Mi sono spesso chiesto perché in una città teatrale come Napoli non fosse prevista la rappresentazione perpetua della Gatta Cenerentola di Roberto De Simone, un po’ come Il fantasma dell’opera a Londra. Trovarla sempre, come una sorgente del vulcano di cultura popolare su cui poggia la città. Questa assenza forse deriva da un difficile rapporto con le istituzioni di una “città impraticabile che bisogna lasciar andare alla sua discarica”, come ci disse una volta il maestro. Far visita alla sua casa museo, accedere alle opere e alla persona era come rinnovare i fasti di una capitale europea della musica. Per respirare quell’aria basta leggere il suo monumento La canzone napolitana. Ma, oltre al grande musicologo, una cosa più grande se ne va con lui: il senso del mistero, la potenza della credenza, l’immenso giacimento della cultura orale, le donne che ballavano attorno al fuoco con i tamburi lamentando la morte di Carnevale che si chiamava Vincenzo. Quel mondo che secondo lui il Concilio vaticano II aveva messo a morte decretando la fine della religiosità popolare. Il kyrie eleison sostituito dal “Signore pietà”. La pietà di De Simone è stata quella di dare voce all’imponderabile che sta dietro le nostre vite, travolte dalla monodimensione dei dazi e Curiazi di questi giorni. Che la sua salvezza e la nostra sia in quello che perseguiamo di salvare.

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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati