Questa è la storia di un giudice che, nel momento in cui ha accettato d’indagare sulla doppia esplosione avvenuta il 4 agosto 2020 al porto di Beirut, in Libano, ha capito che stava per andare incontro a una tempesta. Quell’incidente, che ha causato almeno 218 morti, ha scosso il paese e le sue ramificazioni superano ampiamente i confini nazionali. Nel decrepito palazzo di giustizia della capitale, simbolo del lassismo e del fallimento del governo libanese, Tarek Bitar è rimasto l’unico a dedicarsi all’inchiesta.
“Negli Stati Uniti a un caso simile sarebbero state assegnate quattrocento persone”, dice una fonte vicina all’inchiesta. Invece il magistrato, che ha 48 anni, non è mai stato solo come oggi. Bitar, da molti considerato come un autentico giustiziere, vorrebbe condurre l’indagine fino alla fine, “per mostrare ai cittadini libanesi che il sistema giudiziario ha magistrati capaci di affrontare un caso come questo”, fanno sapere i suoi collaboratori.
Il bersaglio
Dietro il braccio di ferro che lo vede contrapposto alla classe politica libanese e a una parte della stessa magistratura si decide la partita per la costruzione di uno stato di diritto, indispensabile per il funzionamento di una vera democrazia, e per interrompere l’egemonia delle milizie nella vita pubblica del paese. Ma le acque in cui naviga il magistrato sono agitate e rischiano di farlo finire in mare.
Bitar è stato il bersaglio di un’aggressiva campagna di diffamazione condotta da numerosi politici, in particolare da quelli di Amal e Hezbollah, dopo aver avviato azioni penali contro ex ministri, deputati e funzionari degli apparati di sicurezza libanesi appartenenti proprio ai due partiti sciiti. Erano accusati di essere coinvolti nello stoccaggio del nitrato di ammonio che ha causato l’esplosione in un deposito del porto di Beirut. La campagna ha scatenato violente polemiche; ha portato anche alla diffusione di notizie false sui mezzi d’informazione e sui social network che hanno danneggiato la reputazione del magistrato, rinfacciandogli di aver politicizzato le indagini. Ci sono stati vari tentativi di togliergli l’inchiesta.
Anche se Bitar è famoso per la sua indipendenza e per la sua determinazione “alla Giovanni Falcone” contro i criminali, la sua sorte è riuscita a spaccare le piazze libanesi. Il 14 ottobre 2021 a Beirut una manifestazione contro il magistrato è degenerata in scontri armati nel quartiere di Tayouneh, che hanno causato sette morti e decine di feriti. Bitar guida l’indagine dal febbraio 2021, ma il suo nome era già stato proposto subito dopo il dramma del 4 agosto, quando le autorità del paese avevano deciso di sottoporre il caso alla corte di giustizia, un tribunale straordinario che si occupa dei crimini di stato. Lui figurava al secondo posto tra i giudici istruttori proposti al consiglio superiore della magistratura dall’allora ministra della giustizia Marie-Claude Najm. “Per sopportare questo pesante carico c’è bisogno di un magistrato competente, ma che sia al tempo stesso giovane e dinamico. E senza dubbio Bitar soddisfa tutte le condizioni di base: è indipendente e onesto”, aveva dichiarato Najm.
La tenacia di Bitar non piace alla classe politica libanese, che è poco abituata a difendersi dalle inchieste e continua a tendergli trappole
All’epoca, però, il magistrato aveva esitato. “Bitar non è nato ieri. Vedeva dei grossi nodi legali che rischiavano di bloccare il suo lavoro ed era consapevole che bisognava prima creare un quadro normativo che mettesse tutti su un piano di uguaglianza di fronte alla legge”, raccontano i collaboratori del giudice. Secondo loro, il magistrato aveva chiarito che prima di far partire l’indagine bisognava abolire l’immunità per i funzionari pubblici e creare una commissione speciale. Ma le autorità si sono opposte a tutte le sue richieste, e questo l’ha frenato.
L’istruttoria alla fine è stata affidata al suo collega Fadi Sawan, che ha subìto presto l’accanimento politico di chi voleva seppellire l’inchiesta. Dopo sei mesi, Sawan è stato sfiduciato dalla corte di cassazione in seguito a un ricorso per “legittimo sospetto” depositato da Ali Hassan Khalil e Ghazi Zeaiter, due deputati ed ex ministri del partito Amal, che sarebbero poi finiti nel mirino di Bitar insieme ad altri alti funzionari libanesi.
Dopo l’allontanamento di Sawan doveva essere scelto un nuovo magistrato ma, vista la piega presa dal caso, i candidati rimasti erano pochi ed erano ancora meno i nomi che mettevano d’accordo il consiglio superiore della magistratura e la ministra della giustizia. Così il nome di Bitar è tornato in primo piano. “Per certi versi lui è un figlioccio del consiglio superiore della magistratura, perché è molto rispettato e apprezzato dall’istituzione”, spiega una fonte. “Il fatto che il fascicolo fosse andato nelle mani di un altro per poi tornare a lui era un segno del destino. Questa volta non poteva più rifiutare. È diventata la sua missione”.
“È chiaro che sapeva in cosa si stava imbarcando. Non sarebbe stata una passeggiata nel bosco, ma una tempesta e un mare burrascoso”, testimonia un avvocato che ha avuto più volte a che fare con il giudice. “È un tipo molto determinato. Quando crede nella sua missione niente può fermarlo. E se per impedirgli di fare il suo lavoro si usano tattiche scorrette, la sua determinazione è ancora più forte”.
Questa tenacia non piace alla classe politica libanese, poco abituata a difendersi dalle inchieste, che infatti continua a tendergli delle trappole. Da quando è subentrato al suo predecessore, Bitar non conosce la tranquillità. È stato rimosso temporaneamente dal caso varie volte dopo ricorsi presentati dai funzionari incriminati, e le sue richieste di autorizzazione per rinviare a giudizio i dirigenti della sicurezza, indirizzate al ministro competente, sono state in gran parte respinte (il 23 gennaio Bitar, dopo tredici mesi di stallo, è riuscito a far riaprire le indagini mettendo sotto accusa otto persone, tra cui il procuratore generale Ghassan Oweidat. In risposta Oweidat l’ha a sua volta incriminato per “usurpazione di potere” e “ribellione contro la giustizia” e ha ottenuto il rilascio delle diciassette persone già in carcere per l’inchiesta).
Contro i favoritismi
Secondo i dirigenti di Hezbollah e di Amal, l’indagine di Bitar è “politicizzata” e rivolta solo contro i partiti sciiti libanesi, seguendo un’agenda dettata dagli Stati Uniti. Le accuse tuttavia sono totalmente in contrasto con la reputazione di un uomo che odia i favoritismi e la collusione tra i giudici e il mondo politico libanese.
Originario del distretto di Akkar, nel nord del paese, Tarek Bitar è il settimo di otto figli. Non ha mai mostrato un grande interesse per la politica. “Ha scelto di servire il suo paese impegnandosi nella giustizia. Il Libano è la sua unica ideologia”, sostengono i suoi collaboratori.
Laureato in giurisprudenza nella capitale presso l’Université libanaise, ha cominciato la sua carriera nel governatorato del Libano settentrionale, ricoprendo incarichi di prestigio nonostante la giovane età. All’inizio ha fatto il giudice a Tripoli, poi nel 2010 è stato nominato procuratore d’appello per il governatorato. Nel 2017, a 41 anni, è diventato il capo della sessione penale del tribunale di Beirut e ha cominciato a occuparsi di casi di terrorismo, omicidio, stupro, crimini finanziari e traffico di droga, alcuni dei quali hanno avuto una vasta eco su giornali e tv. Per esempio ha condannato a morte Tarek Yatim, che aveva accoltellato un uomo in pieno giorno per strada, sotto gli occhi della moglie, dopo un litigio nel quartiere di Gemmayzeh. Uno dei fascicoli più recenti su cui ha lavorato è stato il caso di Ella Tannous, che ha sollevato grande clamore in Libano: nel 2020 il giudice ha condannato due ospedali privati e due medici a risarcire la famiglia di una bambina che per un errore dei sanitari ha dovuto subire l’amputazione di braccia e gambe. Con il suo verdetto Bitar si è inimicato la categoria dei medici, che ha proclamato uno sciopero.
Il magistrato ha già subìto anche diverse minacce. Nel luglio 2020 una persona ha tentato di piazzare delle bombe all’interno del suo ufficio prima di essere fermata dalle forze di sicurezza. “L’uomo arrestato era un disgraziato, ma non abbiamo mai saputo se fosse agli ordini di qualcuno. All’epoca il giudice stava avviando un giro di vite contro i trafficanti di droga”, riferisce una persona a lui vicina.
Bitar, sposato e padre di due figli, lavora senza sosta. La sera rientra a casa molto tardi e non prende mai ferie. “Aveva bisogno di soldi, eppure non ha mai accettato le cattedre all’università che gli sono state offerte. Per lui quello era tempo in meno da dedicare alla giustizia, era fuori discussione”, racconta una sua amica.
Fieramente indipendente, Bitar è molto temuto dai politici. “I funzionari pubblici non gli telefonano mai. Non hanno il coraggio di farlo. E lui rifiuta tutti gli inviti. Odia la mondanità. La sua cerchia di amici è ristretta”, dice una persona che lo conosce bene. Il giudice ha eretto un muro invalicabile per proteggere il suo lavoro dalle interferenze politiche, spiega.
Acque agitate
Da quando ha assunto la guida del caso della doppia esplosione al porto di Beirut, il lavoro di Bitar non ha fatto che crescere. Vede i figli ancora meno di prima, mentre le pressioni da ogni parte aumentano.
Tuttavia è riuscito a mantenere un volto umano e una sensibilità che ha colpito sia le famiglie delle vittime dell’esplosione sia i parenti degli imputati, che ha spesso ricevuto nel suo ufficio, contrariamente al suo predecessore. Mounia Fawaz, moglie di Charbel Fawaz, una delle persone incarcerate nei primi mesi dell’inchiesta e poi liberate, lo considera una persona di gran cuore. “All’inizio non avevamo informazioni su Charbel. Ma quando è stato nominato Bitar è cambiato tutto. Abbiamo cominciato a vedere un po’ di luce”, afferma Fawaz. “Che Dio lo protegga. Occuparsi di un caso simile in questo paese dev’essere terrificante”.
Il magistrato e la sua famiglia, che vivono nella zona nord di Beirut, sono sotto la protezione dell’esercito. La scorta che lo accompagna spaventa un po’ i suoi figli. Lui, invece, non sembra affatto intimidito. “Spera di poter condurre l’inchiesta fino in fondo. Ma se le pressioni esterne avranno la meglio, almeno lui ha la coscienza tranquilla, perché il suo successore avrà tra le mani un fascicolo confezionato molto bene, e soprattutto quasi concluso”, dice una persona vicina al magistrato. Che aggiunge: “Dopotutto, non è il destino della persona che conta, ma il successo dell’inchiesta”. ◆ fdl
◆ 1974 Nasce nel distretto di Akkar, nel nord del Libano.
◆ 1999 Si laurea in giurisprudenza a Beirut.
◆ febbraio 2021 Gli viene assegnata l’indagine sulla doppia esplosione al porto di Beirut, avvenuta il 4 agosto 2020.◆ gennaio 2023 Dopo tredici mesi di stallo, riprende in mano l’inchiesta sull’esplosione e mette sotto accusa otto persone, tra cui il procuratore generale Ghassan Oweidat. Il procuratore denuncia Bitar per “usurpazione di potere” e “ribellione contro la giustizia”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1498 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati