L’hanno riconosciuta dai capelli: i ricci che aveva dimenticato di coprire e che all’epoca aveva tinto per metà di bianco. Così le autorità hanno capito che nei video del 18 agosto 2023 era lei che bruciava la bandiera rossa e nera del Fronte sandinista di liberazione nazionale, il partito al potere, nella rotonda Centroamérica. Era una protesta contro la chiusura dell’Università centroamericana (Uca), dove si era laureata.

Dal 28 settembre 2018 il regime del presidente Daniel Ortega e della moglie e vicepresidente Rosario Murillo ha messo fuori legge le proteste e ha trasformato il paese in uno stato di polizia. Bruciare la bandiera in uno dei punti nevralgici della capitale, come ha fatto Adela insieme ad altre quattro amiche, è un gesto severamente punito dalla coppia al potere in Nicaragua. Gli agenti si sono attivati subito. Il giorno dopo, un uomo in abiti civili si è presentato da lei nel quartiere del Recreo, a Managua. Voleva avere notizie di una certa Adela Cardoza che aveva lasciato il curriculum per un lavoro a Invercasa, uno dei più grandi centri finanziari del paese. La ragazza gli ha detto di chiamarsi effettivamente Adela ma di avere un altro cognome. E ha aggiunto che non aveva fatto domanda per nessun lavoro.

L’uomo l’ha ringraziata e se n’è andato. Quando Adela ha chiuso la porta, ha detto alle due amiche con cui aveva bruciato la bandiera: “Mi stanno cercando”.

Pochi minuti dopo ha sentito il suono delle ricetrasmittenti dei poliziotti che si avvicinavano. Hanno sfondato la porta di casa: erano della direzione delle operazioni speciali di polizia e avevano armi di grosso calibro. Adela è uscita dal bagno e ha detto: “Eccomi, sono io”. L’hanno presa con la forza e le hanno messo le manette ai polsi. La strada in cui abitava è stretta e le automobili non ci passavano, quindi l’hanno costretta a camminare scalza per un isolato e mezzo, fino alle auto. A quel punto Adela si è resa conto che la casa era circondata: scappare sarebbe stato impossibile.

Primavera di proteste

El Recreo è un tipico quartiere povero di Managua, con strade in gran parte sterrate e case ancora in costruzione. Adela ha vissuto lì dai tre anni fino al suo arresto, nell’agosto del 2023. Figlia di un operaio e di una sarta, ha frequentato le scuole vicino a casa. La sua infanzia, come quella della maggior parte degli abitanti del Recreo, è stata segnata dalla povertà.

Adela voleva uscire da quest’ambiente e si è preparata a lungo per superare l’esame di ammissione all’Università centroamericana. A 17 anni il suo unico obiettivo era laurearsi in comunicazione sociale e diventare giornalista.

L’Uca le ha assegnato una borsa di studio, ma subito dopo sono arrivate le gravidanze. Oggi ha due figli di dieci e otto anni. Ha vissuto sei anni con il padre dei bambini, poi hanno deciso di separarsi. Sono stati anni difficili: Adela divideva il tempo tra i figli e gli studi. In quel periodo ha cominciato a impegnarsi attivamente nel movimento femminista. Poi all’improvviso, senza che nessuno potesse immaginarlo, nell’aprile 2018 in tutto il paese sono scoppiate le proteste contro il governo di Ortega.

In quei giorni Adela faceva di tutto: scendeva in piazza e organizzava cortei contro il governo e parlava ad altre donne della violenza di genere e di come prevenirla. Per alcuni mesi ha anche lavorato come giornalista, però è stata un’esperienza negativa, perché il giornale indipendente che l’aveva chiamata la trattava male e non l’ha mai pagata. Quando il regime ha vietato le proteste, Adela e un altro gruppo di amici hanno organizzato delle manifestazioni nell’università. La polizia circondava puntualmente l’ateneo, in più di un’occasione gli agenti hanno fermato gli studenti. In quel periodo Adela guadagnava facendo tatuaggi e piercing e realizzava un podcast.

Un giorno ha letto che l’Uca, la sua università, il luogo dove stava protestando e dove aveva vissuto tanto nell’ultimo periodo, era stata chiusa. Si è data appuntamento con un gruppo di amiche, alcune ex compagne di studi, indignate quanto lei. Ha guardato la grande bandiera del Fronte sandinista in un angolo della sua stanza. Poi la rabbia, l’impulso o la frenesia del momento – o tutte e tre le cose insieme – l’hanno spinta a prendere una decisione: “Voglio bruciare tutto”.

Via dal paese

Il piano delle cinque donne era semplice: bruciare una bandiera del Fronte sandinista nel centro di Managua “per colpire la dittatura”, dice Adela. L’impulsività e l’inesperienza hanno portato le amiche a pianificare tutto in meno di mezz’ora. Non avevano vie di fuga e neanche i soldi per pagare un taxi, figuriamoci “case sicure” dove nascondersi. Quasi tutte sono tornate ciascuna a casa sua il giorno stesso. In meno di 72 ore tre di loro sono state arrestate: Gabriela Morales, Mayela Campos e Adela Espinoza. Le altre due (non indichiamo i nomi per proteggerle) non sono state identificate dalle autorità e hanno lasciato il Nicaragua. Poco dopo l’arresto di Adela, gli agenti si sono presentati a casa di Gabriela Morales, una donna di 27 anni con un diploma di assistente sociale. Sono entrati forzando la porta. L’hanno gettata a terra, l’hanno fotografata fuori della casa e l’hanno fatta salire su un’auto per portarla direttamente al distretto III di Managua. Adela era già lì. È stata costretta a spogliarsi davanti alle agenti e a indossare l’uniforme blu che portano i detenuti in Nicaragua.

In un’altra stanza cominciava l’interrogatorio di Gabriela. Due giorni dopo, il 21 agosto 2023, la polizia si è presentata a casa del padre di Mayela, una studente di 29 anni al quarto anno di ingegneria industriale. Lì non l’hanno trovata e sono andati a cercarla a casa sua. “Mi hanno colpito al petto”, ha raccontato la donna al sito Artículo 66.

Le tre amiche hanno cominciato così la loro detenzione nelle carceri del regime nicaraguense.

Narcotraffico

Durante un interrogatorio, un poliziotto ha tenuto Adela in piedi per dieci ore ammanettata con le braccia dietro la schiena. Non la lasciavano mangiare né bere. Se non rispondeva a una domanda, un altro agente le puntava alla fronte un fucile d’assalto Ak-47 e le diceva: “Non è quello che ti ho chiesto”.

“È stato orribile”, racconta. Un giorno una poliziotta le ha mostrato il suo fascicolo. La cartellina conteneva molte foto che la ritraevano nei cortei, all’Uca, nel duomo di Managua, negli alberghi dove aveva incontrato altri oppositori e a casa con la famiglia.

Gli agenti volevano sapere chi l’aveva pagata per bruciare la bandiera. Nel frattempo, in altre stanze, dicevano a Gabriela e a Mayela che Adela aveva confessato, che aveva preso dei soldi per bruciare la bandiera e le aveva chiamate “viscide”. La polizia sapeva che Adela soffriva di ansia e depressione. “Volevano umiliarmi e ripetevano alle mie amiche: ‘Perché date retta a quella pazza?’”.

Nella prima udienza del processo le tre donne sono state accusate dei reati che di solito si addebitano ai prigionieri politici: terrorismo, attacco alla sicurezza nazionale, crimini informatici, disturbo dell’ordine pubblico e danni al patrimonio nazionale. Nella seconda udienza sono state prosciolte da questi capi di accusa e imputate per traffico di droga.

“Non volevano riconoscerci come prigioniere politiche”, spiega Adela.

“I testimoni al processo erano i poliziotti stessi, e le prove erano alcuni zaini che non avevo mai visto in vita mia”, continua. “È stata una farsa, una vergogna totale”.

Le testimonianze di una decina di prigionieri politici, raccolte da Divergentes, indicano che molti sono stati arrestati anche senza aver mai fatto attività politica, solo sulla base di prove fabbricate. Alcuni sono stati tenuti in carcere senza una condanna formale: erano nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Segretarie, avvocati, operatori di organizzazioni religiose (evangeliche e cattoliche) sono stati arrestati e detenuti in condizioni degradanti, senza il diritto di ricevere visite. Altri sono stati fermati per aver assistito all’arresto di un familiare.

Per la terza udienza Adela e le sue amiche sono state portate in una stanza della prigione dove hanno assistito al processo in videochiamata, in modo da non farle uscire dal carcere. Hanno ascoltato lì la condanna a otto anni per traffico di droga.

La cella di Adela non aveva finestre. C’era solo una porta, da cui riusciva a vedere le agenti su una torretta di sorveglianza. La controllavano a turno 24 ore su 24, per non farla parlare con le altre detenute. In queste condizioni è trascorso il suo primo mese di carcere.

“Avevo le allucinazioni e parlavo da sola. Mi hanno portato da una psicologa che mi ha detto che non potevo rimanere in quelle condizioni, altrimenti mi sarei uccisa”, racconta Adela. Solo a quel punto le agenti l’hanno trasferita.

Paramilitari sostenitori del governo sandinista a Masaya, luglio 2018 (Carlos Herrera)

Le guardie carcerarie la prendevano in giro, le negavano i medicinali anche se aveva mal di testa, mal di stomaco, nausea e sveniva spesso. Per punirla la facevano uscire dalla cella con le mani e i piedi legati.

All’alba del 5 settembre 2024 un aereo è decollato da Managua diretto a Città del Guatemala. A bordo c’erano 135 prigionieri politici del regime di Daniel Ortega e Rosario Murillo.

Il consigliere per la sicurezza nazionale statunitense Jake Sullivan ha detto che Washington aveva raggiunto un accordo con Managua per il rilascio di tredici persone dell’organizzazione cristiana Mountain gateway, una chiesa fondata in Nicaragua da alcuni missionari texani nel 2012. Con una decisione unilaterale, il Nicaragua ha aggiunto altri 122 prigionieri politici alla lista.

Adela, Gabriela e Mayela erano su quel volo.

Nel febbraio 2023 il governo di Managua aveva esiliato 222 prigionieri politici mandandoli direttamente a Washington, negli Stati Uniti.

A settembre di quest’anno un paese terzo, il Guatemala, ha accolto un altro gruppo di esuli. Gli Stati Uniti l’hanno ringraziato per la generosità e il ruolo di primo piano avuto nell’accordo. Il presidente guatemalteco Bernardo Arévalo ha detto che “con questo gesto restituiamo la solidarietà internazionale che abbiamo ricevuto tante volte, accogliendo 135 fratelli e sorelle nicaraguensi, prigionieri politici liberati”.

Non si sa come sia andato davvero il negoziato tra Stati Uniti, Nicaragua e Guatemala, cosa abbiano guadagnato i tre paesi e su quali punti abbiano ceduto.

A settembre il Guatemala ha accolto un altro gruppo di esuli nicaraguensi

Racconti dettagliati

È il 6 settembre 2024 a Città del Guatemala. Un giorno dopo il volo dell’esilio. È una mattina di pioggia, quando si appannano i finestrini delle auto e le persone sono costrette a mettere le mani in tasca per il freddo. La radio parla di alcuni incidenti stradali e di alberi crollati a causa del maltempo.

Nella zona degli hotel si vedono uomini e donne in tuta grigia: sono i nicaraguensi rilasciati dal carcere nelle prime ore del loro esilio. Le tute che indossano gli sono state fornite dalle organizzazioni umanitarie, perché sono arrivati con gli stessi vestiti logori che avevano in prigione in Nicaragua.

In Guatemala ho parlato con Adela e con un’altra decina di persone da poco esiliate come lei. Volevo conoscere la loro esperienza in carcere, come avevano resistito e, naturalmente, come vivevano quelle prime ore lontano dal loro paese. Prevaleva il sollievo per aver lasciato la prigione, dove molti erano stati torturati, ma sentivano forte l’incertezza per il futuro. Il ministero degli esteri guatemalteco li ha informati che avrebbero avuto 90 giorni per mettere in regola il loro status migratorio nel paese, decidere se scegliere il programma Movilidad segura offerto dal governo statunitense o un’altra destinazione finale, per ricominciare da capo in città che molti di loro non conoscevano.

Per affrontare l’esilio, avevano solo le tute e il telefono cellulare che gli avevano regalato appena arrivati. Come se non bastasse, il 10 settembre la corte suprema di giustizia del Nicaragua ha tolto ai 135 esuli la cittadinanza e i loro averi.

Alcuni vogliono parlare e denunciare quello che hanno vissuto, mentre altri rifiutano di rilasciare interviste per paura di possibili rappresaglie contro i parenti rimasti nel paese. Rimangono a testa bassa, sono sfuggenti.

Di Adela mi colpisce che ha sempre qualcosa da raccontare e lo fa in modo dettagliato. Per esempio dice che un giorno la polizia l’ha portata fuori del distretto III di Managua e l’ha condotta a Ticuantepe, un paesino a sud della città. Volevano che gli mostrasse dove vivevano le due amiche che avevano partecipato all’incendio della bandiera ma non erano state arrestate.

“Abbiamo girato per sei ore, ma non gli ho detto dove vivevano, gli ho fatto solo perdere tempo”, racconta Adela. “Per questo sono riuscite a lasciare il paese”, aggiunge.

Non c’è da stupirsi che i poliziotti si siano arrabbiati perché Adela non “collaborava”. Per intimidirla hanno cominciato a trasferirla da un’auto di pattuglia all’altra. A un certo punto si sono fermati su un campo. Aveva mani e piedi legati. Gli agenti le hanno detto di camminare, poi hanno tirato fuori le pistole. È rimasta così alcuni minuti: sola, in mezzo a un campo brullo.

“Pensavo che mi avrebbero ucciso”, racconta. Ma l’hanno fatta risalire in auto e l’hanno portata alla stazione di polizia.

Non ricorda tutto con precisione. È probabile che a causa della prigionia abbia rimosso alcuni episodi. Sa però di aver perso più di un anno dell’infanzia dei suoi figli: durante le poche visite che le sono state concesse, vedeva i bambini crescere velocemente. In quei mesi il bianco dei suoi ricci si è sbiadito, non portava orecchini e non poteva truccarsi.

Un pomeriggio, a Città del Guatemala, l’ho incontrata in un mercatino gratuito allestito da alcuni attivisti per dare alle donne esiliate la possibilità di scegliere, tra le altre cose, vestiti, trucchi, tinture per capelli, scarpe, biscotti, bigiotteria. Adela non indossa più la tuta grigia, ma pantaloni neri larghi e una camicia bianca, con degli stivali marroni.

“In carcere volevano disumanizzarci, toglierci la femminilità”, dice Adela mentre sceglie spillette, collane, braccialetti e rossetti.

Il carcere ha stravolto la sua vita. In esilio, sta cercando di rimettere insieme i pezzi. Rivedrà i suoi figli in Guatemala, li abbraccerà e piangerà di felicità. Poi si tingerà i capelli, si metterà gli orecchini e una camicetta senza spalline che lascerà vedere i tatuaggi. Andrà avanti, costruendo a poco a poco il suo futuro. ◆ fr

Julián Navarrete è un giornalista nicaraguense nato nel 1991. Scrive per il sito indipendente Divergentes. Gran parte della redazione è in esilio in Costa Rica e lavora da lì.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 56. Compra questo numero | Abbonati