Verso la fine di ottobre del 2023 Gershon Baskin, un noto attivista per la pace israeliano, ha pubblicato una lettera aperta in cui criticava duramente un uomo che per molto tempo aveva considerato un amico: Ghazi Hamad, un alto funzionario di Hamas. Baskin, uno degli artefici dell’accordo che nel 2011 portò alla liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit dalla prigionia di Hamas, è uno dei pochissimi israeliani ad aver mantenuto contatti costanti con i leader del movimento islamista palestinese. Anche Hamad, un ex giornalista con una laurea in veterinaria, ha avuto un ruolo nei negoziati per Shalit ed è stato viceministro degli esteri nel governo di Hamas del 2012. Prima degli attacchi del 7 ottobre per più di quindici anni Hamad e Baskin si sono sentiti spesso con telefonate e messaggi, che riguardavano soprattutto le trattative per gli scambi di prigionieri e a volte la possibilità di una tregua a lungo termine tra Israele e Hamas. I due avevano maturato un cordiale rapporto di lavoro basato sulla fiducia reciproca.

Dopo il 7 ottobre e l’inizio dell’invasione israeliana nella Striscia di Gaza quella relazione ha cominciato a sgretolarsi. Hamad ha sostenuto che gli attacchi di Hamas fossero giustificati, e negato che i combattenti palestinesi avessero commesso atrocità durante la loro incursione in Israele. Il 24 ottobre, in un’intervista a una tv libanese, ha giurato che Hamas avrebbe compiuto quelle stesse azioni “ancora e ancora”. Ha affermato che il “diluvio di Al Aqsa”, il nome dato da Hamas alla sua offensiva armata, “è stato solo il primo, e ce ne saranno un secondo, un terzo, un quarto”. Un tempo considerato un attento osservatore della politica palestinese, ora Hamad dichiarava: “Nessuno dovrebbe biasimarci per quello che facciamo il 7 ottobre, il 10 ottobre, il diecimila ottobre. Tutto quello che facciamo è giustificato”.

Con il senno di poi

A Baskin, questo non sembrava l’uomo che aveva imparato a conoscere. Le dichiarazioni di Hamad, “considerato una delle persone più moderate dentro Hamas”, gli suonavano come un tradimento. L’attivista israeliano aveva a lungo sostenuto che era possibile negoziare un accordo con Hamas per una hudna, un armistizio temporaneo, in cambio della revoca del blocco terrestre, aereo e marittimo sulla Striscia di Gaza, che Israele ha imposto, con il sostegno dell’Egitto, da quando Hamas è salito al potere nel 2007. Baskin aveva creduto che Hamad avrebbe potuto contribuire a convincere Hamas ad accettare la soluzione dei due stati. Nei mesi precedenti al 7 ottobre aveva cercato di organizzare un incontro insieme a lui in Europa per discutere la possibilità di una tregua duratura.

Ma dopo il 7 ottobre anche Baskin ha cambiato idea. “Hamas ha perso il suo diritto di esistere come governo di qualunque territorio, e specialmente di uno vicino a Israele”, ha scritto in un articolo sul Times of Israel il 28 ottobre. “Ora merita pienamente la decisione di Israele di eliminarlo come organismo politico e militare che controlla Gaza”. Più recentemente Baskin ha proposto di esiliare da Gaza i leader di Hamas come Yahya Sinwar nell’ambito di un potenziale accordo di cessate il fuoco e d’impedire la partecipazione del gruppo alle future elezioni palestinesi, a meno che non abbandoni la violenza. Baskin non ha rinunciato alla pace: continua a essere un ospite fisso sui mezzi d’informazione internazionali, rappresentando una voce solitaria, perfino disperata, con i suoi appelli per una fine del conflitto. Ma non crede più che Hamas possa essere parte dell’equazione. Da ottobre molti israeliani – anche, o forse soprattutto, di centrosinistra – hanno compiuto una traiettoria simile.

Alla fine di dicembre ho incontrato Baskin a casa sua, in un quartiere tranquillo e verdeggiante di Gerusalemme. Nato a New York, Baskin è un uomo tarchiato ed energico di quasi settant’anni. Mi ha aperto indossando la medaglietta argentata con la scritta “Riportiamoli a casa”, diventata l’emblema del movimento che chiede il ritorno dei più di cento ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas. Una domanda incombe sulla storia di Baskin e Hamad: Hamas è cambiato o semplicemente Baskin ha sempre frainteso il gruppo? L’attivista crede nella prima ipotesi. “Per molti anni prima del 7 ottobre c’è stata una volontà di esplorare dei cessate il fuoco pragmatici e a lungo termine”, mi ha detto. “Con il senno di poi è diventato chiaro – c’erano dei segnali, ma nessuno di noi li aveva colti – che già due anni prima del 7 ottobre Hamas aveva deciso che non sarebbe stato possibile raggiungere un accordo a lungo termine con Israele e aveva cominciato a pianificare un attacco”.

Baskin ha ricordato il suo ultimo scambio con Hamad alla fine di ottobre. “Nei primi giorni della guerra, quando ho saputo che la sua casa era stata bombardata, e non sapevo che lui non era a Gaza, gli ho detto: ‘Ghazi, se danno la caccia a te, nessun militante di Hamas è al sicuro’” (prima della guerra Hamad era partito per Beirut). “Lui mi ha risposto: ‘Abbiamo molte sorprese, e uccideremo molti israeliani’”.

È stato allora che Baskin ha pubblicato sui social network la sua lettera aperta a Hamad. “Mi dispiace dire che eri una persona di cui mi fidavo davvero e pensavo che avremmo potuto contribuire a costruire un futuro migliore per i nostri popoli. Ma tu e i tuoi amici avete riportato la causa palestinese indietro di 75 anni”, ha scritto. “Penso che avete perso la testa e il vostro codice morale”. E con questo ha chiuso i rapporti.

A sette mesi dall’inizio della brutale guerra israeliana a Gaza, più di 35mila palestinesi, per la maggior parte civili, sono stati uccisi. L’invasione israeliana ha costretto due milioni di palestinesi a lasciare le loro case e spostarsi in altre zone della Striscia. Molti ora sono costretti a vivere in tende di fortuna nella città meridionale di Rafah o nei suoi dintorni. Gli esperti internazionali avvertono che nel nord della Striscia, in gran parte raso al suolo dagli incessanti bombardamenti di Israele, “la carestia è imminente”. I bambini già cominciano a morire perché non hanno da mangiare.

Con la guerra che continua, il modo in cui i politici israeliani, palestinesi e statunitensi considerano Hamas non è una questione puramente teorica: è un fattore concreto sul campo, tanto quanto i proiettili e i carri armati. È uno degli elementi che definiscono la strategia militare e determinerà che tipo di accordo sarà raggiunto per mettere fine alla guerra, e quale sarà il futuro di Gaza.

Gershon Baskin a Gerusalemme, il 4 novembre 2023 (Tamir Kalifa, The New York Times/Contrasto)

La disintegrazione del rapporto tra Baskin e Hamad riflette dunque un dibattito più vasto e antico su Hamas, che ora è diventato più pressante. Al centro c’è una questione sull’essenza dell’organizzazione: si tratta principalmente di un gruppo nazionalista con un carattere islamista, che potrebbe essere un protagonista costruttivo in un vero processo di pace? O di un gruppo più radicale, fondamentalista, la cui ostilità nei confronti di Israele è così ostinata da poter svolgere solo un ruolo di opposizione violenta?

Uno degli schieramenti in questo dibattito, per lo più composto da esperti di antiterrorismo occidentali e analisti per la sicurezza statunitensi e israeliani, ritiene da tempo che la ragion d’essere del gruppo sia la sua violenta ostilità all’esistenza di Israele. In questa prospettiva, non c’è niente di sorprendente nel 7 ottobre. Al contrario, citando Matthew Levitt, funzionario dell’amministrazione dell’ex presidente statunitense George W. Bush e autore di un libro su Hamas, l’attacco ha “dimostrato nel modo più cruento e brutale che la vera priorità di Hamas è distruggere Israele e creare al suo posto uno stato palestinese islamista”. Gli analisti di questa scuola di pensiero indicano la vasta infrastruttura di tunnel di Hamas come una prova del fatto che il gruppo protegge i suoi combattenti, lasciando i civili di Gaza in superficie a cavarsela da soli senza un sistema di rifugi antiaereo.

Uno schieramento opposto, più eterogeneo, che comprende professori universitari ed esperti, molti dei quali palestinesi, considera Hamas un soggetto politico multiforme e complesso, diviso tra tendenze radicali e moderate. Hamas, sostengono, è il prodotto della realtà in cui vivono i palestinesi – una brutale occupazione e l’embargo – e quindi è potenzialmente reattivo a eventuali cambiamenti. Il problema, secondo questo modo di vedere, è che anche quando i leader di Hamas si sono mostrati aperti alla moderazione, la politica israeliana ha reso impossibile al gruppo seguire questa linea senza che il suo ruolo di ultimo bastione di una seria opposizione a Israele e alla sua occupazione perdesse credibilità tra i palestinesi.

Il grande equivoco

Quando ci ho parlato a gennaio, lo studioso palestinese Tareq Baconi ha affermato che “il più grande equivoco” nel discorso dominante sul gruppo palestinese è l’idea che “se si neutralizza la minaccia di Hamas alla sicurezza, Israele non avrà problemi con i palestinesi”. Ma “se anche Hamas sparisse domani”, ha continuato Baconi, il blocco israeliano su Gaza e il governo militare in Cisgiordania non sparirebbero. “C’è la tendenza a parlare di una guerra tra Israele e Hamas invece che di una guerra tra Israele e i palestinesi, come se Hamas fosse estraneo ai palestinesi”, ha aggiunto. “È un’incapacità di affrontare le motivazioni politiche che animano i palestinesi”.

Ghazi Hamad a Gaza, il 23 maggio 2021  (Laurent Van der Stockt, Getty)

Secondo Khaled Elgindy, ex consigliere dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) nei negoziati con Israele e oggi ricercatore al Middle East institute, qualsiasi accordo dopo la guerra che escluda Hamas sarà destinato a ripetere gli errori che hanno portato al conflitto attuale. “È proprio il concetto: ‘Faremo pace con questo gruppo di palestinesi mentre facciamo la guerra a quest’altro’” a sorreggere la logica che giustifica il soffocamento economico e i bombardamenti periodici sulla Striscia di Gaza, mi ha spiegato. “Una logica insensata in termini di risoluzione dei conflitti”.

“Hamas è una realtà della vita politica di Gaza e della vita palestinese in generale. Anzi, oggi è più rilevante che mai”, ha aggiunto Elgindy. In un articolo pubblicato alla fine dell’anno scorso su Foreign Affairs, Elgindy ha spiegato perché secondo lui Hamas dovrebbe essere parte di un accordo dopo la guerra.

L’obiettivo, ha scritto, dovrebbe essere incorporare Hamas e altre fazioni armate estremiste nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), dominata dal partito laico nazionalista Al Fatah e riconosciuta come unica rappresentante ufficiale del popolo palestinese a livello internazionale.

Elgindy ritiene che la politica palestinese potrebbe includere tanto l’intransigenza di Hamas quanto la cooperazione dell’Anp con Israele, così come la politica israeliana comprende partiti che sostengono la collaborazione con l’Anp e altri che si oppongono. Nel breve periodo questo potrebbe rendere “più difficile raggiungere una soluzione dei due stati”, ha ammesso, perché Hamas avrà “un potere di veto come qualunque opposizione”. Ma a lungo termine integrare Hamas nell’Olp potrebbe cominciare a sanare la frattura interna al movimento nazionale palestinese, che ha offerto a Israele una scusa per rifiutarsi di partecipare a qualunque negoziato. Se Hamas accettasse di rispettare gli accordi firmati tra Israele e l’Olp questo non solo aumenterebbe le possibilità di un accordo di pace duraturo, ma arginerebbe anche la capacità del gruppo di “comportarsi da battitore libero e guastare tutto come sa fare”, ha aggiunto Elgindy.

Un soldato israeliano esce da un tunnel nel nord della Striscia di Gaza, il 15 dicembre 2023 (Amir Levy, Getty)

Al momento, tuttavia, sembra fortemente improbabile che i leader di Hamas, a Gaza o all’estero, siano disposti ad accettare una prospettiva simile. All’inizio di marzo i suoi rappresentanti, quelli di Al Fatah e di altre fazioni politiche palestinesi si sono incontrati a Mosca per dei colloqui in vista di una riconciliazione. Dopo la guerra tra Hamas e Al Fatah del 2007 ci sono stati più di dieci tentativi di riunificazione sostenuti da diversi governi arabi e musulmani. Nessuno si è mai tradotto in un accordo duraturo.

Ma se l’unità palestinese con Hamas può rivelarsi irraggiungibile, è altrettanto difficile immaginare un futuro senza il gruppo. “Le persone credono a questa impostazione di fondo, per cui se distruggessimo Hamas o almeno lo marginalizzassimo la pace sarebbe più facile”, ha osservato Elgindy. In pratica, ha proseguito, questa posizione offre una giustificazione razionale alla devastante aggressione israeliana contro Gaza. È un’idea sbagliata da un punto di vista non solo strategico, ma anche morale.

Guidare la battaglia

Hamas è stato fondato nel 1987 da alcuni militanti del ramo palestinese dei Fratelli musulmani durante la prima intifada, la rivolta popolare palestinese scoppiata dopo che un camion israeliano aveva ucciso quattro lavoratori palestinesi nel campo profughi di Jabalia a Gaza. Il nome Hamas, che significa “zelo”, è un acronimo di Harakat al muqawamah al islamiyyah, Movimento della resistenza islamica. Storicamente gli islamisti palestinesi tendevano a non intromettersi nella politica, convinti che la società dovesse essere prima islamizzata se si voleva vincere la lotta contro Israele. Tuttavia, con l’intensificarsi delle manifestazioni, decisero di mettersi alla guida di quella rivolta.

I leader fondatori di Hamas erano per la maggior parte rifugiati, nati nell’attuale Israele e costretti a fuggire nella Striscia di Gaza durante quella che i palestinesi chiamano Nakba, la “catastrofe”, quando circa 700mila palestinesi furono costretti a lasciare le loro case nella guerra del 1948. Ahmad Yassin, leader spirituale del gruppo, era nato nel 1936 nel villaggio di Al Jura, vicino alla città di Ashkelon, nel sud dell’attuale Israele. Agli occhi dei seguaci Yassin – un uomo minuto e dal tono sommesso, che indossava una veste bianca e si muoveva in sedia a rotelle a causa di un incidente avuto nell’infanzia – sembrava incarnare la sofferenza del popolo. Nel 2004 Israele, come avrebbe poi fatto con molti leader di Hamas, uccise Yassin: alcuni elicotteri spararono sul suo entou­rage mentre usciva da una moschea dopo la preghiera dell’alba.

I leader fondatori erano per la maggior parte rifugiati, nati nell’attuale Israele

Lo statuto fondativo dell’organizzazione, del 1988, è un misto di citazioni coraniche, disquisizioni di dottrina islamica, proclami nazionalisti e complottismo antisemita. Quel documento definisce la terra di Palestina come un waqf, una fondazione islamica di cui non può essere ceduto neanche un centimetro perché è “consacrata per le future generazioni musulmane fino al giorno del giudizio”. Accusa i sionisti di aver istigato le rivoluzioni francese e bolscevica ed etichetta “i massoni, il Rotary e il Lions club” come “organizzazioni spionistiche distruttive” che facilitano il “nazismo degli ebrei”. Il testo subordina la lotta nazionale palestinese alla guerra religiosa. In altre parole, è uno statuto improbabile per un movimento che, nel giro di un decennio, avrebbe aspirato a rappresentare la causa palestinese, guidata per buona parte dei cinquant’anni precedenti da gruppi dichiaratamente laici.

Fin dalla sua creazione si è discusso se il radicalismo islamico dello statuto fondativo rappresenti l’ideologia operativa dell’organizzazione. Alcuni studiosi di islamismo considerano la retorica religiosa di Hamas come una cornice dei suoi obiettivi nazionalisti, che sono il suo interesse centrale. Secondo Azzam Tamimi, autore del libro Hamas: a history from within, i leader avevano capito che crescendo il movimento aveva bisogno di presentarsi in modo più accessibile al mondo esterno. Un documento intitolato “Questo è ciò per cui lottiamo”, scritto a metà degli anni novanta in risposta alla richiesta di un diplomatico europeo di fare chiarezza sugli obiettivi del gruppo, definì Hamas in termini diversi da quelli dello statuto. Hamas, si legge, è “un movimento di liberazione nazionale palestinese che combatte per la liberazione delle terre palestinesi occupate e per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi”. In un certo senso, la questione di come considerare Hamas deriva dal divario tra queste due modalità retoriche: jihad intransigente da un lato e linguaggio della resistenza anticoloniale dall’altro, cioè ideologia fondamentalista o pragmatismo politico.

“Non esiste un unico Hamas”, scrive Tareq Baconi nel suo libro Hamas contained: the rise and pacification of Palestinian resistance. “È un esercizio futile, oltre che fondamentalmente impreciso e riduzionista, cercare di affermare che il movimento sia una sorta di soggetto monolitico”, continua. Nell’organizzazione convivono estremisti e pragmatici, conservatori religiosi e figure relativamente moderate, quelli che preferiscono la lotta armata contro Israele e quelli che, almeno fino a poco tempo fa, volevano ottenere conquiste attraverso strumenti politici. Hamas ha “sempre cercato di agire tra la strada violenta e quella diplomatica, di spostarsi dall’una all’altra, in base a quello che riteneva funzionale ai suoi interessi”, sostiene Hugh Lovatt, esperto di Medio Oriente e politologo allo European council on foreign relations.

Tuttavia, anche se la leadership di Hamas non è sempre stata concorde sulle questioni teoriche, la persistenza dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza ha fornito un’unità di intenti al gruppo. Nel 1993, quando l’Olp guidata da Yasser Arafat riconobbe lo stato di Israele e rinunciò alla violenza firmando il primo accordo di Oslo, fu Hamas a prendere il testimone della resistenza armata e ad assumersi l’impegno di liberare tutta la Palestina storica. L’intesa tra Israele e l’Olp fu una delusione per molti palestinesi, non solo sostenitori di Hamas. In un profetico saggio del 1993 l’intellettuale palestinese Edward Said definì gli accordi di Oslo “uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese”. Arafat aveva accettato di rinunciare alla lotta armata contro Israele e alla “rivendicazione unilaterale e internazionalmente riconosciuta dei palestinesi sulla Cisgiordania e su Gaza”, scriveva Said, mentre “Israele non ha concesso nulla”.

Una vera sfida

Durante tutti gli anni novanta Hamas, risolutamente contrario agli accordi di Oslo, ha intensificato la sua lotta contro Israele. Inizialmente, erano attentati con armi leggere, piccole bombe piazzate sul ciglio della strada e tentativi rudimentali di sequestrare soldati israeliani. Le cose cambiarono il 6 aprile 1994, quando un palestinese, su ordine di uno dei leader del braccio armato di Hamas, si fece saltare in aria a una fermata dell’autobus nella città di Afula, nel nord di Israele, uccidendo otto israeliani. Era una vendetta in risposta al massacro di 29 fedeli nella moschea di Abramo, a Hebron, compiuto due mesi prima da un estremista israeliano che sperava di far naufragare i colloqui di pace tra Israele e l’Olp. L’attentato suicida di Afula fu anche espressione della strategia militare che stava emergendo dentro Hamas. I leader del gruppo consideravano le morti dei civili il punto debole di Israele, ritenendo che avrebbero eroso la sensazione di sicurezza personale e alla fine avrebbero ridotto la determinazione israeliana.

Il fallimento dei colloqui di Camp David nel 2000 e lo scoppio della seconda intifada segnarono la trasformazione di Hamas in qualcosa di più che un semplice elemento di disturbo. Il gruppo s’impose come una vera sfida all’Olp e alle istituzioni dell’Anp, che si era formata da poco. Più Israele proseguiva nella costruzione delle colonie e consolidava l’apparato di occupazione militare, realizzando posti di blocco e muri, più sembrava che Al Fatah e l’Anp avessero capitolato e più la posizione intransigente di Hamas guadagnava consensi. Nei primi anni duemila il gruppo intensificò gli attentati suicidi, diversificando anche il suo arsenale. Nel 2001 lanciò i primi razzi dalla Striscia di Gaza.

Per i leader di Hamas, la validità della strategia della violenza sembrò essere confermata nell’agosto 2005, quando Israele cominciò a ritirare il suo esercito e più di ottomila coloni dalla Striscia di Gaza. Al contrario, per Ariel Sharon, allora primo ministro di Israele, il ritiro era una mossa tattica, pensata per sabotare futuri negoziati di pace. “Oggi lasciate Gaza umiliati”, dichiarò in un videomessaggio Mohammed Deif, successore di Ayyash e comandante delle Brigate al Qassam. “Hamas non rinuncerà alle armi e continuerà la lotta contro Israele finché non sarà cancellato dalla mappa”.

Una conseguenza forse inaspettata del ritiro israeliano da Gaza fu che, anche se agli occhi di molti affiliati di Hamas sembrava riflettere il successo della lotta armata, proprio in quel momento il gruppo cominciò a spostare la sua attenzione verso la politica più convenzionale. In precedenza Hamas aveva per lo più boicottato il processo elettorale, sostenendo che la partecipazione sarebbe stata un riconoscimento degli accordi di Oslo. Ma stavolta, incoraggiato dal ritiro israeliano, Hamas si presentò alle elezioni legislative del 2006, candidandosi con un programma incentrato sulla lotta alla corruzione e sull’ordine pubblico. Con grande sorpresa di molti nell’Anp, in Israele e nell’amministrazione Bush, Hamas vinse con una schiacciante maggioranza. Il gruppo che aveva sempre rifiutato le istituzioni create in seguito agli accordi di Oslo ora aveva un mandato popolare per guidarle.

La vita quotidiana

Partecipando alle elezioni, Hamas sembrava voler prediligere l’impegno politico rispetto alla violenza. “Ci sono alcuni princìpi fondamentali a cui non rinunciano, ma in ultima analisi non sono rigidi”, aveva affermato Tahani Mustafa, analista esperto di Palestina all’International crisis group. “Questo non vuol dire che smetteranno di battersi per liberare la Palestina. Si tratta solo di riconoscere cosa vogliono e cosa la realtà permetterà di fare, e poi cercare di immaginare una via di mezzo”. Nel 2005 in vista delle elezioni Hamas, all’epoca guidato da Khaled Meshaal, aveva firmato la dichiarazione del Cairo, con cui riconosceva l’Olp come “unico rappresentante legittimo del popolo palestinese” e chiedeva la creazione di uno stato palestinese.

“Tra il 2005 e il 2007 Hamas aveva di fatto aderito a un programma politico che, se usato correttamente, avrebbe potuto portare alla creazione di uno stato palestinese accanto a Israele e allo smantellamento dell’occupazione”, ha scritto Baconi in un saggio pubblicato lo scorso novembre su Foreign Policy. Ma non sapremo mai se Hamas avrebbe guidato l’Anp usando il suo mandato popolare per realizzare uno stato palestinese accanto a Israele o se invece l’avrebbe sfruttata per intensificare il conflitto, come temevano i leader israeliani. “La scommessa di Hamas” – la sua partecipazione all’Anp e il sostegno a uno stato palestinese nei confini del 1967 – “ha funzionato”, scrive Baconi in Hamas contained, “nel senso che non ha mai scoperto le sue carte”.

In risposta alla vittoria elettorale di Hamas del 2006, gli esponenti di Al Fatah si rifiutarono di entrare nel governo guidato dal gruppo. Israele rafforzò la chiusura della Striscia di Gaza. Gli Stati Uniti e l’Unione europea tagliarono gli aiuti. Nell’autunno del 2006 uomini armati di Al Fatah e Hamas arrivarono al punto di compiere omicidi e sequestri, torturando gli affiliati dell’organizzazione avversaria, nonostante fossero ancora in corso i colloqui per l’unità. Il 14 giugno 2007, dopo cinque giorni di pesanti scontri a fuoco a Gaza, Hamas espulse l’Anp dal territorio, ritrovandosi in un ruolo completamente nuovo: da quel momento era responsabile della vita quotidiana a Gaza.

“Sembrava esserci una sorta di intesa tra Israele e Hamas”, sostiene Zaha Hassan

Ahmad Yassin una volta raccontò che, durante la prima intifada, aveva rifiutato l’offerta israeliana di prendere il controllo della Striscia di Gaza: “Sarebbe stato folle da parte nostra accettare di essere burattini di Israele”. Ma ora Hamas era alle prese con l’onere di amministrare un territorio sottoposto a un assedio aereo, terrestre e marittimo, e soggetto a bombardamenti aerei e di artiglieria quasi sistematici da parte di Israele.

Gradualmente, nel corso dei successivi quindici anni, Hamas ha consolidato il suo dominio. Ad alcuni sembrava che si fosse trasformato da un gruppo militante di opposizione armata in forza di governo pseudostatale. Un quarto degli esponenti del primo esecutivo vantava lauree negli Stati Uniti. “Non sono mai stati democratici o lievemente autoritari, come sostengono alcune analisi”, mi ha detto Khalil Sayegh, attivista per la pace nato a Gaza. “Erano pesantemente autoritari, ma sono stati abbastanza intelligenti da ingannare l’occidente per come hanno gestito la situazione”. Dopo aver espulso Al Fatah, Hamas si è mosso per limitare il potere dei clan di Gaza, che rappresentavano una base alternativa di potere. Per reprimere il dissenso e imporre l’obbedienza si è servito di una serie di tattiche che andavano dalla pubblica umiliazione al ricatto, fino alla tortura.

Equilibrio precario

Hamas non ha mai applicato la sharia, la legge islamica, nonostante la pressione di alcuni estremisti del movimento, ma ha tentato in maniera piuttosto disordinata di regolamentare la moralità pubblica. “Misure di islamizzazione sono proposte e poi ritirate quando i cittadini si oppongono”, evidenziava un rapporto del Crisis group del 2011. Allo stesso tempo, Hamas è stato bersaglio delle critiche dei gruppi salafiti più radicali per non aver imposto una ferrea legge islamica sul territorio. Nel 2009, quando alcuni salafiti allineati ad Al Qaeda dichiararono uno stato islamico nel sud della Striscia, le forze di Hamas li sbaragliarono con un attacco a una moschea di Rafah.

Hamas ha sviluppato il suo elaborato sistema di tunnel per superare le dure condizioni del blocco e per proteggere i combattenti dagli attacchi aerei israeliani. In particolare, i tunnel che collegano Gaza all’Egitto sono diventati un’ancora di salvezza economica per il territorio assediato e un corridoio fondamentale per il traffico di armi. Secondo una stima, alla metà degli anni dieci i tunnel fornivano al governo di Hamas circa 750 milioni di dollari all’anno. Tuttavia, queste entrate non erano lontanamente sufficienti ad arginare quello che la politologa statunitense Sara Roy ha definito il “de-sviluppo di Gaza”. Anche se nei primi anni di governo di Hamas c’è stata una crescita economica, tra il 2007 e il 2022 il pil reale pro capite è diminuito del 2,5 per cento all’anno, mentre la popolazione è aumentata rapidamente. Per buona parte degli ultimi quindici anni i funzionari dell’Onu hanno avvertito che Gaza era sull’orlo di una crisi umanitaria.

Miliziani della Jihad islamica durante un addestramento a Gaza, 29 agosto 2008 (Mohammed Abed, Afp/Getty)

Nello stesso periodo Hamas e Israele hanno sviluppato una modalità di relazione che Baconi definisce “equilibrio di belligeranza”. Il lancio di razzi di Hamas da Gaza è diventato uno strumento di negoziazione con Israele. In cambio dell’interruzione dei lanci, Hamas chiedeva di allentare le restrizioni del blocco, oppure un maggior numero di permessi per l’ingresso dei lavoratori palestinesi in Israele. Da parte sua, Israele rispondeva ai razzi di Hamas con bombardamenti aerei e di artiglieria – “falciare il prato”, come lo descrivevano gli strateghi militari israeliani con un orribile eufemismo – sospendendoli quando riteneva di aver sufficientemente “dissuaso” Hamas dal combattere, fino al successivo inevitabile scontro.

Per Israele, quello di Hamas a Gaza era diventato un governo utile, responsabile del sostentamento della popolazione assediata e di contenere le attività di altri gruppi armati, proprio come faceva l’Anp in Cisgiordania. Allo stesso tempo, Hamas ha continuato a sostenere di rappresentare la resistenza indomita a Israele. “Sembrava esserci una sorta di intesa tra Israele e Hamas”, sostiene Zaha Hassan, avvocata per i diritti umani e consulente legale del gruppo di negoziatori palestinesi quando la Palestina si è candidata all’Onu. Nei mesi precedenti al 7 ottobre, ha aggiunto, c’erano più interazioni e coinvolgimento tra Israele e Hamas di quanti ce ne fossero tra Israele e l’Anp”. Per Netanyahu questo assetto presentava un ulteriore vantaggio. Costringendo sotto due amministrazioni separate la Cis­giordania governata dall’Anp e Gaza controllata da Hamas, Israele ha mantenuto il movimento nazionale palestinese diviso, quindi più facile da gestire. Nell’arco di un decennio i governi di Netanyahu hanno contribuito a tenere in piedi l’amministrazione di Hamas a Gaza, agevolando il trasferimento di miliardi di dollari dal Qatar al gruppo islamista. “Netanyahu ha sempre avuto una forte ma tacita collaborazione con Hamas, che considerava una risorsa inestimabile per impedire la creazione di uno stato palestinese”, mi ha spiegato via email Hussein Ibish, professore dell’Arab Gulf states institute. “La sua strategia incredibilmente cinica del divide et impera, che non sembra aver ancora del tutto abbandonato, ha portato quasi inevitabilmente al 7 ottobre”.

Ma Netanyahu non è stato semplicemente cinico. Come gran parte dell’apparato della difesa israeliano, sembra che anche lui si fosse davvero convinto che il fardello dell’amministrazione avesse provocato un cambiamento nelle considerazioni strategiche dell’organizzazione; che Hamas, insomma, fosse stato domato. Oggi è più evidente che mai quanto la politica di Israele nei confronti di Hamas si sia fondata su una contraddizione. Da un lato, Israele ha giustificato il blocco e i periodici bombardamenti su Gaza sostenendo che Hamas fosse un gruppo terroristico assetato di sangue che voleva la distruzione dello stato ebraico. Dall’altro, nei suoi rapporti concreti con Hamas, si è comportato come se il movimento avesse abbandonato non solo il suo proposito di distruggere Israele, ma anche qualsiasi prospettiva alternativa all’occupazione, accontentandosi di gestire Gaza in eterno.

Dall’interno di Hamas e tra i suoi sostenitori, tuttavia, la percezione era molto diversa. “È una guerra continua: 2008-2009, 2012, 2014, 2021”, mi ha detto Azzam Tamimi al telefono da Istanbul. “Hamas non è stato domato. Non ha fatto che combattere, con qualche pausa tra un conflitto e l’altro”. Questa analisi non è distante da quella di gran parte dell’apparato di sicurezza israeliano. “Hamas non ha mai smesso di prepararsi a compiere operazioni per rispondere alle provocazioni israeliane”, ha aggiunto Tamimi. “I preparativi per il 7 ottobre non sono una cosa che si fa da un giorno all’altro”.

La popolarità di Netanyahu è crollata, ma il suo successore non sarà una colomba

Negli ambienti militari israeliani tutti i fallimenti del 7 ottobre sono considerati una dimostrazione del fatto che i governi di Netanyahu hanno totalmente frainteso Hamas. Ha cominciato a emergere un nuovo senso comune. “Pensavamo che se avessimo corrotto Hamas fornendogli denaro o permettendogli di sviluppare l’economia, avrebbe governato in modo più responsabile e affidabile”, mi ha detto alla fine di dicembre Kobi Michael, ricercatore dell’Institute for national security studies, un gruppo di esperti vicino all’esercito israeliano. “Era un’illusione”. Secondo Michael, i leader israeliani non sono stati in grado di riconoscere che Hamas è essenzialmente un’organizzazione “messianica” che non può essere gestita. “Il loro è un modo di pensare molto religioso, quindi irrazionale”, ha aggiunto. “Era comodo pensare che fossero come noi”.

Il dilemma dell’inclusione

Mentre la guerra prosegue, gli analisti politici israeliani sono sempre più convinti che la retorica bellicosa e massimalista dei leader di Hamas vada presa alla lettera: quando giurano di combattere fino alla distruzione di Israele, dicono sul serio. “Leggo i loro scritti in lingua originale e ci credo”, ha detto Michael Milshtein, ex ufficiale d’intelligence israeliano, parlando delle pubblicazioni e dei comunicati in arabo di Hamas. Dal suo punto di vista, una delle principali ragioni del colossale fallimento militare di Israele il 7 ottobre è stata che le agenzie d’intelligence, e ancora più tragicamente i leader politici, hanno dimenticato la natura del nemico e non si sono accorti delle molte minacce pubbliche con cui i capi di Hamas annunciavano un’imminente operazione armata su vasta scala contro Israele.

Agli occhi della maggioranza degli israeliani qualunque parvenza di pace sarà possibile solo quando Hamas non esisterà più. Eppure, quando ci ho parlato di nuovo a marzo, Gershon Baskin mi ha detto che lui e Ghazi Hamad si erano rimessi in contatto. “La prima comunicazione risale a due mesi fa, ed è stato uno spiacevole botta e risposta”, ha raccontato. “La questione centrale è capire se noi due potremo avere un ruolo costruttivo nell’aprire una trattativa ufficiosa segreta. Questo non è ancora chiaro”.

Oggi, come trent’anni fa, Hamas trae gran parte della popolarità dalla disperazione dei palestinesi. “Quando aumenta l’oppressione”, dichiarò Ahmad Yassin al Guardian nel 1998, “le persone cominciano a cercare Dio”. Un sondaggio condotto a dicembre dal palestinese Khalil Shikaki ha rilevato che il 72 per cento dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania ritiene che Hamas abbia fatto bene a compiere gli attacchi del 7 ottobre, nonostante la devastazione scatenata da Israele. Se, come molti pensano, Hamas resterà una forza quando finiranno i combattimenti, in che forma lo sarà, e con quali conseguenze?

Chi è favorevole a integrare Hamas nelle strutture della politica palestinese sostiene che un tempo i leader del gruppo sono stati seriamente intenzionati a realizzare la soluzione provvisoria di uno stato palestinese solo su una parte della Palestina storica e che, alle giuste condizioni, potrebbero essere disposti ad accettarla di nuovo.

“Era reale”, ha detto Hugh Lovatt a proposito dell’apertura di Hamas alla soluzione dei due stati, espressa nello statuto aggiornato dell’organizzazione nel 2017. “Esiste un’ala politica relativamente moderata all’interno di Hamas. La questione è: cosa ne sarà? Uscirà dal movimento? Sarà sopraffatta dall’ala più intransigente? O troverà un modo per riportare il gruppo nel solco della politica?”. Per chi considera necessario un ruolo futuro di Hamas – possibile solo se il gruppo sarà disposto a entrare nelle istituzioni che finora ha criticato – escludere i suoi militanti dalla politica sarebbe antidemocratico e una garanzia di futuri spargimenti di sangue. “La loro inclusione è un prerequisito per creare una leadership palestinese rappresentativa del suo popolo”, mi ha detto Baconi, “indipendentemente da quello che pensiamo delle loro tattiche o della loro ideologia”.

Al tempo stesso, quando gli ho chiesto della prospettiva di un ritorno alla soluzione dei due stati dopo la guerra, Baconi non era ottimista: “Se ci fosse un processo politico che portasse al raggiungimento di uno stato palestinese nei confini del 1967 – cosa che secondo me non esisterà mai, non nella forma di uno stato con una vera sovranità – io credo che Hamas, politicamente e strategicamente, collaborerebbe e sarebbe spinto a riconoscere la potenzialità di un processo diplomatico simile”. Ma di fronte alla devastazione totale di Gaza, parlare di una ripresa del processo per la creazione dei due stati è per lo più una distrazione senza senso, ha aggiunto Baconi. “Non mi sembra che possa emergere un processo politico concreto da questo vecchio discorso che ci riporta agli anni novanta e primi due­mila”.

Molto probabilmente, la disponibilità della leadership di Hamas a riprendere la via politica non sarà mai messa alla prova. “L’idea di integrare Hamas nell’Olp secondo me è brillante, ma ora è politicamente impossibile”, ha detto Nathan Brown, ricercatore del Carnegie endowment for international peace. “Dovrebbe estinguersi tutta l’attuale generazione di leader statunitensi perché diventi praticabile politicamente”, ha aggiunto rispetto alla possibilità che Washing­ton guidi un processo per far entrare Hamas nell’Olp. “Ed è impensabile in Israele”.

Dopo gli attacchi del 7 ottobre l’opinione pubblica israeliana è slittata ancora più a destra. La popolarità di Netanyahu è crollata, ma il suo successore non sarà una colomba. E anche se è vero che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta il premier israeliano Yitzhak Rabin accettò i negoziati con l’Olp e Yasser Arafat, considerato dalla maggioranza degli israeliani un irriducibile terrorista, la firma degli accordi di Oslo fu possibile solo dopo che l’Olp accettò di adeguarsi a una valanga di condizioni. Ma nessun leader di Hamas potrebbe mai rinunciare totalmente alla lotta armata o accettare formalmente di riconoscere Israele.

C’è una tendenza a considerare eventi come il 7 ottobre e la guerra in corso attraverso il prisma della rottura. Morte e distruzione su una scala così vasta sembrano segnalare un cambiamento di paradigma, l’emergere di una nuova fase. Ma una delle cose che rende così agghiacciante la continuazione della guerra di Israele è che, dopo aver ucciso più di 35mila palestinesi, e dopo che 1.200 israeliani sono stati uccisi da Hamas il 7 ottobre, il quadro politico generale in Israele e Palestina il giorno dopo la fine del conflitto potrebbe restare identico a com’era il 6 ottobre. ◆ fdl

Joshua Leifer è un giornalista della rivista statunitense Dissent. Ha vissuto a Gerusalemme e ha scritto anche per +972 Magazine e The New York Review of Books.

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Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati