Quando mi è arrivato per posta Possessed di Rebecca Falkoff, una storia culturale dell’accumulo patologico, l’ho poggiato sulla scrivania con una pila di altri libri, un groviglio di cavi elettrici lasciati lì dopo la vana ricerca di un caricabatteria, un piccolo microscopio tascabile, una lampada da lettura rotta, una busta di plastica piena di adattatori da viaggio, un mazzo di fogli sparsi, una selezione di temperini, un paio di altoparlanti, l’osso mascellare di un luccio, un’antica scatola di sigari, un uovo di piccione schiuso, una bobina di lenza da pesca, diverse armoniche, un motore a vapore giocattolo rotto, il guscio di un riccio di mare, la penna caudale di un parrocchetto dal collare, un lucchetto trasparente per imparare a usare il grimaldello, tre tazze vuote e un torsolo di mela avvizzito.
Dal saggio di Falkoff sono passato ad altri libri sull’argomento. Prima di cominciare a scrivere dovevo leggere qualcosa in più sulla storia dell’accumulo patologico (Tengo tutto. Perché non si riesce a buttare via niente di Randy O. Frost e Gail Steketee, Clutter di Jennifer Howard) e su come curarlo (The hoarding handbook o Cbt for hoarding disorder). Volevo capire il fascino del fare pulizia, quindi ho comprato Il magico potere del riordino di Marie Kondo e Decluttering at the speed of life di Dana White. Sono andato a cercare romanzi e racconti che parlano di accumulatori compulsivi (Le anime morte di Gogol, in cui Stepan Pljuškin “va a pesca” di cose senza valore nel suo villaggio; Oggetti solidi di Virginia Woolf, in cui un giovane rinuncia a una promettente carriera parlamentare e se ne va in giro per Londra in cerca di bellissimi cocci di vasi) e ho stampato articoli accademici in cui gli psichiatri litigano sulle definizioni. I libri e i fogli hanno continuato ad accatastarsi per mesi. Rimescolavo la pila, leggevo un capitolo, sottolineavo dei passaggi, attaccavo post-it. La pila cresceva e s’impolverava.
L’accumulo patologico è molto diffuso (colpisce tra il 2 e il 6 per cento delle persone, in numero uguale tra uomini e donne) ed è sorprendentemente difficile da definire. La diagnosi si basa sull’analisi visiva e può essere sempre contestata, perciò l’accumulo – come sottolinea Falkoff nel suo affascinante libro – è sempre in parte “un problema estetico”. Una soluzione è l’indice di accumulo per immagini (clutter image rating, Cir), uno strumento diagnostico realizzato da Frost e Steketee per sostituire le vaghe autodefinizioni con un criterio di misurazione più obiettivo. Il Cir consiste in immagini d’interni – cucina, bagno, camera da letto, soggiorno – che si riempiono via via di oggetti. Nella prima foto del soggiorno, lo spazio è più o meno vuoto. Si distinguono il pavimento, la superficie di un tavolino basso sotto una pila ordinata di giornali e i cuscini sul divano. Alla quarta immagine, cataste di vestiti e materiali elettrici coprono gran parte del pavimento e delle sedute disponibili. Alla nona, la stanza è a malapena visibile sotto una montagna traballante di oggetti.
Metterei la stanza in cui mi trovo al livello tre del Cir: un quantitativo “standard” di disordine casalingo, secondo Frost e Steketee. Proprio come Falkoff, che ha cominciato a interessarsi a quella che nel suo libro definisce “cultura dell’accumulo” perché sia sua nonna sia suo padre erano accumulatori compulsivi, sono cresciuto in una casa che era più o meno tra il livello cinque (un livello di accumulo che può richiedere “assistenza professionale”) e il livello sette (che pone significative questioni di sicurezza, e richiede “un approccio collaborativo di più imprese con il coinvolgimento di un’ampia gamma di professionisti”).
I miei genitori si trasferirono nella loro casa nel 1978 e da allora mio padre continua a riempirla di roba. Recentemente sono andato a trovarlo e ho fatto una rapida ispezione. C’erano colonne di giornali ingialliti, ceste di cartellini con il nome di convegni di tanti anni fa, lattine di rare bevande analcoliche comprate nei viaggi all’estero, serie incomplete di oscure riviste, volantini e biglietti usati di musei e gallerie, libri (soprattutto poesia, romanzi dell’ottocento, cataloghi di arte e autobiografie di imprenditori), biglietti da visita, scatole di scarpe piene di audiocassette, aquiloni, giocattoli caricati a molla, bustine d’incenso e botti di Natale scaduti, i dvd che una volta davano in omaggio con i giornali, carillon, una macchina tipografica e casse piene di caratteri per la stampa. Nella credenza ho trovato scorte di prodotti – saponette, dentifrici, shampoo – di varie marche che mio padre teme possano essere messi fuori produzione.
A differenza del padre di Falkoff, al mio non interessa scovare tesori nella spazzatura. Non è mai stato un assiduo frequentatore delle discariche o dei mercatini dell’usato. Però ha un debole per gli acquisti insoliti. Quando a Londra ha aperto la catena tedesca Tchibo (una specie di Starbucks), c’è andato quasi ogni settimana e si è portato a casa un monociclo, uno slittino pieghevole, dei pulisciorecchie con attacco usb e una serie di attrezzi da quattro soldi che non ha mai estratto dalle scatole.
L’accumulo patologico è molto diffuso ed è sorprendentemente difficile da definire. La diagnosi si basa sull’analisi visiva, perciò è sempre in parte un problema estetico
Nei momenti peggiori, la roba accumulata da mio padre sembra una creatura vivente. Gli oggetti fluttuano per la casa, minacciando di colonizzare ogni scaffale e credenza e confondendosi in una massa indistinta (forse è proprio questo passaggio da lista di singoli oggetti a presenza invariabile che definisce l’accumulo). Per entrare nel suo studio bisogna attraversare strettissimi “sentieri per capre” (come vengono chiamati nella letteratura specialistica) ricavati tra le colonne dei giornali. Nel disimpegno davanti alla porta sul retro le scatole sono accatastate a quattro a quattro, perciò bisogna scavalcarle e sgusciare fuori attraverso lo spazio vuoto in cima, come degli speleologi. Le buste di plastica esplodono sotto i piedi, lasciando fuoriuscire cumuli di carta. A volte troviamo anche delle chiazze bagnate e piccole cacche secche lasciate negli angoli dal nostro gatto malato e incontinente.
Mio padre ha sempre negato di essere un accumulatore patologico, ma è quello che dicono tutti gli accumulatori patologici. Gli ho mandato una foto del Cir per email e gli ho chiesto di dare un punteggio al suo studio: ha detto che secondo lui era al livello tre. Quando gli ho fatto notare che le buste e le scatole di giornali coprivano tutta la sua scrivania, ha risposto che è solo una cosa temporanea perché li sta sistemando (sono lì da quando sono bambino). Se gli chiedo perché conserva tutta quella roba, le risposte variano. Un tempo diceva che era per lavoro. Prima di andare in pensione faceva il giornalista alla radio, e ogni pila di carte rappresentava un’idea per un programma. Questo ovviamente non giustificava i giocattoli e le altre cianfrusaglie, sapeva benissimo che non sarebbero stati di nessuna utilità, almeno nella definizione stretta del termine. Non ha mai provato ad andare in monociclo né a usare lo slittino pieghevole. Non ha mai guardato nessuno dei dvd dati in omaggio (non ha nemmeno un lettore dvd). Raramente ascolta le cassette. Non consulta mai le migliaia di biglietti da visita che ha meticolosamente sistemato in file di faldoni sulle mensole della mia vecchia camera da letto. Però dice che questi oggetti hanno un significato. Non pensa che possano avere un valore e neanche un’utilità. Semplicemente gli piace averli intorno.
Magari ha ragione. Potremmo dire che la tragedia dell’accumulatore patologico sta nell’incapacità di convincere la società che gli oggetti che custodisce valgano qualcosa. Il confine tra “avere un sacco di roba” e “essere un accumulatore patologico” è poroso, e dipende in larga misura dalle norme sociali.
Anche la psichiatria ha cominciato a occuparsene solo di recente. Un tempo l’accumulo patologico era considerato parte del disturbo ossessivo-compulsivo (doc), ma nell’ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) dell’Associazione psichiatrica degli Stati Uniti al “disturbo da accumulo” è stata assegnata una voce distinta. È definito come “la persistente difficoltà di disfarsi o separarsi dai propri oggetti, a prescindere dal loro valore effettivo”, da cui sorge la domanda: a chi spetta la valutazione? Di sicuro mio padre è convinto che gli oggetti che colleziona abbiano un valore, almeno per lui. Il sito del sistema sanitario del Regno Unito dà una indicazione più pratica: un soggetto probabilmente soffre di disturbo da accumulo, dice, se il suo disordine “interferisce con la vita di tutti i giorni” (sì) o se “provoca un significativo disagio o influenza negativamente la qualità della vita della persona o della sua famiglia: se, per esempio, si arrabbia se qualcuno prova a mettere in ordine e la relazione reciproca ne soffre” (e ancora sì). In realtà, arrabbiarsi se qualcuno prova a mettere in ordine le proprie cose non mi sembra così insolito. E sicuramente io non sono un accumulatore.
Gli psichiatri si dividono sul perché le persone accumulano oggetti. Alcuni sostengono che potrebbe essere la conseguenza di una privazione materiale durante l’infanzia: se un bambino cresce avendo poco è plausibile che voglia circondarsi di cose da adulto. Gli studi, tuttavia, mostrano che gli accumulatori non crescono in povertà più del resto della popolazione. La cosa interessante, invece, è che in percentuale superiore alla media hanno rapporti difficili con i genitori, soprattutto con il padre. Il comportamento sembra avere una componente ereditaria: la metà degli accumulatori ha un parente stretto che soffre dello stesso disturbo. E il fenomeno potrebbe anche avere un’origine neurologica: il cervello degli accumulatori mostra differenze nella corteccia cingolata e insulare rispetto ai non accumulatori e ai soggetti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo, e le lesioni cerebrali sembrano in grado di scatenare comportamenti accumulatori. Nel 1848 Phineas Gage, un operaio delle ferrovie del Vermont, negli Stati Uniti, si ritrovò un’asta di metallo conficcata nel cranio in seguito a un’esplosione. Sopravvisse all’incidente, ma il suo medico disse che aveva sviluppato “una grande predilezione per gli animali domestici e i souvenir”, seconda solo “all’attaccamento all’asta di metallo, che fu sua fedele compagna per il resto della vita”.
L’accumulo patologico è un male moderno. In passato, fare incetta di beni materiali era visto come un segno di corruzione morale o una specie di peccato, ma era comunque considerato fondamentalmente razionale: in un mondo di privazioni, non è forse normale accaparrare quanto più possibile? In inglese antico, la parola hordian (accaparrare, accumulare) ha connotazioni di segretezza ma non di pazzia o ossessione. Le cose cominciarono a cambiare, almeno nel mondo sviluppato, durante la rivoluzione industriale, quando i beni prodotti in serie diventarono alla portata di tutti, svincolando il valore dall’utilità e rendendo possibile ammassare oggetti in modo apparentemente patologico.
Il primo esempio di qualcosa di simile al disturbo da accumulo è la bibliomania, malattia di gran moda nel settecento e nell’ottocento. L’abbassamento dei costi della stampa aveva reso i libri molto più accessibili, e gli appassionati cominciarono a farne incetta, spesso indipendentemente dal contenuto. In Il bibliomane (1841), lo scrittore e bibliotecario francese Charles Nodier distingue tra bibliofili, che sanno “come selezionare i libri”, e bibliomani, che “li accumulano e li ammassano”. Il bibliofilo, scrive, “ripone un libro nel posto giusto sullo scaffale dopo averlo esplorato con tutte le risorse della ragione e dell’immaginazione; il bibliomane accatasta i suoi libri in pile senza mai guardarli”. Per Nodier, il bibliomane per eccellenza era Antoine-Marie-Henri Boulard, un avvocato che aveva abbandonato la professione e ogni giorno passeggiava per Parigi per comprare libri, arrivando ad accumularne fino a seicentomila. Nodier descrive così una visita alla sua casa: “Le gigantesche pile, con il loro incerto equilibrio scosso dai colpetti del bastone del signor Boulard”, ondeggiano “minacciosamente dai basamenti, le cime oscillano come le guglie di una cattedrale gotica al suono delle campane o all’infuriare di un temporale”. Al consiglio della signora Boulard di leggere qualcuno dei suoi libri prima di comprarne altri, scrive Falkoff, l’uomo “diventò cupo e irritabile e cominciò a comprare libri a credito e a nascondere i suoi acquisti alla moglie”. Alla fine Boulard accettò di liberarsi del vizio e cadde in depressione; per alleviare la sua malinconia, la moglie chiese a un libraio di piazzarsi sotto la sua finestra e di vendere i libri declamandone i titoli ad alta voce.
Ben più tragica è la vicenda dei gemelli Homer e Langley Collyer, vissuti a New York negli anni quaranta. I Collyer, gli “eremiti di Harlem”, erano noti in tutto il quartiere come una coppia di collezionisti ossessivi e indiscriminati, e la loro casa era diventata una specie di attrazione locale per il disordine che la circondava. Nel 1947 scomparvero, e dopo qualche mese la polizia fece irruzione in casa per cercarli. Fu trovato subito il corpo di Homer, che era cieco, “adagiato in un’alcova tra cumuli di detriti”: era morto di fame. Dopo tre giorni di ricerche s’imbatterono nel “cadavere in decomposizione di Langley, rosicchiato dai topi”. Era morto mentre cercava di portare da mangiare al fratello: aveva fatto scattare una delle trappole che aveva piazzato per proteggere il suo tesoro. Insieme ai corpi dei fratelli, furono estratte dall’appartamento centoventi tonnellate di oggetti vari, tra cui “un elaborato pelapatate, un paralume decorato con perline, un aeroplano giocattolo, un espositore da profumeria di acqua di colonia, un barattolo contenente un feto umano bicefalo conservato in formaldeide” e quattordici pianoforti.
Non c’è da stupirsi se gli psicoanalisti sono così affascinati dagli accumulatori seriali: mettere ordine nel disordine è il problema dell’accumulatore e il processo dell’analista. Freud teneva più di tremila sculture sulla scrivania e sulle mensole. In Psicopatologia della vita quotidiana scrive: “L’angustia del mio studio spesso mi obbliga a maneggiare nelle posizioni più scomode gli oggetti di pietra e il vasellame antico della mia piccola collezione, così persone che assistevano hanno espresso il timore che io lasciassi cadere e rompessi qualcosa”. Il metodo psicoanalitico ha molto in comune con quello dell’accumulatore. “Tutte le psicoanalisi si occupano di disordine e significato e dei collegamenti tra i due”, scrive Adam Phillips in Clutter: a case history. “Se le nostre vite tendono a diventare caotiche, apparentemente per conto loro ma di solito per mano nostra, molte ricostruzioni psicoanalitiche hanno l’inclinazione a riordinare le cose”.
La tesi di Phillips è che il modo in cui vediamo l’accumulo di oggetti dipende da come lo raccontiamo. Se curato, l’accumulo può diventare una collezione; se etichettata, una collezione diventa un archivio (e quindi, un collezionista è solo un accumulatore seriale che ha spazio per la sua roba). Ecco perché Break down, l’opera d’arte del 2001 in cui Michael Landy distrugge sistematicamente tutti i suoi effetti personali (tra cui il passaporto, il certificato di nascita e il cappotto di montone del padre) in una vetrina di Oxford street, è così provocatoria. Non è solo un atto di distruzione, ma una forma di autoannientamento.
L’aspetto più sorprendente dell’accumulo patologico è il lavoro di manutenzione che c’è dietro. Gli oggetti accumulati devono essere continuamente maneggiati, spostati, sistemati, riorganizzati. Mio padre è molto fiero della sua capacità di trovare le cose (libri, passaporti, documenti importanti) in mezzo alle pile di roba: “Guarda, al primo colpo!”, dice. “Te l’ho detto, ho un sistema”. Da quando mi ricordo, però, è sempre stato impegnato nell’impresa infinita di rimettere le cose in ordine. Un’immagine ricorrente della mia infanzia è quella di mio padre seduto al tavolo della cucina (nel suo studio non c’era più spazio) che estrae metodicamente dei fogli dalle scatole di cartone e li esamina a uno a uno prima di decidere se sistemarli nella pila “tenere” o “buttare”. Quando finiva una scatola, nella pila “buttare” c’erano sì e no tre o quattro fogli. Il resto era riassorbito nel mucchio.
Quando mia nonna era in gravi condizioni di salute, qualche anno fa, si decise che sarebbe venuta a vivere con noi. Mio padre cominciò a sgomberare il suo studio per farle spazio. Inscatolò tutta la roba da cui poteva tollerare di separarsi, la caricò in macchina e la portò in un deposito su City road. Scaricò le scatole in un box, firmò le carte e se ne andò. Nei dieci anni successivi la ditta gli scrisse varie volte per informarlo che le sue scatole erano state spostate, ma lui non sentì mai il bisogno di andarle a controllare. Anni dopo, quando si è accorto che aveva speso decine di migliaia di sterline per tenere in magazzino roba che non aveva guardato neanche una volta, con la coda tra le gambe ha riportato tutto a casa.
“L’accumulo patologico è un fenomeno unico”, scrive Falkoff, “perché la sua diagnosi presuppone l’esistenza di un’entità materiale esterna alla realtà psichica del paziente”. Non solo: l’accumulo è unico perché è sia un sintomo sia una manifestazione della psiche che l’ha creato. Quando ero più giovane, la roba accumulata da mio padre mi metteva in imbarazzo. Oggi ne sono quasi orgoglioso. È una testimonianza della sua eccentricità, della vastità e della peculiarità dei suoi interessi, della sua ammirevole indifferenza alla pulizia. È feconda e generativa – anche se un po’ opprimente – come un’opera d’arte o un mare in tempesta. Nella roba di mio padre ora vedo un impegno e un tributo, non all’utilità o alla bellezza, ma alla memoria e al significato. ◆ fas
Jon Day è uno scrittore e giornalista britannico. Insegna inglese al King’s college di Londra. Questo articolo è una recensione di Possessed: a cultural history of hoarding di Rebecca Falkoff (Cornell University Press 2021). È uscita sul quindicinale britannico London Review of Books con il titolo Hoardiculture.
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Questo articolo è uscito sul numero 1487 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati