I turchi chiamano il Bosforo la “gola di Istanbul”, Istanbul bogazi. Un modo per ricordare che questa via marittima, tra le più frequentate del mondo, è sotto il loro controllo. In virtù di un trattato internazionale del secolo scorso, solo la Turchia decide chi può attraversare lo stretto e quindi entrare e uscire dal mar Nero.
Situato ai confini di mondi diversi – balcanico, slavo, mediterraneo – questo mare, finora senza particolari problemi, è diventato il teatro di continue tensioni dopo l’invasione dell’Ucraina lanciata da Vladimir Putin il 24 febbraio 2022. È il “nuovo centro di gravità della guerra”, ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj: da un lato i porti ucraini subiscono regolarmente gli attacchi russi; dall’altro i droni e i missili di Kiev continuano a colpire la flotta di Mosca. Ma al di là degli scontri, dalle rive del mar Nero due grandi protagonisti – la Turchia e la Russia – si studiano in un gioco ambiguo e talvolta brutale. Una sorta di “collaborazione ostile” che ormai desta preoccupazione.
In tempo di pace un quarto del commercio mondiale di cereali transitava da qui. Oggi non è più così. Le esportazioni di grano, orzo, mais e olio di girasole prodotti in Ucraina e in Russia sono crollate: nel caso delle merci ucraine a causa del blocco navale imposto da Mosca; per quelle russe il motivo sono le sanzioni occidentali. Di conseguenza è diminuito anche il transito delle navi mercantili: secondo la marina turca nel 2022 hanno attraversato il Bosforo 35.146 navi; prima del conflitto erano in media 48mila all’anno.
Le portarinfuse (navi usate per trasportare carichi non liquidi e non chiusi in container) continuano però a caricare il grano nei porti ucraini di Odessa, Pivdennyj e Čornomorsk. Nonostante l’opposizione del Cremlino, nell’estate del 2023 Kiev e i suoi alleati occidentali hanno istituito un corridoio di sicurezza che ha permesso l’esportazione di quindici milioni di tonnellate di prodotti agricoli. Ma sono volumi ancora insufficienti. Per sopravvivere, i contadini ucraini devono aumentare le esportazioni. Bisognerebbe inoltre sbarazzarsi delle mine navali che vanno alla deriva trasportate dalle correnti, ostacolando il passaggio delle imbarcazioni.
Navigare in queste acque militarizzate è un rischio che pochi armatori sono disposti a correre, e assicurare le navi e i loro carichi costa caro. Il 27 dicembre 2023 un cargo con bandiera panamense diretto verso il porto ucraino di Izmail per scaricare dei cereali è stato danneggiato da una mina galleggiante nelle acque di fronte al delta del Danubio e due marinai sono rimasti feriti. Qualche mese prima altri due ordigni del genere erano scoppiati all’ingresso dei porti turchi di Kastamonu ed Ereğli, senza fare vittime.
Per scongiurare rischi simili l’11 dicembre Londra ha annunciato la consegna a Kiev di due dragamine, l’Hms Grimsby e l’Hms Shoreham. Ma il 2 gennaio Ankara non le ha fatte passare, un diritto di cui dispone in base alla convenzione di Montreux. Firmato nel 1936, questo trattato dà alle autorità turche il controllo assoluto sugli stretti. La scelta d’impedire il passaggio alle navi britanniche è stata presa per “evitare una possibile escalation”, ha detto l’ufficio stampa del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan in un comunicato pubblicato lo stesso giorno.
Passaggio vietato
Non è la prima volta che la Turchia chiude gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. All’inizio della guerra in Ucraina aveva già vietato il passaggio alle navi militari senza un porto di appartenenza nel mar Nero, così come alle forze navali della Nato. Il divieto colpisce soprattutto la Russia, visto che l’Ucraina non ha una vera e propria flotta. Il 28 febbraio 2022 Ankara ha chiuso la porta a tutte le navi che Mosca voleva portare dal Mediterraneo nel mar Nero. Un duro colpo per il Cremlino, che tuttavia ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Questo ha permesso alla città ucraina di Odessa di evitare un attacco anfibio e di fare la fine di Mariupol, ridotta in macerie dall’esercito russo all’inizio della guerra. Così la Turchia si è guadagnata il plauso dei suoi alleati occidentali.
Il rifiuto opposto alle navi inglesi, invece, ha fortemente irritato lo schieramento atlantista. “Con il blocco dei dragamine della Royal navy la Turchia fa un uso improprio della convenzione di Montreux”, ha protestato il 3 gennaio l’ammiraglio James Stavridis, ex comandante delle forze della Nato, sul suo profilo X (ex Twitter): “I dragamine hanno uno scopo puramente difensivo, e sono essenziali per permette all’Ucraina di mantenere in vita la sua economia. In quanto membro della Nato, la Turchia deve tornare sulla propria decisione e autorizzare il loro passaggio”.
