Il messaggio segreto è apparso solo quando il muro si è inzuppato di pioggia. Per settimane avevo setacciato Hong Kong alla ricerca di questi maldestri caratteri cinesi, ma il modo in cui si erano materializzati dal nulla era stato uno shock. Era un anonimo muro di pietra grigio-giallastro in mezzo a Central, il cuore politico e finanziario di Hong Kong. Le parole erano emerse solo quando il muro si era bagnato; in questo caso, nel luglio 2015, dopo un acquazzone che aveva scurito e inumidito la parete. Di colpo si potevano vedere i punti in cui la vernice color tortora si era staccata, rivelando tracce di calligrafia cinese. La scrittura, in caratteri sgraziati e sbilenchi, alti circa venti centimetri, era subito riconoscibile per la sua mancanza di finezza, eleganza o cultura.
Non ricordo la prima volta che ho visto quei caratteri. Quando crescevo a Hong Kong, negli anni settanta e ottanta, erano ovunque, un emblema della nostra città proprio come i traghetti Star Ferry color verde bottiglia o i tram sferraglianti. Anche il loro autore era un elemento fisso del paesaggio: sporco, sdentato, spesso a torso nudo, con problemi psichici. Si faceva chiamare il re di Kowloon. Saltellando sulle stampelle, con i sacchetti di plastica che pendevano dai manici, la sua sagoma da granchio con le gambe arcuate era così particolare che, se lo si vedeva arrivare, si attraversava la strada per evitarlo. Era diventato uno sfottò da parco giochi – “Sei il re di Kowloon!” – rivolto ai bambini poveri o emarginati.
Il suo vero nome era Tsang Tsou-choi e aveva attraversato il confine con Hong Kong dalla Cina continentale a sedici anni. Da allora Tsang si era convinto che la penisola di Kowloon, il punto più meridionale dell’attuale Cina continentale, appartenesse alla sua famiglia, alla quale era stata sottratta dagli inglesi nell’ottocento. In seguito estese le sue rivendicazioni a tutta Hong Kong.
Negli anni cinquanta cominciò la sua protesta a colpi di graffiti. Prendeva la forma di barcollanti torri di calligrafia cinese sghemba in cui riportava minuziosamente l’intera discendenza, tutte le ventuno generazioni, abbinando i nomi ai luoghi perduti e, di tanto in tanto, corredando il tutto con imprecazioni come “Fanculo la regina!”. Accurato nella scelta dell’area di lavoro, scriveva solo su superfici di proprietà del governo: muri, cavalcavia, cabine elettriche, cassette postali. I suoi messaggi erano lavati via o riverniciati quasi sempre subito da un esercito di addetti alle pulizie del governo con sottili asciugamani. Ma la mattina le sue parole tornavano.
Dopo il ritorno di Hong Kong sotto il controllo cinese nel 1997, i messaggi di Tsang proseguirono. Quello fu l’anno in cui si cominciò a elevare il re di Kowloon a figura di culto. Da allora è stato esposto da alcuni dei più importanti curatori del mondo e le case d’asta più furbe hanno venduto le sue sghembe calligrafie, su carta o tavole di legno e magliette; anche su un motorino, venduto per 1,8 milioni di dollari di Hong Kong (225mila euro). È diventato un’icona della moda, ispirando uno stilista di Hong Kong a creare una serie di collezioni. Nel 2003, il re di Kowloon è stato il primo hongkonghese a rappresentare la città alla biennale d’arte di Venezia. Per gli abitanti di Hong Kong, Tsang è diventato una sorta di eroe popolare. È riuscito a incarnare un’identità di Hong Kong diversa e il suo messaggio implacabile e sovversivo ha portato la politica in strada, offrendo un modello imitato decenni dopo dai movimenti di protesta che hanno agitato la città.
La mia ossessione per il re di Kowloon è partita in sordina. All’inizio volevo semplicemente scrivere un articolo su di lui. Poi in otto anni ho scritto una biografia, oltre che un dottorato di ricerca e un podcast di sei puntate. All’inizio volevo solo capire se avesse qualche legittima pretesa sulla terra: diceva di aver visto antichi documenti che attribuivano la proprietà della penisola alla sua famiglia. Ma la mia missione era complicata dal fatto che Tsang era morto nel 2007 e i suoi parenti si sono sempre rifiutati di parlare con i mezzi d’informazione.
Il re era un soggetto scivoloso. Più cercavo, meno mi sembrava di trovare. Tutti lo conoscevano, ma nessuno sembrava avere informazioni concrete su di lui. Sono partita rintracciando persone che avevano trascorso del tempo con lui. Mi sono addentrata nei complessi di case popolari e ho sorseggiato il tè con i galleristi, ho visitato gli studi dei musicisti in tetri edifici industriali e i laboratori degli artisti nei mattatoi vittoriani. Quando ho chiesto informazioni sulle sue condizioni mentali, alcuni mi hanno detto che il re – tutti quelli con cui ho parlato lo chiamavano sempre con il suo titolo autoproclamato – delirava. Soffriva di schizofrenia. Aveva un disturbo dissociativo della personalità. Altri dicevano che era del tutto sano di mente e giocava regolarmente a mahjong con i vicini.
Il giorno in cui ho visto i caratteri sul muro, nel 2015, ho provato emozioni che non sapevo esistessero: nostalgia e un senso quasi fisico di perdita. Le parole erano familiari, erano diventate parte integrante del nostro paesaggio urbano, e solo quando le ho viste allo stato brado ho capito quanto mi mancassero.
Ogni tanto, negli anni successivi, leggevo della comparsa di altri suoi graffiti. Nel 2019, nel periodo in cui due milioni di persone sono scese in strada per le più grandi manifestazioni mai viste a Hong Kong, la calligrafia sbilenca di Tsang è apparsa sul pilastro di un cavalcavia vicino al capolinea del tram, dove gli strati di vernice si erano staccati, rivelando i caratteri sottostanti.
Poi, pochi mesi fa, un grande lembo di scrittura si è materializzato sotto un ponte ferroviario a Kowloon. Questa volta l’apparizione della calligrafia era chiaramente intenzionale e non aveva nulla a che fare con il clima: lo strato superiore di vernice grigia era stato asportato per rivelare i caratteri nascosti. Era l’inconfondibile calligrafia del re di Kowloon. Solo lui aveva quella mano, e scriveva sempre le stesse cose: lunghi elenchi di nomi con la genealogia di famiglia e i luoghi che avevano perso. Il mistero era perché e come le parole fossero riapparse così all’improvviso, anni dopo la morte del loro autore.
La metamorfosi del re di Kowloon – da matto del villaggio a icona – cominciò negli intensi mesi che hanno preceduto il ritorno di Hong Kong alla sovranità cinese, mentre gli hongkonghesi cominciavano a esplorare la loro particolare identità. In questo contesto, il re di Kowloon – un personaggio sovversivo, individualista e ribelle – cominciò a essere visto come un’incarnazione dei tratti distintivi di Hong Kong.
In quel periodo, era spesso accompagnato da un noto curatore d’arte, Lau Kin-wai, un viveur con il gusto per lo spettacolo. Portava a Tsang Tsou-choi pennelli e inchiostro, e lo accompagnava nelle spedizioni calligrafiche per fotografare il suo lavoro. Lau, figura acclamata nel mondo dell’arte, consegnava il pranzo nel fetido appartamento di Tsang, arrivando perfino ad allacciargli i sandali ai piedi luridi.
Era un elemento fisso del paesaggio: sporco, sdentato, spesso a torso nudo. Si faceva chiamare il re di Kowloon e se lo si vedeva arrivare, si attraversava la strada per evitarlo
Nell’aprile 1997, Lau organizzò una personale di opere del re di Kowloon. Poiché era impossibile spostare il suo lavoro in una galleria, Lau chiese a Tsang di dipingere oggetti più piccoli e vendibili, come lanterne di carta, bottiglie di vetro e, profeticamente, un ombrello. Tsang, entusiasta dell’attenzione che il suo lavoro stava ricevendo, ricoprì questi pezzi con i suoi tipici caratteri. All’inaugurazione, apprezzò ovviamente le luci della ribalta, mostrandosi raggiante ai giornalisti. Quando gli rivolsero domande sulla sua arte e se si aspettava di riottenere i beni di famiglia, gridò: “Fanculo!”, e si proclamò proprietario di tutto ciò che gli capitava a tiro.
Il catalogo della mostra puntava a collocare l’opera del re nel canone della calligrafia classica. Ma molti non erano d’accordo. “È uno psicotico”, disse un professore di belle arti al Washington Post, “non vedo alcun valore artistico”. La mostra fece scalpore, l’esposizione più scandalosa a memoria d’uomo. Non fu venduta una singola opera d’arte, ma a Lau non importava. Decenni dopo ricorda l’evento come un trionfo. “Era una cosa che mi piaceva fare”, mi dice sorridendo. “Mi piace la polemica”.
La nuova fama di Tsang non cambiò il suo modo di vivere: continuò a lasciare il suo appartamento ogni mattina alle sette per dipingere in strada. Anche se aveva moglie e figli, non vivevano con lui. Abitava in un appartamento in una casa popolare, e chi lo visitava trovava l’esperienza traumatica: ogni centimetro di parete era ricoperto di calligrafie, non c’erano quasi mobili e il pavimento era coperto di carta appallottolata e scarafaggi. Il re viveva grazie al sussidio d’invalidità, concesso dopo che si era spezzato le gambe in un incidente sul lavoro. Alla porta c’era un flusso costante di collezionisti e ammiratori, che spesso pagavano il suo lavoro con cestini di maiale arrosto con soia e lattine di Coca-Cola ghiacciata. Il re, che non si è mai considerato un artista, sembrava soddisfatto di questi accordi. “Non m’interessano i soldi e la fama”, disse a un giornalista, “dovrebbero solo restituirmi il trono”.
La reputazione del re di Kowloon aumentò nell’anno del passaggio di consegne, mentre il Regno Unito si preparava a liberarsi della sua ultima colonia. Per la settimana della moda del 1997, l’ultima sotto l’amministrazione britannica, lo stilista William Tang Tat-chi fece della sua intera sfilata un omaggio al re di Kowloon. La collezione era stravagante, ogni capo era decorato con la tipica calligrafia del re. Il pezzo forte era un abito asimmetrico monospalla color cemento, ricoperto di scritte e con uno strascico di venti metri: Tang dichiarò di aver trovato il tessuto così bello da non riuscire a tagliarlo.
In quel momento storico, la sfilata fu una coraggiosa rivendicazione dell’identità di Hong Kong. La calligrafia fitta di Tsang riecheggiava l’energia e l’affollamento delle strade di Hong Kong, e il volto della modella che sfilava sulla passerella era di ferrea determinazione. Fu un momento decisivo, il lancio di un’estetica di Hong Kong che trasmetteva la consapevolezza dell’isola: moderna, ibrida, urbana, sicura di sé.
Quando nel 2019 ho incontrato Tang, era vestito di nero, alto e sorprendentemente giovanile per i suoi sessant’anni. Quando gli ho chiesto di riassumere l’impatto della collezione, ha sorriso. Affermava che si trattava della collezione più memorabile – anzi, l’unica – nella storia della moda di Hong Kong.
Per gli abitanti di Hong Kong, la sfilata ha avuto profonde risonanze storiche. William Tang Tat-chi è un discendente del potente clan Tang, che si era insediato a Hong Kong nel 973. Erano proprietari terrieri che erano stati espropriati e che, nel 1899, avevano guidato la guerra dei sei giorni opponendosi all’acquisizione britannica dei nuovi territori. “La mia famiglia è qui da mille anni”, mi ha detto Tang. “Dovremmo essere noi i re di Kowloon”.
Gli hongkonghesi trovarono la costanza del messaggio del re rassicurante in un periodo di cambiamenti, oltre a essere una preziosa memoria collettiva. Per i più informati, i suoi caratteri evocavano temi tradizionalmente taciuti: una storia di espropriazione di massa, la pungente umiliazione di un clan un tempo potente e il messaggio che nulla era stato dimenticato. La perdita della terra poteva essere immaginaria, ma per un popolo passato da un potere sovrano a un altro, la sua forza metaforica echeggiava ancora.
Dopo il passaggio di consegne, la fama del re continuò a crescere. Fu protagonista di uno spot televisivo umoristico per un prodotto detergente, che lo ripropose come una mascotte rassicurante. Fece delle apparizioni in film girati a Hong Kong. Il suo lavoro fu incluso in una mostra itinerante intitolata Cities on the move, curata dalle celebrità del mondo dell’arte Hans Ulrich Obrist e Hou Hanru, e nel 1999 il suo lavoro fu portato a Taiwan e negli Stati Uniti, insieme a quello di Mao Zedong, in una mostra organizzata da uno dei più famosi curatori di Hong Kong, Johnson Chang Tsong-zung. Nel 2001 fu il primo artista di Hong Kong a esporre alla prestigiosa biennale di Venezia. Un marchio coprì capi di biancheria intima, lenzuola e pantofole con le sue scritte. Ma la sua vita non cambiò mai. Anche se era diventato una celebrità, continuava a dipingere in strada.
A partire dal 2004, il suo lavoro cominciò a scomparire. Viveva ancora nel suo puzzolente appartamento al diciottesimo piano di una casa popolare, circondato da bottiglie d’inchiostro vuote e pennelli rinsecchiti. Ma nel 2004, a ottantatré anni, gli diede accidentalmente fuoco. La famiglia colse l’occasione per trasferirlo in una casa di cura.
All’inizio il re era sconvolto, poiché l’ospizio gli proibiva di dipingere, a causa del disordine e dell’odore dell’appiccicoso inchiostro nero. Non potendo dipingere, non riusciva a dormire la notte. Ma presto fu trovata una soluzione, grazie a un giovane pubblicitario di nome Joel Chung Ying-chai, che aveva rilevato parte del lavoro di Lau. Chung portò al re pennarelli e carta su cui scrivere. Ma gli ideogrammi del re si stavano deformando, con linee che si attorcigliavano imprevedibilmente l’una all’altra.
Nel 2007 fu ricoverato tre volte per vari problemi, tra cui un edema polmonare. Chung gli fece visita in ospedale, portando alcune tele gialle e la statua di terracotta giallo limone di un guerriero da fargli autografare per un’asta di beneficenza. Il re sembrava allegro, ma i suoi caratteri erano incerti. Mentre dipingeva, commentò: “Ehi! Non sono più il re! Non lo faccio!”.
Chung era confuso. Chiese: “Non sei il re?”.
La risposta fu bonaria ma ferma. “Non lo farò. Non sono il re! Che lo faccia qualcun altro!”.
In seguito, Chung si rese conto che Tsang aveva firmato il retro del guerriero di terracotta non con il suo solito “re di Kowloon”, ma con uno scarabocchiato “Tsang Tsou-choi”.
Il 15 luglio 2007, Tsang morì per un attacco di cuore. Ci vollero più di dieci giorni prima che la notizia emergesse – Chung era impegnato a lavorare a un libro e non lo andava a trovare ogni giorno, e la famiglia provava imbarazzo per l’attenzione che attirava – ma quando avvenne, la morte del re fu riportata dai giornali di tutto lo spettro politico, perfino dal Wen Wei Po, simpatizzante dei comunisti. Fu paragonato a Van Gogh e Picasso, celebrato per la semplicità dello stile di vita e per l’etica del lavoro. L’Apple Daily, un giornale filodemocratico che ha chiuso nel 2021, stampò un’edizione commemorativa a colori con una doppia prima pagina che annunciava “Il re è morto!”.
L’eredità di Tsang fu forse riassunta al meglio da un suo amico, il rapper MC Yan, che disse a un giornalista: “Non importa se era un re vero o falso, era certo della propria identità, a differenza degli abitanti di Hong Kong che non sanno se vengono da est o da ovest”.
Il re aveva sempre avuto un solo messaggio: una tenace asserzione della sua ascendenza e della sua sovranità. Si poteva leggere come un’affermazione d’identità e un ripudio della colonizzazione. Per i suoi ammiratori, questo contrastava con le ipocrite dichiarazioni dei successivi e impopolari capi dell’esecutivo incaricati dalla Cina che, per la loro stessa funzione, non erano stati in grado di parlare né per sé né per il popolo di Hong Kong. I sostenitori vedevano nel re di Kowloon l’ultimo hongkonghese libero, in grado di dire la sua.
Ma la sua importanza non è tanto come artista quanto come pioniere dei graffiti politici. I suoi messaggi di protesta sono filtrati nel sangue della città. Nel 2014, quando i manifestanti hanno riempito le strade durante la rivoluzione degli ombrelli, hanno adottato i metodi del re.
Quell’anno, circa 1,2 milioni di hongkonghesi hanno occupato per 79 giorni tre arterie principali per richiedere più voce in capitolo nella scelta del capo dell’esecutivo. Vicino alla sede del governo hanno tappezzato un muro con rivendicazioni scarabocchiate su post-it pastello: “Lotta per la democrazia!”, “Noi amiamo Hong Kong!”. Il re era un modello per la nuova generazione di dissidenti: aveva portato la politica in strada ben prima che nascesse il movimento Occupy. “È stato il primo occupante”, mi ha detto un giovane designer.
Nel 2019, la Cina ha proposto una legge sull’estradizione che darebbe a Pechino l’autorità di spedire gli imputati sospetti nella Cina continentale per essere processati dal sistema giudiziario cinese. I cittadini di Hong Kong temevano che la proposta di legge avrebbe minato l’indipendenza del sistema giudiziario locale e centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza. Questa volta i post-it sono comparsi sulle passerelle pedonali e nei tunnel sotterranei, sulle vetrine dei negozi e sui cartelli stradali, come uno sciame liberato nella città. “Hong Kong non è la Cina!”, “Noi siamo Hong Kong!”, “Home Kong!”. Non si trattava solo di muri di malcontento, ma anche di muri comunitari, di solidarietà; i messaggi affermavano con forza un’identità di Hong Kong separata dalla Cina.
Mentre le manifestazioni continuavano, la polizia rispondeva con gas lacrimogeni e violenza, arrestando ragazzi semplicemente perché vestiti di nero, il colore del movimento. I dimostranti hanno cominciato a lanciare pietre e molotov contro la polizia. I manifestanti sono passati ai graffiti direttamente su strade, muri e pensiline dei tram: “Fanculo la polizia”, “Cinazi”, “Se bruciamo, bruciate con noi”.
Questi slogan, come gli interminabili papiri del re, sono entrati nello stesso ciclo di distruzione e pulizia, anche se ora, invece che da un uomo solo e dal suo pennello, erano prodotti velocemente e in tutto il territorio simultaneamente. I muri e i pilastri di Hong Kong erano ricoperti da riquadri grigi freschi di pittura, frettolosamente sovrapposti agli slogan di protesta. Ogni volta che appariva un nuovo graffito, era subito coperto da un mosaico di rettangoli bianchi, neri o grigio scuro. A volte i collaboratori del governo dipingevano sui caratteri con tanta cura che finivano per enfatizzare ogni parola. Ho visto la scritta “Popolo di Hong Kong!” profilarsi a una fermata del tram, tanto che sembrava che gli addetti alle pulizie si fossero uniti alla protesta. Mi ha ricordato le parole dell’artista Jean-Michel Basquiat: “Cancello le parole in modo che si possano notare”. È una lezione che le autorità di Hong Kong non hanno imparato dal re.
A metà del 2019, mentre seguivo il movimento di protesta, ho ricevuto un messaggio dall’ultimo collaboratore del re, Joel Chung, che m’invitava a incontrarlo. Volevo conoscerlo dopo aver sentito delle strane accuse contro di lui da parte di Lau, il primo curatore del re. I due uomini avevano avuto un rapporto conflittuale. Lau aveva accusato Chung di aver dipinto con lo spray sopra un grande pezzo di calligrafia del re un disegno di grattacieli e la scritta L’ARTE NON È TUTTO MA NE ABBIAMO BISOGNO. Aveva presentato denuncia alla polizia.
L’ufficio di Chung era come un magico museo dell’infanzia. Dal soffitto pendevano borse a rete piene di palline di plastica bianche e rosse, corde per saltare e rocchetti di legno per aquiloni. Chung aveva creato un museo della cartoleria, pieno di armadietti con penne stilografiche d’epoca, gomme da cancellare e righelli di legno con i nomi delle passate generazioni di scolari.
Chung era una figura eccentrica, con i suoi spessi e tondi occhiali neri. Ho preso con cautela le accuse di Lau, chiedendo se fosse vero che aveva distrutto alcune calligrafie del re. In risposta, ha allegramente tirato fuori un video. Mentre si diffondeva una musica tesa e inquietante, delle lingue di fuoco stuzzicavano un pezzo di carta coperto di caratteri neri del re. Impalpabili sbuffi di cenere si levavano a spirale nell’aria mentre un secondo pezzo di calligrafia andava in fiamme. Guardandolo, mi tenevo la testa con le mani per l’orrore. Chung sembrava deliziato dalla mia reazione. Mi ha spiegato che aveva più di cinquecento opere del re e che aveva deciso di sacrificarne un paio per far conoscere meglio la sua eredità.
Quando gli ho chiesto se avesse distrutto il murale, Chung ha confessato con gioia il crimine. Ma questa era solo metà della storia, mi ha detto. In realtà, aveva preso delle misure per proteggere la calligrafia del re, coprendola con uno strato di pellicola di plastica e dipingendovi sopra. La “distruzione” era un trompe l’oeil, ha detto con soddisfazione. Lau era arrabbiato, ha ridacchiato, perché non si era accorto che la distruzione era finta.
Quando gli ho chiesto chiarimenti sulla magica apparizione dei caratteri che avevo visto sul muro bagnato di Central, mi ha svelato un segreto. Aveva preparato per il re degli inchiostri speciali particolarmente appiccicosi, a volte utilizzando una miscela d’inchiostro, acrilico e acqua, altre volte acquaragia e vernice a smalto. A Central l’inchiostro del re era così appiccicoso che la vernice grigia usata dalle autorità per coprirlo gli si era attaccata, e poi per qualche motivo entrambi gli strati si erano staccati, lasciando visibili i contorni dei caratteri sottostanti.
Quando mi sono congedata, Chung mi ha accompagnato all’ascensore. “vai di fretta?”, Chung ha chiesto con disinvoltura. “Hai cinque minuti?”. È saltato con me nell’ascensore e siamo scesi. Quando abbiamo raggiunto il piano terra, ha accelerato il passo. Faticavo a stargli dietro mentre attraversava un’autostrada, schivando le auto. Quando abbiamo raggiunto la corsia centrale, si è arrampicato su un argine. Davanti a noi, dietro alcuni cespugli, c’era il pilastro arrotondato di un cavalcavia.
Non potevo credere ai miei occhi. La colonna era rivestita dalle parole del re. Non le parole fantasma o i brandelli di scrittura danneggiati dal sole che avevo trovato nelle mie ricerche, ma spessi caratteri neri in ottime condizioni. Il pezzo di scrittura era di circa un metro quadrato, molto più grande di qualsiasi altro esempio di opera del re rimasta per strada. Come mai era passata inosservata?
È venuto fuori che faceva parte della missione segreta di Joel Chung. Ha spiegato di aver accompagnato il re durante il suo lavoro. Quando il re aveva dipinto per la prima volta il pilastro, Chung aveva annotato la posizione su una tabella. Quando il lavoro originale era stato coperto da un addetto del governo, aveva annotato anche quello. Ora stava metodicamente scrostando la vernice grigia per esporre la calligrafia. Era un lavoro lento e noioso, e aveva già trascorso più di una settimana su questo pilastro. Una volta resa visibile l’intera opera, l’avrebbe ricoperta con un olio trasparente per preservarla. Poi l’avrebbe ricoperta con una mano di vernice grigia, perché nessuno se ne accorgesse.
Per un decennio, utilizzando la tabella, Chung ha metodicamente scoperto le opere nascoste del re, una per una, restaurandole e poi ridipingendole. Stava creando un museo clandestino delle opere del re, noto solo a lui.
Tre anni dopo, alcuni di questi pezzi stanno venendo alla luce, man mano che gli strati superiori si staccano o sono rimossi. Intanto il re di Kowloon sta vivendo un revival. È stato al centro della prima mostra del nuovo museo di arti visive M+, costato 740 milioni di euro, che ha finalmente aperto i battenti nel novembre 2021, con quattro anni di ritardo rispetto alla tabella di marcia. È stato anche celebrato al prestigioso Art Basel di Hong Kong a maggio, dove sono stati esposti alcuni suoi cimeli, come il suo televisore e il suo bollitore, accanto alle opere d’arte. Ma l’opera del re deve uscire per le strade, dove può essere vista dal suo popolo. Il meticoloso lavoro di Chung garantisce che sia possibile ancora per un po’.
Quando ero giovane, le persone vedevano il re di Kowloon come un pazzo. Oggi però si dice a mezza voce che forse era uno sciamano o un profeta le cui parole avevano predetto un futuro di sottomissione e perdita. Nel 2020, dopo che a Hong Kong è stata imposta una drastica normativa in tema di sicurezza nazionale, l’azione stessa di rivendicare la terra o di dichiarare la propria sovranità può essere considerata come un atto secessionista.
Da allora, la Hong Kong di un tempo è stata stravolta. Il suo corpo legislativo è stato trasformato in un organo i cui candidati sono esaminati dalla polizia per verificarne il patriottismo, mentre decine di politici democratici sono in carcere, accusati di sovversione. I dipendenti pubblici sono obbligati a prestare giuramento di fedeltà alla Cina. I programmi scolastici sono stati riscritti per enfatizzare la “sicurezza nazionale” invece del pensiero critico. Le organizzazioni della società civile sono state sciolte e le manifestazioni vietate.
Le preoccupazioni del re di Kowloon – sovranità, territorio, espropriazione e perdita – erano profetiche. Stava esplorando queste idee in parallelo ad accademici, filosofi, artisti e musicisti. Dopo che la normativa sulla sicurezza nazionale ha cambiato Hong Kong per sempre, alcuni di questi artisti e pensatori sono stati imprigionati, altri sono andati in esilio e altri ancora hanno semplicemente smesso di parlare. L’indagine sul re mi ha portato dai suoi sostenitori, che si sono rivelati essere alcune delle più autorevoli menti di Hong Kong.
Un giorno, anni prima delle proteste, ho fatto visita a un noto artista di Hong Kong che mi ha detto di considerare Tsang il suo eroe. Gli ho chiesto cosa avesse imparato da lui. “La determinazione”, ha risposto, “come persona, non come artista. Qualcuno che agisce per ciò in cui crede, per anni e anni. Non vedo nessuno che possa essere paragonato a lui”.
Un altro dei seguaci del re mi ha spiegato ciò che il re gli aveva insegnato: “Essere una persona di Hong Kong e raccontarne la storia”.
Le domande che erano state così cruciali per me quando ho cominciato le ricerche non erano più importanti. Non sapevo ancora se il re fosse nel pieno delle sue facoltà mentali o no. Non ero riuscita a confermare o negare la veridicità della sua rivendicazione territoriale. Ciò che contava era il modo in cui aveva dato voce a sentimenti che non conoscevamo fino a quando non li aveva espressi per noi.
Sotto l’incantesimo della sua immaginaria sovranità, ci ha costretti a fare i conti con la nostra identità conflittuale. Oggi i nostri sogni sono stati banditi, i nostri inni e slogan vietati, i nostri stessi pensieri soffocati prima che possano formarsi. Ora siamo tutti re di Kowloon, espropriati delle nostre terre ancestrali, privati della stessa idea di noi stessi, lasciati con nient’altro che la nostra perdita. ◆ svb
Louisa Lim
è una giornalista di Hong Kong. Questo articolo è un adattamento del suo libro La città indelebile, che in Italia sarà pubblicato da add editore all’inizio del 2023. È uscito sul Guardian con il titolo The king of Kowloon: my search for the cult graffiti prophet of Hong Kong.
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Questo articolo è uscito sul numero 1475 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati