“Il giorno dopo era atteso a casa della fidanzata per chiederle la mano, ma non trovava la benzina”. “Doveva portare sua figlia disabile all’ospedale”. “Erano soldati venuti a cercare carburante per poter prendere servizio”. Gli abitanti della piccola località di Tleil e dei villaggi circostanti sono tutti concordi: sono state le privazioni e la miseria a spingere centinaia di giovani a precipitarsi in piena notte verso il serbatoio di benzina. L’esercito lo aveva lasciato a loro disposizione, in modo che potessero estrarne qualche litro per tirare avanti, nel contesto di una penuria che paralizza il Libano e in particolare la regione dell’Akkar nell’estremo nord del paese.

Un video girato subito prima dell’esplosione della cisterna di carburante, nella notte tra sabato 14 e domenica 15 agosto, mostra una scena angosciante. Un gruppo di uomini molto agitati, quasi completamente al buio, si affolla intorno alla cisterna per riempire le taniche di plastica. Alcuni estraggono il carburante inzuppando freneticamente un panno che poi strizzano nei bidoni, altri aspettano il loro turno con impazienza. Ma quello che sembrava un dono dal cielo apre invece le porte dell’inferno. “Gli uomini litigavano, alcuni accusavano altri di aver preso troppo carburante. Poi ho sentito qualcuno che diceva ‘Sto per accendere, sto per accendere’ e all’improvviso mi sono ritrovato scagliato a una ventina di metri di distanza”, racconta Omar, 18 anni, che vive con la famiglia accanto al terreno dove è avvenuta l’esplosione. Se l’è cavata con una ferita alla mano, mentre il suo amico è rimasto gravemente ustionato. Quella sera erano andati insieme a vedere cosa stava succedendo: “C’era una gran confusione, era impossibile dormire. C’erano centinaia di persone”. Omar dice di non aver sentito colpi di arma da fuoco, mentre altri testimoni hanno raccontato che il figlio del proprietario del terreno avrebbe sparato verso il serbatoio pieno di benzina, facendolo esplodere.

Neanche una goccia

Nel pomeriggio alcuni soldati e abitanti della zona avevano sequestrato il serbatoio. In seguito si è scoperto che era stato nascosto da un contrabbandiere sul terreno di un abitante di Tleil, un villaggio a maggioranza cristiana. “Conteneva centomila litri di carburante. Nella notte l’esercito ne ha prelevati 40mila e ha lasciato il resto a disposizione della popolazione. Ma i soldati non si aspettavano che a quell’ora sarebbe arrivata tutta quella gente”, racconta il fratello maggiore di Omar, che fa il militare. “Verso mezzanotte le persone hanno cominciato ad avvertire i familiari, che sono accorsi da tutte le parti. La gente in questo periodo non ha neanche una goccia di benzina”.

Lo spettacolo macabro di quei ragazzi avvolti dalle fiamme – più di trenta persone sono morte e quasi ottanta sono state ferite – è stato sconvolgente e ha esasperato lo sconforto degli abitanti di questo territorio emarginato da decenni. “L’Akkar è abbandonato, è solo tristezza”, dicono. Secondo l’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari (Ocha), l’Akkar è il governatorato (muhafaza) più svantaggiato del Libano, con il tasso di analfabetismo più alto e il reddito pro capite più basso del paese. La regione presenta tutte le caratteristiche di una comunità rurale povera e relativamente isolata, con infrastrutture fatiscenti e una cattiva qualità dei sistemi scolastico e sanitario, insufficienti a soddisfare i bisogni di un territorio tra i più densamente popolati del paese. In un contesto del genere la crisi senza precedenti che ha colpito il Libano non poteva che avere conseguenze disastrose, in una regione che dovrebbe essere famosa per la sua diversità e la sua ricchezza.

“Io non ho la macchina”, dice il fratello di Omar, che la sera dell’esplosione era in servizio altrove. “Ma forse se avessi visto tutte quelle persone precipitarsi a prendere il carburante, avrei fatto la stessa cosa. Una tanica si può vendere a un buon prezzo sul mercato nero”. I bidoni di liquido giallastro si vedono ovunque nell’Akkar. Sulla strada principale, molto danneggiata, che raggiunge tutti i villaggi della regione e li collega a Tripoli, le piccole attività commerciali, spesso poco frequentate, si susseguono: alimentari, barbieri, garage, venditori di pollame. Sui marciapiedi le taniche di benzina sono in vendita a prezzi che vanno da centomila a 300mila lire libanesi per otto litri (tra i 7 e i 20 euro al litro), mentre il prezzo ufficiale al momento dell’esplosione era 77.500 lire per venti litri (poco più di 2 euro al litro).

Nell’Akkar non ci sono più stazioni di servizio aperte a causa dei molti incidenti provocati dalla penuria di carburante. Tra le risse in fila ai distributori di benzina sfociate in sparatorie, i dirottamenti dei camion cisterna e i blocchi stradali dei manifestanti infuriati, nessun trasportatore si azzarda più ad avventurarsi nella regione. Ma qui avere l’auto è fondamentale, dato che i servizi essenziali sono distribuiti male. E quando i serbatoi sono a secco, gli abitanti non hanno altra scelta che fare il pieno a Jbeil o a Beirut (a 112 chilometri da Halba, la capitale della regione), o ricorrere alle taniche vendute abusivamente.

Nell’Akkar non arrivano neanche più forniture di farmaci e generi alimentari. “Di recente alcuni abitanti hanno fermato un camion di latte per bambini. Hanno sequestrato tutto il carico e se lo sono spartito”, racconta un dipendente dell’ospedale pubblico Abdallah Racy di Halba, che ha accolto molti feriti dell’esplosione, ma poi ha dovuto trasferirli altrove perché non c’erano i mezzi per curarli. Anche se nella struttura manca il gasolio per i generatori che garantiscono l’elettricità e il funzionamento delle attrezzature mediche, nessuno vuole incolpare la gente del posto di aggravare l’isolamento del territorio. “Le persone hanno fame. Se mio figlio avesse bisogno di latte, forse anch’io dirotterei un camion”, dice un’infermiera denunciando che le autorità non fanno nulla per garantire il funzionamento dei servizi essenziali, come gli ospedali o i mulini, che non riescono più a produrre pane. “Da quattro giorni la mia auto è parcheggiata, con il serbatoio vuoto”, racconta un infermiere che ogni sera deve trovare un mezzo per tornare a casa. “Quando devo contattare un medico d’urgenza prego che non sia lontano o che abbia la benzina”, continua esasperato. Nella piccola stanza accanto all’ufficio degli infermieri il dottor Mahmud Abdel Razzak, unico medico del pronto soccorso, dice di essere rimasto bloccato tre giorni a casa perché aveva finito il carburante: “Non ero neppure raggiungibile perché non funzionavano né internet né il telefono”.

Vivaio dell’esercito

Già connesso male alla rete internet, l’Ak­kar è stato il primo governatorato in cui il gestore pubblico delle telecomunicazioni Ogero ha sospeso i servizi per mancanza di gasolio. “L’Akkar non esiste neppure sulla mappa del Libano. Quello che succede qui non è normale e non succede da nessun’altra parte. Non viene data importanza alla vita. Se ne fregano tutti di questa regione”, accusa una donna sfinita, con la figlia malata tra le braccia. Per giorni ha dovuto lottare per farla ricoverare in un ospedale. Un uomo sulla sessantina aspetta che il nipote esca dalla sala operatoria. “Sono arrivato spingendo la macchina. Al ritorno, in salita, sarà più complicato”, dice, prima di dare sfogo alla sua rabbia: “Sono tutti bugiardi. Alcuni nascondono il carburante, altri lo rivendono. Tutti quelli che non lavorano finiscono coinvolti nel contrabbando di sigarette, di olio per motori o di benzina”.

L’Akkar, che ha una superficie di 790 chilometri quadrati, confina a ovest con il mar Mediterraneo, a nord con la Siria e a est con la provincia di Hermel. Ha 400mila abitanti, di cui un terzo sono rifugiati siriani, arrivati in massa dopo il 2011 a causa del conflitto esploso nel loro paese. La regione è occupata per metà da terreni agricoli, e la sua pianura coltivata è la seconda del paese dopo quella della Beqaa. L’agricoltura è l’attività economica principale, ma è poco redditizia. Il settore è poco produttivo, e non ha beneficiato di alcun sostegno dello stato, per questo i prodotti locali faticano a fronteggiare la concorrenza di quelli importati a basso costo. Così gli abitanti sono costretti a dedicarsi ad altre attività per soddisfare i bisogni delle loro famiglie. Inoltre il 40 per cento della popolazione ha meno di 15 anni e le donne sono poco integrate nel mercato del lavoro, quindi il carico grava su meno persone che in media hanno più bocche da sfamare rispetto al resto del paese. Nella famiglia di Omar, le donne e i bambini dipendono dai due fratelli maggiori militari.

