Alla fine di agosto, durante un evento preparatorio per la conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità e il cambiamento climatico (Cop15) che si terrà a metà ottobre in Cina, è stata scattata una foto in una maloca, una casa tradizionale dell’Amazzonia con le travi in legno e i tetti di foglie intrecciate. L’abitazione si trova nella comunità indigena Yussy Monilla Amena, a Leticia, al confine della Colombia con il Brasile e il Perù.
Nell’immagine (a destra) si vede un lungo tavolo con una tovaglia bianca e i disegni di un giaguaro e di un pappagallo rosso. Dietro al tavolo sono seduti il presidente colombiano Iván Duque, il ministro dell’ambiente Carlos Correa e la capogabinetto María Paula Correa. Accanto al presidente c’è una piccola bandiera della Colombia. Su dei panchetti di legno sistemati davanti al tavolo sono accovacciati alcuni uomini a torso nudo. Di fronte a loro c’è un grande vassoio pieno di frutta e piante lussureggianti. La foto, pubblicata dal ministero dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile della Colombia, è stata criticata sui social network. In tanti hanno accusato il governo di fare un “uso decorativo” dei popoli nativi. “Non c’era posto al tavolo per tutti?”, ha chiesto su Twitter la giornalista colombiana Diana Calderón. L’associazione delle comunità indigene del trapezio amazzonico (Acitam) ha pubblicato un comunicato di condanna: “Ci opponiamo allo spettacolo promosso sui mezzi d’informazione dal presidente Duque. I popoli nativi non sono oggetti fabbricati per abbellire i governi che fanno politiche contrarie ai loro interessi”.
Alcuni giorni dopo la diffusione della foto incontriamo a Tarapacá, un villaggio nel dipartimento di Amazonas con meno di cinquemila abitanti, l’esperta di comunicazione Nelly Kuiru, dell’etnia murui, uno dei ventisei popoli nativi della regione. Kuiru dirige la scuola di comunicazione indigena dell’Amazzonia Ka+ Jana Uai, che significa la voce della nostra immagine. Vent’anni fa le venne l’idea di formare i giovani delle comunità native per insegnargli a produrre contenuti radiofonici e audiovisivi. Nel 2015 il suo lavoro, che ha ricevuto il sostegno delle autorità tradizionali indigene, cioè gli enti locali responsabili della promozione di progetti sulla sanità, l’istruzione e le politiche abitative, ha portato alla creazione di una scuola.
“L’obiettivo era evitare che si facesse un uso folcloristico dell’immagine dei popoli nativi, com’è successo durante la visita di Duque a Leticia. Per raccontare la nostra realtà e le nostre storie usando i linguaggi narrativi che ci appartengono dobbiamo imparare a usare gli strumenti giusti”, spiega.
Kuiru è nata a La Chorrera, una località che all’inizio del novecento fu il centro amministrativo della Peruvian Amazon company, l’industria di caucciù del peruviano Julio César Arana del Águila. Secondo il centro nazionale di memoria storica, l’azienda costrinse alla schiavitù gli indigeni e provocò la morte di trentamila persone.
Voce narrante
La scuola funziona in modo itinerante nel dipartimento di Amazonas, il più esteso del paese, dove alcune zone sono ancora difficili da raggiungere. È attiva anche in varie regioni del Brasile. Kuiru punta soprattutto su quella che chiama “comunicazione propria”, cioè imparare la cultura tradizionale tramandata dagli anziani delle comunità. Ai giovani studenti – i primi dieci si sono laureati nel 2019 – s’insegna a fare un’intervista, a usare una videocamera, a montare il materiale raccolto e a costruire una storia. Ad agosto, per esempio, è stato proiettato El origen de la coca, un cortometraggio animato di cinque minuti e mezzo che si può vedere sui canali social di Ka + Jana Uai. I colori predominanti sono il marrone della terra e il verde degli alberi. Gli studenti hanno imparato la tecnica di animazione seguendo alcuni tutorial su YouTube. La voce narrante è del saggio Leopoldo Silva, l’anziano del villaggio che trasmette le conoscenze tradizionali e custodisce l’identità della comunità. Il video si apre con un uomo che confida un dubbio alla moglie: “Voglio sapere come si manifesta quello che è nel mio pensiero”, dice. Da quel momento il tempo comincia a sfumare. Il racconto prosegue con la moglie custode di un’informazione che l’uomo ignora. Poi la donna resta incinta e partorisce un piccolo germoglio: “È quello che cercavi”, gli dice, “questa è la vera pianta di coca”.
Ka+ Jana Uai non è l’unico progetto per la formazione audiovisiva dei nativi in Colombia. Nel dipartimento di Cauca, nel sudovest del paese, l’università autonoma indigena interculturale propone un corso di comunicazione per insegnare agli studenti le tecniche radiofoniche, la fotografia, la scrittura e l’animazione partendo dalla visione del cosmo che hanno i loro popoli. Mabel Quinto, un’ex studente che oggi si occupa della comunicazione per l’associazione delle comunità indigene nel nord del Cauca, ha realizzato Memoria de las mujeres, lucha y resistencia en la consolidación del movimiento indígena (Memoria delle donne, lotta e resistenza nel rafforzamento del movimento indigeno). Nel documentario mette in pratica quello che ha imparato all’università: ascoltare, far parlare le persone intervistate, dare voce alla memoria.
Nel dipartimento di La Guajira, al confine con il Venezuela, c’è la Red de comunicaciones, la rete di comunicazione del popolo wayuu. Nella penisola si trova anche la scuola diretta da Miguel Iván Ramírez, un leader locale e videomaker che nel suo lavoro denuncia le gravi conseguenze ambientali e sociali dell’estrazione del carbone per le comunità locali.
Mentre parla, Ramírez va con i ricordi a vent’anni prima: “In Colombia e in Venezuela i giornalisti, i fotografi e i videomaker wayuu lavoravano ognuno per conto proprio. Intorno al 2001, quando nel distretto arrivarono i paramilitari, alcune organizzazioni come la Fuerza de mujeres wayuu (Forza delle donne wayuu), cominciarono a sfruttare i mezzi di comunicazione a loro disposizione per raccontare quello che succedeva. A quel punto ci siamo uniti alla rete. Abbiamo cominciato dodici anni fa. Abbiamo prodotto il documentario Caravana por Wounmaikat, un viaggio attraverso il territorio wayuu. Siamo stati la prima organizzazione a denunciare la malnutrizione che colpisce il dipartimento e le conseguenze sui bambini, che spesso muoiono perché sono denutriti”.
Anche nella scuola wayuu gli studenti imparano a produrre contenuti radiofonici, audiovisivi, fotografici e scritti a partire da valori tradizionali come la difesa del territorio, l’importanza della lingua materna e l’identità spirituale.
“Nel 2018”, prosegue Ramírez, “ci siamo presi un po’ di tempo per dedicarci ad altri progetti. Vogliamo promuovere la produzione cinematografica. Desideriamo che i giovani si concentrino sulla narrazione e per farlo bisogna pensare alla sceneggiatura, al montaggio, alle riprese, alla fotografia e al suono. La nostra prospettiva politica dev’essere trasmessa in un messaggio ben realizzato dal punto di vista formale ed estetico”.
Ad agosto si è svolta la seconda edizione del laboratorio di cinema Wayuulab 2021. I registi, tutti nativi, hanno ricevuto sostegno e consulenza per produrre una serie di sette episodi che durano meno di dieci minuti ciascuno. La serie s’intitola Frontera en la salud e parla degli ostacoli che gli indigeni e i migranti venezuelani devono affrontare per accedere ai servizi sanitari durante la pandemia di covid-19. Il sesto episodio è Mi escape, la mia fuga, diretto da Jesús Acosta Zabaleta. Dura pochi minuti, ma riesce a emozionare. Con uno stile sobrio e una videocamera che registra senza intervenire, mostra una ragazza transgender, Maxi, che nella prima scena si mette lo smalto sulle unghie. “Vivo alla Pista”, dice. La Pista è un insediamento di migranti venezuelani nella città di frontiera di Maicao, a La Guajira, dove mancano elettricità e acqua potabile. “Aiuto i bambini durante le giornate di vaccinazione. Se sono utile agli altri non penso a quello che faccio nei fine settimana. È un modo per dimenticare. I miei zii dicevano che, secondo la legge dei wayuu, non ci dovrebbero essere persone come me”, dice.
Ritorno alle radici
Nel novembre 2008 dalla località indigena La María, nel dipartimento di Cauca, è partita un’enorme marcia di persone native dirette a Cali e nella capitale Bogotá. Il movimento è noto come Minga de resistencia indígena y popular. I nativi chiedevano al governo del presidente Álvaro Uribe (destra) e in generale a tutto il paese di essere ascoltati. Volevano il rispetto dei loro diritti, l’impegno delle istituzioni per la difesa della loro terra e per cambiare l’immagine distorta e, in alcuni casi, stigmatizzante con cui i mezzi d’informazione tradizionali si riferivano alle comunità native.
La marcia è stata fondamentale per il consolidamento di un movimento audiovisivo delle popolazioni native, come ricorda la cineasta Rosaura Villanueva. È una delle fondatrici della mostra del cinema Daupará, una parola che per gli embera significa poter vedere oltre. La mostra offre un servizio di streaming e un archivio di più di duecento opere tra lungometraggi, cortometraggi e videoclip prodotti da quarantacinque popoli nativi.
Daupará si tiene ogni anno tra Bogotá e vari territori indigeni. Oltre a presentare i film e le opere prodotte negli ultimi mesi, si organizzano incontri e dibattiti. Secondo Villanueva, i popoli nativi si sono avvicinati ai mezzi di comunicazione come a uno strumento di denuncia. Ma oggi il ventaglio delle possibilità si è allargato fino a comprendere formati di fiction e animazione. Il cortometraggio El origen de la coca ne è un esempio.
“Molti popoli nativi parlano delle loro origini, della loro idea di cosmogonia e del rapporto che hanno con la spiritualità. La cosmogonia compare per esempio all’interno di una conversazione con un guaritore tradizionale, quando si chiede consiglio o si interpreta un sogno”, spiega Villanueva.
Un’altra caratteristica delle produzioni locali è il dialogo tra generazioni, con la partecipazione di giovani e anziani. “In alcune attività si parla a turno, seduti attorno al fuoco, si masticano foglie di coca mentre si prendono decisioni collettive. E gli anziani sono coinvolti e trattati come protagonisti. Molti hanno imparato a gestire gli strumenti e a partecipare sulla base delle loro conoscenze, perché quasi tutto quello che si fa nelle comunità è il frutto di una decisione collettiva. Si consultano gli spiriti anche per sapere dove ambientare una storia”. Le opere audiovisive indigene servono anche a dare ossigeno alle diverse lingue e combattere la loro scomparsa.
I fotografi e i registi wayuu lavoravano ognuno per proprio conto
Villanueva ha prodotto anche El buen vivir, la prima serie tv indigena della Colombia, arrivata ormai alla terza stagione. Nel 2019 la serie ha vinto il premio India Catalina, il più importante dell’industria audiovisiva colombiana, nella categoria “miglior produzione per l’inclusione sociale”. In trenta storie, realizzate da altrettanti popoli nativi, si parla del ruolo degli spiriti nella cura, dell’attenzione per la terra, dello stile di governo locale e dell’importanza dell’acqua. “Penso che in Colombia ci siano storie che non abbiamo ancora ascoltato e appartengono alle popolazioni indigene”, dice Villanueva.
Mu Drua è un documentario del 2012 diretto da Mileidy Orozco Domicó, una giovane del popolo embera eyabida, nel dipartimento di Antioquia. Da bambina Orozco Domicó ha dovuto lasciare il suo territorio a causa della violenza interna. Si è trasferita a Medellín, la capitale del dipartimento, insieme alla madre, tessitrice e leader sociale. Mu Drua, realizzato durante il corso di comunicazione audiovisiva e multimediale all’università di Antioquia, è un ritorno materiale e simbolico alle radici, e una ricerca della propria identità.
“Da adolescente ho cominciato a farmi delle domande sull’origine e la storia del mio popolo. Sono arrivata all’università con un’idea chiara in testa: volevo sfruttare quello che mi stavano insegnando per lavorare nelle comunità”, dice Orozco Domicó. Oggi si trova nel dipartimento di Putumayo, dove si occupa di formazione audiovisiva per il popolo kamsá.
“Ero lontana dalla mia comunità, solo da ragazza ho sentito il desiderio di conoscerla. Quando sono tornata la mia famiglia ha cominciato a parlarmi nelle lingue native. È stato bello. All’inizio ascoltavo, aspettavo che tornasse la memoria della mia lingua materna. Nel Putumayo il processo di apprendimento è diverso: ascolto una parola e chiedo cosa significa. Nella mia comunità la memoria generazionale mi aiutava a capire il significato delle parole che non conoscevo”, dice.
Orozco Domicó è giovane, ma si è già costruita una carriera nella produzione audiovisiva. Le chiediamo cosa porta nella sua opera di quello che ha imparato dalla comunità. “Probabilmente il ritmo”, risponde. “Non tutte le cose succedono velocemente. Ho fatto miei alcuni princìpi dei popoli nativi, come osservare nel dettaglio quello che succede, dare voce alla natura, sapere che gli esseri umani non sempre sono il centro, ma che tutto ruota intorno all’acqua, alle montagne, alle piante. Per la disposizione dei colori e dei materiali mi sono ispirata alla tessitura, perché quando si tesse si crea una simbologia. I processi creativi sono in continua trasformazione: anche se penso sempre qualcosa prima, quando giro cambia non solo la storia, ma anche la mia persona. Le immagini prendono una strada autonoma. Non è la strada che avevo immaginato, ma porta sempre da qualche parte”. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1430 di Internazionale, a pagina 51. Compra questo numero | Abbonati