Gelosa delle prerogative che il trattato del 1936 le attribuisce, Ankara vuole continuare a garantire la sicurezza nel mar Nero, indipendentemente dal contesto e dalle posizioni dei suoi alleati. E così, anche se gli aerei della Nato sorvolano regolarmente la zona, le sue navi non sono le benvenute. “Nel mar Nero non vogliamo né la Nato né l’America”, ha ribadito il 18 novembre 2023 l’ammiraglio Ercüment Tatlıoğlu, capo delle forze navali turche. “Perché rischiano di trasformarlo in un nuovo Medio Oriente”, uno spazio devastato dai conflitti e dalle intrusioni occidentali. Simili dichiarazioni mostrano la diffidenza degli ufficiali turchi verso la Nato, anche se il loro paese è il pilastro meridionale dell’alleanza. “Ankara ha sempre interpretato i termini della convenzione di Montreux in modo molto rigoroso”, osserva Sinan Ulgen, analista della fondazione Carnegie Europe a Bruxelles. “Questo trattato limita la presenza nel mar Nero delle navi militari di paesi che non vi si affacciano, in guerra come in pace. E vale anche per gli alleati della Turchia nell’Alleanza atlantica”.
Sanzioni e come aggirarle
Rifiutando di modificare la propria posizione sulla chiusura degli stretti agli inglesi, la Turchia si è tuttavia impegnata a partecipare allo sminamento del corridoio di sicurezza, firmando l’11 gennaio scorso un accordo con la Romania e la Bulgaria. Il ministro della difesa turco, Yaşar Güler, ha precisato che “l’iniziativa sarà aperta solo alle navi dei tre paesi coinvolti”, escludendo così l’intervento di altri membri della Nato, quantomeno fino alla fine della guerra in Ucraina.
Il primo obiettivo di Ankara è non inimicarsi la Russia. Mosca non sarebbe affatto contenta di vedere arrivare delle navi nemiche in uno spazio che considera proprio. “La Turchia si oppone alla presenza della Nato in questa zona perché comprometterebbe le sue relazioni con Mosca e sarebbe in contraddizione con gli impegni presi. E poi i turchi pensano che la loro flotta sia in grado di affrontare ogni possibile minaccia”, spiega Ulgen.
Fin dagli anni novanta turchi e russi si sono sforzati di tenere lontani gli occidentali e di convivere nel mar Nero nel rispetto dei reciproci interessi. La fine della guerra fredda ha favorito questa posizione. “Per sviluppare la cooperazione navale tra i due stati sono stati creati un gruppo di discussione e una task force dedicata al mar Nero. Più in generale la Turchia ha promosso l’Organizzazione di cooperazione economica del mar Nero (nata nel 1992, un anno dopo il crollo dell’Unione Sovietica), che ha sede a Istanbul. “All’epoca si trattava di creare un mercato regionale con al centro la Turchia”, spiega Jean-Sylvestre Mongrenier, professore all’istituto Thomas More di Bruxelles. “Questo avrebbe aiutato il paese a ottenere lo status di candidato all’ingresso nell’Unione europea. E in effetti Bruxelles ha appoggiato il progetto con l’obiettivo di garantire pace e prosperità nelle aree meridionali e orientali dell’Europa”.
In quel periodo Ankara “cercava di fare affidamento sull’Unione e sulla Nato per negoziare la creazione di una sorta di condominio turco-russo sul mar Nero”, sottolinea Mongrenier. In seguito, la guerra in Ucraina ha rafforzato la cooperazione commerciale tra le due potenze che controllano le acque strategiche del mar Nero: Mosca grazie al blocco navale, Ankara attraverso il controllo degli stretti. E in più di un’occasione i due autocrati – Putin ed Erdoğan – si sono visti a Soči, nella residenza estiva del capo del Cremlino, sulle rive del mar Nero. È qui che nell’estate del 2022 hanno deciso di dare nuovo impulso agli scambi tra i loro paesi.
Isolata dall’Europa dopo l’invasione dell’Ucraina, la Russia sopravvive in parte grazie al sostegno del vicino turco, che compra i suoi prodotti e le sue materie prime: gas, greggio, gasolio, carbone, metalli e fertilizzanti. Attraverso il mar Nero viene trasportato anche il gas russo destinato all’Europa centrale, che passa nel gasdotto TurkStream, inaugurato nel 2020. E da una ventina di anni il gasdotto Blue Stream, anch’esso sottomarino, permette al gigante russo Gazprom di rifornire la Turchia.
Unico membro della Nato a non applicare sanzioni contro Mosca, la Turchia ha saputo approfittare della situazione. La sua lunga costa, la sua efficiente logistica, le sue piccole e medie imprese pronte ad assumersi dei rischi ne fanno un crocevia fondamentale per aggirare le sanzioni. Le esportazioni verso la Russia sono aumentate del 62 per cento nel 2022, una crescita confermata anche nel 2023, stando ai servizi doganali turchi. Inoltre la Turchia ha lasciato il suo spazio aereo aperto, i suoi porti sono usati per riesportare beni essenziali per il complesso militare-industriale di Mosca, e i suoi uomini d’affari fanno regolarmente da intermediari con le imprese russe.
Inoltre, i giganti mondiali del trasporto via container, scoraggiati dalle sanzioni e dagli alti costi assicurativi, hanno drasticamente ridotto le spedizioni nel mar Nero, e sono stati sostituiti da società turche. Così le merci provenienti dall’Asia e dall’Europa arrivano ormai a Istanbul, Mersin o Smirne per poi essere reindirizzate verso il porto russo di Novorossijsk. Nulla ferma gli affari.
Questo pragmatismo non impedisce al presidente Erdoğan di impegnarsi per permettere a Kiev di continuare a esportare i suoi cereali, mentre chiude un occhio sul transito attraverso i suoi porti di migliaia di tonnellate di grano destinate alla Libia e alla Siria e sottratte dalla Russia nelle regioni ucraine occupate. D’altra parte, nel 2023 centinaia di migliaia di tonnellate di carbone estratto nel Donbass sono state vendute a industriali turchi dalla società Vostokugol, controllata dalle autorità filorusse di Luhansk.
C’è però un altro aspetto di questi tentativi di aggirare le sanzioni che è molto più problematico. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina le spedizioni turche di microprocessori, materiale radio e merci a doppio uso (cioè beni di uso quotidiano le cui componenti possono essere usate anche per scopi di difesa e di sicurezza, per esempio cellulari, lavatrici ecc.) sono aumentate in modo esponenziale in direzione della Russia, ma anche di Georgia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan, tutti stati ex sovietici sospettati di agire per conto di Mosca.
Gli occidentali hanno espresso preoccupazione per questi traffici che rafforzano la macchina bellica del Cremlino. E gli ucraini hanno confermato che nei missili russi, di cui analizzano meticolosamente i resti, ci sono sempre componenti elettroniche prodotte negli Stati Uniti, in Austria, in Corea del Sud o a Taiwan. Molti di questi prodotti sono passati per la Turchia. Per ritorsione, Washington ha già emesso sanzioni contro una decina di imprese turche. Il sottosegretario al tesoro Brian Nelson è stato due volte in Turchia nel 2023, e nel corso della sua ultima visita a Istanbul, il 30 novembre, ha puntato il dito contro “il preoccupante aumento, pari al 600 per cento negli ultimi 18-24 mesi, delle riesportazioni attraverso la Turchia di componenti a doppio uso”.
Qualche settimana dopo le banche turche hanno cominciato a ridurre le transazioni con Mosca. Il tesoro statunitense ha anche minacciato di applicare sanzioni “secondarie”, che colpiscono i paesi sospettati di facilitare l’aggiramento delle sanzioni, scollegandoli dal sistema di pagamento Swift e impedendogli di usare il dollaro. Evidentemente la minaccia ha funzionato.
La fine di questo tipo di operazioni tra Russia e Turchia non è certo una buona notizia per il Cremlino. I rapporti tra Ankara e Mosca, ormai soprattutto commerciali, rimangono complicati. Nel mar Nero, ma anche in Siria, in Libia, nel sud del Caucaso o in Ucraina gli interessi dei due paesi sono divergenti. Del resto il presidente Erdoğan non ha mai nascosto il suo sostegno a Kiev. I militari turchi trasmettono regolarmente agli ucraini informazioni militari ottenute dai loro ricognitori sopra il mar Nero. E proprio per il timore di vedere queste acque trasformarsi in un “lago russo”, nel 2019 Ankara aveva avviato con Kiev un partenariato per la difesa, che prevedeva la costruzione congiunta di droni armati, motori di aereo e corvette.
Scontri e tensioni
Sul piano diplomatico Erdoğan ha sempre condannato l’annessione russa dei territori ucraini. La penisola della Crimea, annessa alla Russia nel 2014, ha un grande valore simbolico per i turchi, in quanto culla dei tatari, loro “fratelli” turcofoni. Protettorato dell’impero ottomano per tre secoli, dal 1475 al 1783, la penisola fu poi al centro di diverse guerre tra gli ottomani e l’impero zarista, entrambi determinati a conquistare il dominio sulla regione.