Operatori della protezione civile cercano di spegnere un incendio nella regione dell’Akkar, il 29 luglio 2021 - Hussein Malla, Ap/Lapresse
Operatori della protezione civile cercano di spegnere un incendio nella regione dell’Akkar, il 29 luglio 2021 (Hussein Malla, Ap/Lapresse)

L’Akkar è noto per essere il vivaio dell’esercito libanese e praticamente ogni famiglia ha un figlio sotto le armi, il che spiega perché tra le vittime dell’esplosione del 15 agosto ci sono molti soldati. La paga dei militari è la principale entrata delle famiglie ed è preziosa per l’economia locale. Ma con l’iperinflazione della lira libanese questi salari non valgono più niente. “Guadagno 1,1 milioni di lire” (67 euro al tasso di cambio del mercato nero, contro 867 del tasso ufficiale). “Se potessi lasciare l’esercito lo farei”, confessa il fratello di Omar. “Prima arruolarsi dava una sicurezza, una copertura sanitaria, un buon salario e soprattutto la sensazione di valere qualcosa in questo paese. Ora la situazione è terribile”.

Un mondo a parte

La vulnerabilità in cui sono precipitate molte famiglie di militari, fino a poco tempo fa risparmiate dalla precarietà, è un rischio per la sicurezza del paese, già molto fragile e minacciata anche dall’aumento del contrabbando. Tra gli abitanti dell’Ak­kar, abbandonati a se stessi e malvisti dai libanesi, prevale un forte sentimento di ingiustizia. “Dicono che l’Akkar è un mondo a parte, che appartiene alla Siria e non al Libano. Se solo fosse vero! In Siria almeno hanno l’elettricità, nonostante dieci anni di guerra. A volte dobbiamo andare in Siria per farci curare, perché qui non c’è niente. Non possiamo nemmeno estrarre l’acqua dai pozzi perché non c’è elettricità”, dice indignato Fawaz, che ha perso quattro familiari nell’esplosione. “A parte i soldati e le forze di sicurezza qui non lavora nessuno”, conferma Tony, 28 anni, che nonostante gli studi universitari lavora in un negozio di alimentari a Tleil. Samir al Alman, un leader locale che dirige una scuola per rifugiati, afferma categorico: “Tutto quello che è successo è dovuto al fatto che lo stato trascura l’Akkar. Nessun ospedale era attrezzato per curare le persone ustionate. Alcuni infermieri cospargevano le ferite con l’acqua”. L’Akkar ha solo cinque ospedali con pochissimi posti letto e sprovvisti di attrezzature adeguate e di specialisti. Per questo gli abitanti sono costretti ad andare a curarsi in altre regioni. La situazione è altrettanto critica per quanto riguarda le scuole, in gran parte pubbliche, mentre l’università, promessa da anni, non c’è ancora.

Come si spiega che gli abitanti di una provincia ricca di risorse naturali, soprattutto acqua, con una delle pianure più fertili del paese e con immense foreste ideali per molte attività, come il turismo ambientalista, sia così povera e isolata?

La storia della miseria dell’Akkar affonda le radici nella politica di sviluppo disuguale promossa dalle autorità, che ha sempre privilegiato Beirut e alcune aree del Monte Libano a scapito delle periferie, come il nord, la Beqaa e il sud. Ma mentre le altre due zone hanno ricevuto qualche attenzione e investimenti per migliorare le infrastrutture e i servizi, soprattutto dopo la guerra civile e la guerra del 2006, il nord rimane un territorio trascurato. “Lo stato pensava che finché la gente poteva arruolarsi l’Akkar avrebbe tirato a campare. I soldati hanno sempre mandato gran parte del loro salario nella regione. È qui che sta tutta l’ipocrisia dell’autorità centrale”, spiega Joseph Bahout, direttore dell’Issam Fares institute dell’università americana di Beirut.

Da sapere
Un nuovo governo

◆ Il 10 settembre 2021 è stato annunciato un nuovo governo in Libano, ma tredici mesi di trattative politiche hanno aggravato una crisi economica a causa della quale milioni di libanesi sono piombati nella povertà. Najib Mikati, l’uomo più ricco del Libano, è diventato primo ministro, un incarico che ha già ricoperto due volte. Tra i 24 ministri del nuovo esecutivo, metà cristiani e metà musulmani, c’è una sola donna. Il governo precedente si era dimesso in seguito all’esplosione del 4 agosto 2020, che ha devastato il porto di Beirut, causando più di duecento morti, settemila feriti e lasciando trecentomila persone senza casa.

L’Orient-Le Jour


Multiconfessionale e con una popolazione composta soprattutto da sunniti, greco-ortodossi e maroniti, con una minoranza alauita, l’Akkar è un territorio complesso, ancora soggetto a una dinamica feudale risalente all’impero ottomano. I fatti recenti dimostrano la persistenza di questi giochi di potere che dissanguano la popolazione.

Dopo la tragedia del 15 agosto gli abitanti hanno accusato i tre deputati della regione – Tarek el Merhebi, Walid Baarini e Assaad Dergham – di essere complici e addirittura artefici delle attività di contrabbando, un fenomeno diffuso nell’area, che ha spinto l’Akkar nel baratro. I tre deputati vengono da grandi famiglie feudali che da anni esercitano un forte controllo sulla regione, senza però portare nessun vantaggio concreto ai suoi abitanti in termini di sviluppo. El Merhebi e Baarini sono affiliati al Movimento il futuro dell’ex premier Saad Hariri, influente tra la popolazione a maggioranza sunnita: mentre Dergham fa parte del Movimento patriottico libero di Gebran Bassil. Tutti e tre fanno lavorare a pieno ritmo la macchina del clientelismo politico.

Il cambiamento necessario

“I nostri deputati ci hanno abbandonati. Non hanno mai riparato le strade, che sono nella stessa condizione da cinquant’anni. Non hanno lanciato un progetto pubblico per dare lavoro alle persone”, si arrabbia Ayache, un padre che fatica ad arrivare a fine mese. “Sono tutti bugiardi, indipendentemente dal partito. Prima delle elezioni vengono da noi per darci qualche dollaro, poi spariscono. La gente qui purtroppo si fa comprare, non per mancanza di dignità ma perché vive nella miseria”.

C’è inoltre un paradosso nella popolazione della regione, che da un lato si vanta di essere un esempio di convivenza e solidarietà interconfessionale, dall’altro ha sempre sostenuto i partiti confessionali. “Oggi Hariri ha un serbatoio senza paragoni di sunniti, che partecipano a tutte le proteste in suo favore. Qui le persone servono ad alimentare gli opposti schieramenti politici, nient’altro”, conferma Antoine Daher, presidente del Consiglio dell’ambiente di Qobeyat. Pur essendo consapevoli che i partiti non hanno mai migliorato la loro condizione, gli abitanti dell’Akkar faticano a liberarsi da questo giogo. “I politici giocano sulle emozioni della gente. Il sistema confessionale è responsabile dell’impoverimento dell’Ak­kar”, continua Daher, che è anche direttore sanitario dell’ospedale Notre-Dame de la Paix.

Eppure, le responsabilità non sono solo di una parte. Sono pochi i candidati della società civile che hanno osato presentarsi alle diverse tornate elettorali, e a ogni scrutinio la storia si ripete. “Finché continueremo a votare per questa gente, le cose rimarranno come sono. A un certo punto bisogna ribellarsi e sostituirli tutti”, sostiene Daher. Gli incendi che quest’estate hanno devastato l’Akkar e l’esplosione del 15 agosto potrebbero però fare da catalizzatori per un cambiamento da tempo atteso. La collera degli abitanti, che si è manifestata quando alcuni hanno saccheggiato e dato alle fiamme le abitazioni degli uomini forti dell’Akkar, potrebbe essere l’inizio di una rivolta più vasta. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1427 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati