata Kids for kids, coinvolgendo i loro amici e compagni nell’organizzazione di feste per raccogliere fondi da destinare alle comunità indigene e alle minoranze colpite dai tifoni. Parlavano del fatto che non era normale, che non doveva essere accettabile, che i tifoni diventavano più intensi ogni anno. Volevano mantenere un tono positivo senza però evitare di affrontare le questioni più serie. Hanno scoperto che i loro coetanei reagivano bene alla franchezza: erano assolutamente capaci di gestire temi complessi e problematici, e apprezzavano l’enfasi sulla cultura locale e sul trasformare la paura e l’ansia in iniziativa e responsabilità.
Ho chiesto a Natasha e Isabella come affrontavano le loro emozioni sul clima. Mi hanno risposto di non aver mai provato tanta ansia e sofferenza come durante la 26a conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop26) che si è svolta nel 2021 a Glasgow, in Scozia. In quell’occasione hanno partecipato al loro primo sciopero per il clima, ma per tutto il tempo hanno pensato che sarebbe stato quasi impossibile scendere in piazza nelle Filippine, dove gli attivisti per l’ambiente spesso vengono uccisi. Non condividevano l’idea che si possa chiedere al proprio governo di agire e poi starsene ad aspettare.
Come altri attivisti degli stati insulari più vulnerabili, le Tanjutco speravano che sarebbe stata annunciata la creazione di un fondo da mezzo miliardo di dollari per le perdite e i danni (un sistema con cui i paesi ricchi, che sono maggiormente responsabili del cambiamento climatico, dovrebbero aiutare quelli più poveri, che ne subiscono gli effetti più gravi). Invece alla Cop26 è stato annunciato solo che si sarebbe “continuato a dialogare” sulla questione. Alla Cop27, nel novembre 2022, gli Stati Uniti e altri paesi ricchi si sono prima schierati contro un fondo di questo tipo, proponendo invece di “lanciare un processo per identificare soluzioni di finanziamento appropriate rimandando la decisione finale a una fase successiva”. Poi hanno accettato di istituire il fondo, e una commissione di consulenza dovrebbe presentare le sue raccomandazioni in proposito alla Cop28, in programma a dicembre.
Alle Tanjutco sembrava che i leader riuniti a Glasgow considerassero il sud del mondo sacrificabile e abituato a soffrire; non riuscivano a credere che tutti si comportassero come se ci fosse ancora tempo. “Nessuno può prendere una decisione appropriata in una stanza con l’aria condizionata”, mi ha detto Natasha. “La gente dice che la nostra generazione ha l’ecoansia, che è preoccupata per il futuro, e io rispondo, ‘amico, siamo preoccupati per il presente’”.
Le sorelle hanno raccontato di quando il tifone Ulysses ha investito le Filippine, nel novembre 2020. Tugueragao, una delle città colpite, non era stata avvisata in tempo, perché durante la pandemia il governo aveva chiuso la principale rete televisiva del paese, una delle fonti d’informazione sui disastri. “Ognuno guidava gli altri alla cieca nel buio, senza elettricità e con l’acqua che saliva nelle case”, ha detto Isabella. “Tutti cercavano di salire sui tetti, di tirare le persone fuori dall’acqua con le torce dei cellulari”. Le due sorelle sono state svegliate alle due del mattino da una raffica di messaggi. Sono andate nel panico, poi hanno cominciato a lavorare con Kids for kids e altre associazioni per creare un registro con gli indirizzi delle persone, i numeri per contattarle e quello di cui avevano bisogno. Hanno usato i social network, raccolto fondi e nel giro di un paio di giorni hanno riempito dieci gommoni di viveri, acqua, medicine e altro materiale. Molte autorità locali hanno usato il loro registro per rintracciare le famiglie sfollate.
“Quando vedi dal vivo la tua gente che affoga, quella non è ansia climatica”, ha detto Isabella. “Guardavamo la gente gridare mentre cercava i figli nell’acqua che saliva. Piangevamo. È vero che devi elaborare queste emozioni, ma in quel momento non hai tempo. Sei in modalità di sopravvivenza”. Natasha ha aggiunto che gli occidentali sembrano sempre cercare un percorso lineare, “prima capire come sentirsi, poi capire come agire, e infine agire. Qui agiamo e basta. Proviamo delle cose mentre lo facciamo e dopo, e poi agiamo di nuovo”.
La freccia verde
Dune Lankard aveva trent’anni nel 1989, quando la Exxon Valdez perse undici milioni di barili di petrolio nelle acque dello stretto di Prince William, in Alaska, dove la sua famiglia pescava da generazioni. “Fu come se il cambiamento climatico fosse successo da un giorno all’altro”, mi ha detto. “Il valore delle nostre barche e delle nostre licenze di pesca crollò. Ci furono divorzi e suicidi, e le cooperative di pescatori si sciolsero. Amici e parenti litigavano. Alcol e droga dilagavano”. Le aringhe attraversavano lo stretto, arrivavano in superficie e inghiottivano solo petrolio. Lankard, che fa parte del popolo eyak, ricorda che usciva ogni giorno in mare per cercare di ripulire il kelp e le alghe, con l’impressione di combattere una guerra già persa. Mentre osservava quello che succedeva alla sua comunità – “il caos, la rovina, la perdita della speranza” – si sentiva schiacciato dalla rabbia e dalla tristezza.
Un giorno di pioggia, dopo il disastro della Exxon Valdez, Lankard andò al lago Eyak e, “urlando e sproloquiando”, chiese ai suoi antenati di guidarlo, di mostrargli una freccia verde che gli indicasse come diventare un attivista. Dopo un’ora la pioggia cessò e l’aurora boreale si levò maestosa. In seguito Lankard ha fondato diverse associazioni non profit, tra cui Native conservancy, il primo trust fondiario gestito da indigeni negli Stati Uniti, di cui è ancora direttore esecutivo. Grazie ai suoi sforzi sono stati protetti più di quattrocentomila ettari di terra in Alaska. Inoltre Lankard aiuta i pescatori indigeni ad avviare coltivazioni di kelp, un’attività che offre buoni posti di lavoro, favorisce la sovranità alimentare e contribuisce a sequestrare l’anidride carbonica. “È solo una delle migliaia di cose che devono essere finanziate e realizzate se ci teniamo davvero”, ha detto.
Mentre parlavamo Lankard esprimeva liberamente il suo dolore, e la sensazione che gli esseri umani stanno causando la propria estinzione. “Abbiamo bisogno delle nostre emozioni”, mi ha detto. “Solo che dobbiamo gestirle in modo meno passivo. Io amo fare rafting, e praticandolo si impara che bisogna affrontare il pericolo, che sia un mulinello, delle rapide o un orso. Devi affrontare il tuo pericolo per sapere cos’è, e per allontanartene”. Lankard, che oggi ha una sessantina d’anni, ha una figlia tredicenne. Gli ho chiesto in che modo diventare genitore ha influenzato il suo modo di pensare al cambiamento climatico. Mi ha risposto che quando ha tenuto in braccio sua figlia per la prima volta, si è reso conto che i decenni di attivismo alle sue spalle erano stati ispirati dalla rabbia e dalla frustrazione, dal senso di essere stato ferito. Poi ha capito che da allora in poi la sua motivazione sarebbe stata diversa. Avrebbe agito in nome dell’amore per sua figlia, la cui sola esistenza gli ricorda che non c’è modo di evitare il futuro.
Senza paura
Un anno dopo aver parlato per la prima volta con Davenport l’ho contattata di nuovo. Nei mesi precedenti gli attivisti del gruppo Just stop oil avevano inscenato azioni che andavano dal ridicolo (gettare della zuppa contro I girasoli di Van Gogh) al mirato (sfasciare pompe di benzina). Un gruppo chiamato Tyre extinguishers aveva sgonfiato diecimila pneumatici di suv a New York, a Londra e in altre città. I gasdotti, sia fittizi sia reali, venivano sabotati. Nel suo libro Davenport cita l’ecoterrorismo come esempio di un impulso malato verso l’azione estrema e ossessiva. “Dobbiamo trovare il modo di accettare l’imperfezione del processo”, mi aveva detto durante la nostra prima conversazione. “Dobbiamo tenere le antenne dritte per cogliere le opportunità di aggiungere la nostra voce, di essere presenti nel posto e nel momento giusto in cui può accadere una svolta collettiva”. Ma se queste tattiche fossero proprio la svolta collettiva che stiamo cercando? L’ecosabotaggio non è giustificato dalla gravità del problema?
“Sì, al cento per cento”, mi ha risposto Davenport. Ma ha aggiunto: “È utile a procedere verso la trasformazione di cui abbiamo bisogno?”. Secondo la scienza del comportamento le strategie che provocano rimorso, senso di colpa e paura sono quelle che hanno meno probabilità di favorire il cambiamento, ha spiegato. Le strategie che ispirano la speranza e l’azione – come far approvare delle misure contro le emissioni inquinanti nella propria comunità – sono le più efficaci. Ha citato degli studi secondo cui basta che un quarto dei membri di un gruppo sociale adotti un comportamento per innescare una svolta significativa.
Qualche giorno dopo aver ricevuto l’email di Davenport, il vento ha spinto il fumo degli incendi nelle foreste canadesi a sud, e il cielo sopra New York è diventato una nebbia arancione. Ho pensato a un passaggio del libro di Roy Scranton Learning to die in the Anthropocene (City Lights 2015): “Possiamo continuare a illuderci che domani sarà uguale a ieri, diventando sempre meno preparati ad affrontare ogni nuovo disastro, e sempre più disperatamente aggrappati a una vita che non possiamo sostenere. Oppure possiamo imparare a vedere ogni giorno come se fosse la morte di ciò che è stato prima, in modo da renderci liberi di affrontare qualunque problema ci riservi il presente senza attaccamento né paura”.
Ero arrivata a pensare che la terapia climatica può aiutare le persone a raggiungere questo stato di accettazione, spingendole all’impegno o consentendogli di rimanere presenti senza perdere la testa. Ma questa disciplina sembra basata sulla convinzione che per il mondo e per il futuro sia meglio che noi restiamo sani di mente (un’idea piuttosto sensata, ma che non sempre condivido).
Più tardi ho sentito Tim Wehage, che mi ha detto di essere tornato in terapia e di aver scoperto un’altra cosa durante le sedute: se stava male era anche perché soffriva di un disturbo dell’attenzione che nessuno gli aveva mai diagnosticato. Aveva cominciato a curarsi, e nella nuova pace della sua mente era arrivato a sospettare che a volte aveva usato l’ansia climatica come un contenitore per problemi personali più profondi. “Non mi fraintendere, il fatto che la nostra esistenza sia minacciata dal riscaldamento del pianeta continua a essere molto spesso al centro dei miei pensieri”, mi ha detto. “Ma non mi perseguita più come prima”. E ha aggiunto: “Ci sono persone che sono fatte per migliorare le città e i paesi. Io non sono una di queste persone, e va bene così”. ◆gac
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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 38. Compra questo numero | Abbonati