Malgrado le buone relazioni con Putin, il presidente turco teme l’aggressivo espansionismo russo, che considera una minaccia alla sicurezza strategica del mar Nero. La progressiva occupazione russa delle sue coste – Mosca ha preso l’Abkhazia, in territorio georgiano, nel 2008, la Crimea nel 2014, e il mar d’Azov nel 2018, con l’incidente dello stretto di Kerč – preoccupa molto Ankara. La recente scoperta di un giacimento di gas al largo di Zonguldak, che potrebbe ridurre di un quarto la dipendenza del paese nei confronti del gas russo, sta spingendo il governo turco a fare particolare attenzione alla protezione delle sue vie marittime.
Questo difficile rapporto di vicinato ha conosciuto un ulteriore momento di tensione il 7 luglio 2023. Quel giorno Erdoğan ha consegnato di persona al presidente Zelenskyj cinque ufficiali del battaglione Azov che avevano combattuto nella difesa di Mariupol, e che gli erano stati affidati da Putin a condizione di essere messi agli arresti domiciliari fino alla fine della guerra. “Una pugnalata alle spalle”, hanno accusato i propagandisti del Cremlino.
Due mesi più tardi, il faccia a faccia tra Putin ed Erdoğan a Soči si è rivelato cordiale ma poco utile. Il leader turco ha chiesto di riaprire il corridoio per l’esportazione dei cereali, ma il presidente russo ha rifiutato. Lo scopo era impedire un nuovo incidente navale dopo quello del 14 agosto 2023, quando il mercantile turco Sukru-Okan, in rotta verso il porto di Izmail, non lontano da Odessa, era stato bersaglio di alcuni colpi di avvertimento sparati dalla motovedetta russa Vassili-Bykov. L’immagine umiliante dei marinai, immobilizzati sul ponte dagli ispettori sbarcati da un elicottero inviato da Mosca, aveva provocato vive reazioni in Turchia.
Qualche anno prima i due paesi avevano già rischiato uno scontro aperto. Il 24 novembre 2015 l’aviazione turca aveva abbattuto un aereo russo alla frontiera con la Siria, provocando una grave crisi tra Mosca e Ankara. Erdoğan aveva accusato i russi di aver compiuto crimini di guerra per sostenere Bashar al Assad; a sua volta Putin aveva accusato i turchi di sostenere il terrorismo islamista. Mosca aveva imposto sanzioni, annullato i voli turistici verso le spiagge turche e bloccato l’importazione dei prodotti agricoli. Ci sono volute le scuse scritte di Erdoğan, trasmesse a Putin nel giugno 2016, per permettere il ritorno a normali relazioni diplomatiche.
I progetti di Erdoğan
Nell’aprile 2020 una bomba russa a guida laser ha distrutto l’edificio in cui decine di soldati turchi si erano rifugiati dopo che il loro convoglio era stato attaccato nella provincia di Idlib, ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad nel nordovest della Siria. Nel bombardamento sono morte 34 persone. Anche in quell’occasione, però, i due leader sono riusciti a superare la crisi.
All’epoca, tuttavia, la Russia era in una posizione di forza. Oggi, in particolare nel mar Nero, la situazione è diversa. Sotto il fuoco delle batterie costiere, dei droni e dei missili ucraini, la flotta russa è in difficoltà. Il 1 febbraio la corvetta Ivanovets, armata di missili, è stata distrutta mentre pattugliava il lago Donuzlav, nella Crimea occidentale.
Dall’inizio del conflitto circa trenta delle 85 navi che Mosca aveva nella zona sono state affondate o danneggiate da Kiev. Tra loro una nave ammiraglia, alcune navi da sbarco e lanciamissili: tutti mezzi che non possono essere rimpiazzati perché gli stretti sono chiusi.
In un precedente attacco ucraino, nella notte del 26 dicembre 2023, la nave da sbarco Novočerkassk era stata distrutta nel porto di Feodosia, nella Crimea orientale, che ospita un’importante base russa. Dei 77 marinai che erano a bordo, 74 erano morti nell’attacco dei caccia Sukhoi ucraini, equipaggiati probabilmente con missili da crociera Storm Shadow o Scalp forniti da Regno Unito e Francia. “Nessun porto della Crimea è sicuro per le navi russe”, aveva dichiarato lo stesso giorno Ruslan Pukhov, direttore del Centro di analisi delle strategie e delle tecnologie, un centro studi russo filogovernativo. L’Ucraina ha “di fatto cacciato la flotta dalla Crimea”, concludeva l’esperto.
Diffuse dai blogger russi su Telegram, le immagini dell’attacco mostrano una grande esplosione. Quando è stata colpita, la nave era ormeggiata per scaricare missili e droni iraniani di tipo Shahed. Le consegne di Shahed, usati in bombardamenti a sciami per colpire le città ucraine, avvengono soprattutto attraverso il mar Nero. Le navi da carico partono dalla costa iraniana del mar Caspio, imboccano il canale navigabile tra i fiumi Volga e Don fino al mare d’Azov per poi arrivare nel mar Nero. Una rotta diventata fondamentale per l’esercito russo, usata per trasportare le munizioni e considerata più sicura della ferrovia che passa sul ponte di Kerč, già attaccata due volte dagli ucraini.
L’Ucraina sta cercando in maniera sistematica di ridurre la potenza di fuoco del suo aggressore nel mar Nero. E in effetti in quest’area la Russia si è molto indebolita. Secondo Jurij Ušakov, consigliere diplomatico del Cremlino, era questo il motivo della visita che Putin avrebbe dovuto fare in Turchia il 12 febbraio e che poi è stata rimandata a marzo. Con il viaggio ad Ankara il leader russo voleva mostrare al mondo che Mosca non è così isolata come affermano gli occidentali e che il mandato di arresto emesso contro di lui il 17 marzo 2023 per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale non limita i suoi spostamenti. Dopo la Cina, nell’ottobre 2023, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi il mese successivo, doveva essere il turno della Turchia.
Ma cosa vuole il capo del Cremlino da Erdoğan? “La questione ucraina sarà probabilmente al centro dei colloqui”, ha precisato Ušakov, citato dalla Rossijskaja Gazeta. I russi sarebbero “disposti” a negoziare, ma “non hanno nessuno con cui farlo”. Dopo aver ospitato due sessioni di negoziati russo-ucraini a Istanbul nel 2022, concluse senza grandi risultati, Erdoğan sogna di organizzare un incontro tra Zelenskyj e Putin, progetto reso difficile dall’attuale situazione militare.
Il leader turco, tuttavia, rimane convinto, grazie ai suoi buoni rapporti con Kiev e Mosca, di trovarsi nella posizione ideale per far sedere i due belligeranti al tavolo dei negoziati. ◆ adr
“Ankara e Washington si stanno lasciando alle spalle uno dei peggiori decenni nella storia delle loro relazioni bilaterali”, scrive la giornalista turca Ezgi Akın sul sito Al Monitor. Secondo diversi osservatori, il riavvicinamento è confermato dalla recente decisione della Turchia di nominare ambasciatore negli Stati Uniti un diplomatico di carriera, Sedat Önal. “A differenza del suo predecessore Murat Mercan, tra i fondatori del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan, Önal non è un politico di professione, ma un diplomatico d’esperienza, già ambasciatore turco all’Onu e ministro degli esteri”.
Come spiega Al Monitor, “l’attuale miglioramento dei rapporti arriva dopo un lungo periodo di tensioni, dovute anche al sostegno statunitense ai curdi delle Forze democratiche siriane, ritenute una minaccia dai turchi, e all’acquisto da parte di Ankara del sistema di difesa antiaereo russo S-400”. La scelta di Önal “è solo il più recente di una serie di passi avanti fatti dalla Turchia, tra cui la ratifica dell’ingresso della Svezia nella Nato dopo una resistenza durata quasi due anni”. I rapporti tra Stati Uniti e Turchia, continua il sito, “stanno migliorando”. E tra gli sviluppi futuri “ci dovrebbe essere una visita di Erdoğan a Washington nei prossimi mesi”, sostiene Sinan Ulgen, analista della Fondazione Carnegie contattato da Al Monitor. “Ulgen è convinto che entrambi i governi vogliano proseguire su questa strada, ma sottolinea che, oltre a dichiarazioni e gesti simbolici, servono azioni concrete”, per esempio il rientro della Turchia nel programma aereo F-35, a cui dovrebbe far seguito la decisione statunitense di revocare le sanzioni contro Ankara decise nel 2020 in base alla legge Caatsa (Countering America’s adversaries through sanctions act). Tutto questo, però, deve avvenire in tempi brevi. “C’è una piccola finestra di opportunità da cogliere”, continua Ulgen. “Tra poco gli Stati Uniti entreranno in pieno clima elettorale. Washington e Ankara lo sanno, per questo a breve potremmo assistere a un’accelerazione del processo di riconciliazione”. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati