Una volta il suo circondario era malconcio. Il palazzo sembrava una catapecchia, e lui stesso un guazzabuglio di cianfrusaglie affastellate in una soffitta in cui nessuno metteva piede da chissà quanto. Su entrambi i lati dell’ingresso l’intonaco cadeva a pezzi.

Ora la strada è tirata a lucido, la facciata è stata ridipinta e lui pulito a fondo. Tutti gli oggetti sono stati suddivisi per categorie, raggruppati e spolverati.

Le vecchie palline natalizie hanno cambiato di posto: dal ripiano in mezzo a quello più in basso. Diciotto mesi fa erano diciassette, di cui dodici rosse, due dorate, due argentate e una celeste. Sono ancora lì, in un cestino di vimini quadrato. Non ne manca nessuna.

I dodici berretti da donna usati – è come se fossero stati appena sfilati dal capo di signore che hanno superato gli ottant’anni – di feltro, di pelliccia, di lana, in colori che variano dal bianco al marrone scuro, sono migrati dal ripiano centrale in fondo a quello vicino alla finestra. Anche se sono in bella mostra e se certi giorni il sole li disinfetta a lungo con i suoi raggi, finora nessun berretto ha trovato una nuova testa.

Cinque vetuste spazzole per abiti, con impugnatura in legno scurito e setole nere e rigide, sono state dislocate da una parete all’altra. Si fanno ancora compagnia. A una è attaccato, come già due anni fa, un filamento argentato, forse un capello.

Le innumerevoli cornici vuote restano innumerevoli, solo che ora sono state strappate al caos e disposte in buon ordine, in base alla grandezza, sulle semplici mensole di legno grezzo, come tutto il resto in questo posto.

Sei mesi fa la tristezza che pervade l’ambiente era disturbata da una bianca statuetta di gesso raffigurante una coppia che si baciava. Una donna e un uomo seminudi, lei aveva i capelli lunghi, mentre lui, invece di cingerla con entrambe le braccia, teneva la mano sinistra sul proprio fianco. Può darsi che l’artista desiderasse mettere in rilievo i suoi tricipite, bicipite e pettorale magnificamente scolpiti. La statuetta di gesso, l’unica che portava un po’ di gioia qui, non c’è più.

Sfortunatamente, ora nient’altro che possa guastare la malinconia generale attira la mia attenzione. Le cose che si sottraggono al suo dominio sono destinate a una breve permanenza. Ogni oggetto un po’ più allegro lascia questo locale in fretta.

Il negozio di rigattiere dei morti si trova a Budapest, al numero 10 di via Döbrentei, ed è aperto tutti i giorni, anche la domenica.

Il suo nome contiene la scritta “mercato delle pulci”. Il cliente si aspetta di trovare delle anticaglie, non oggetti lasciati dai defunti. Cerchiamo di occultare la verità perché è più facile dire e pensare “ho comparato un pezzo antico” o “un vecchio gingillo”, piuttosto che “ho comprato una prova della morte”. Forse si tratta solo di salvaguardare il buonumore, o forse c’è in gioco qualcosa di più: la nostra attività fissa preferita, che a ben pensarci riguarda il fondamento stesso dell’esistenza umana, quella di scacciare il pensiero del “non c’è”.

Eppure ogni cosa, se è vecchia, deve essere appartenuta a qualcuno che ha cessato di vivere. Non ci sono altre possibilità e nessuna parola può alterare questa verità. Prima che esploda la bomba a tempo, l’oggetto riempie lo spazio vitale di qualcuno e, una volta compiuta la sua missione, se è fortunato finisce nelle mani di qualcun altro, se è meno fortunato finisce qui. Se la fortuna non l’assiste proprio, in un bidone dell’immondizia. Di una bomba a tempo parla Iosif Brodskij nel saggio Una stanza e mezzo, dedicato ai suoi genitori. I loro corpi e vestiti, il telefono, la chiave, i mobili sono scomparsi e non saranno mai ritrovati. Come se una bomba fosse caduta sulla loro stanza e mezzo (la porzione dell’appartamento che occupavano). Non una bomba al neutrone, che almeno lascia intatti i mobili, ma una bomba che annienta anche la memoria. “Il palazzo è ancora in piedi, ma il posto è svuotato, ripulito, e nuovi inquilini, no, truppe, si fanno sotto per occuparlo”. E allora m’immagino che in questa parte della città, dal lato di Buda, a ridosso del Danubio, sia stato radunato ciò che è sopravvissuto allo scoppio di una bomba a tempo.

Perciò insisto: questo negozio ha il compito di raccogliere prove della morte, e lo svolge in modo egregio.

Il più delle volte è il titolare stesso, Zsolt Rédei, a fare visita alle case delle persone decedute. I familiari gli chiedono di scegliere le cose che gli piacciono di più.

Una sera del 2004 faceva una passeggiata nel quartiere di Montmartre, a Parigi. D’un tratto scorse un palazzo con un portone aperto e con dietro una scala a chiocciola. Sulle pareti interne erano appesi alcuni piccoli quadri, piatti e cose la cui finalità, al buio, non riuscì a capire. S’inerpicò sui gradini fino a una stanza stipata di mobili e oggetti di vari periodi, che spaziavano dagli anni venti ai sessanta del ventesimo secolo (era un mediatore immobiliare, quindi s’intendeva di stili). In quella stanza c’erano tre anziani gentiluomini seduti intorno a un tavolo. Sorseggiavano vino.

Erano circondati da un’accozzaglia di vecchi armadi, sedie, vetrinette… pieni zeppi di bicchieri, porcellane, tovaglie… Pensò di essere entrato in una casa privata, perciò si scusò, ma i signori gli dissero che era un negozio. Uno di loro, un medico in pensione, aveva ereditato quel monolocale dalla nonna. Si era messo in società con i suoi amici pensionati, avevano aperto quel posto e ci trascorrevano la maggior parte del proprio tempo. Offrirono all’ungherese un bicchiere di vino rosso, e lui comprò un oggetto da cinque euro. Ma uscì da lì anche con qualcosa di più prezioso: la decisione di abbandonare dopo quindici anni il lavoro nel settore immobiliare e di aprire un negozio simile nel suo paese.

Zsolt Rédei ha una regola: gli oggetti costano uno, due, cinque o dieci euro.

Davanti all’entrata c’è una vecchia bicicletta. Al portapacchi è attaccata una testa di manichino con pince-nez e cappello, mentre al manubrio è appesa una valigia di pelle consunta con un adesivo della Malév, la compagnia aerea ungherese, anche lei uccisa da una bomba a tempo: è fallita dopo ben sessantasei anni di attività.

Sul pavimento all’entrata riposa sempre il grosso cane nero che si chiama Maci, bisogna scavalcarlo.

È il mio negozio preferito a Budapest, forse addirittura nel mondo. Ci passo due volte all’anno. E quando torno da lì in albergo oppure, come oggi, all’appartamento che ho affittato in piazza Ferenciek 4/17, mi lavo accuratamente le mani. Non che siano proprio sporche, è piuttosto una questione psicologica. Ora che sto scrivendo di questo posto, ho già usato il lavandino due volte. È l’argomento stesso a provocarlo: ho la sensazione fisica che le mie mani siano rivestite da una sottile, sebbene invisibile, pellicola di polvere.

Guido Scarabottolo

Ma ciò non m’impedisce di provare simpatia per questo negozio.

Così due volte all’anno compro degli oggetti appartenuti ai morti. Non sono il solo, ce ne sono anche altre, di persone, a cui piace passare del tempo in questo posto e curiosare. Non vogliamo comprare le cose online. Vogliamo adocchiare l’oggetto, toccarlo e innamorarcene a prima vista.

Ma è poi vero che un quadretto in una vecchia cornice dorata che si trova sulla nostra scrivania ha un valore diverso se ci ricordiamo che apparteneva a qualcuno che è morto, rispetto a quando facciamo finta che non sia appartenuto a nessuno? Sì.

Nel primo caso instauriamo un rapporto metafisico con il proprietario precedente. Anche lui teneva questo quadretto in mano, anche lui passava un panno sul suo vetro. Lo spostava di qualche centimetro in qua o in là sul ripiano della scrivania. Il solo pensiero che qualcuno provasse gioia per la sua presenza e che magari sarebbe contento di sapere che qualcun altro continua a provarla, mi mette allegria e aggiunge un nuovo piccolo significato alla mia vita. In quegli istanti spero di rappresentare una tappa piacevole nell’esistenza dell’oggetto.

Mi sono convinto che la consapevolezza della morte del precedente proprietario non possa che aiutarci a dare le giuste proporzioni alla nostra vita. Una volta preso atto di non essere immortale, vivo in modo diverso.

(Mi ha appena scritto Hanna Krall per raccomandarmi di stare attento a non formulare perle di saggezza con troppa disinvoltura ma, se proprio devo, di farlo con esitazione e incertezza, con punto di doman­da e l’aria pensierosa, come chiedendo un consiglio).

Una volta preso atto di non essere immortale, vivo in modo diverso?

La nostra morte porta sollievo agli oggetti, mi è passato per la mente.

La nostra morte porta sollievo agli oggetti?

(Non so cosa sia meglio).

In uno dei Racconti su qualsiasi cosa di Věra Linhartová, la moglie di un mimo che si esercita in casa decide di rimettere in ordine il loro appartamento ingombro di roba in modo che suo marito non vada a sbattere contro le cose che gli intralciano i movimenti. “Cosa faremmo se dovessimo andarcene da qui?”, si chiede, e comincia a dare via i vecchi vestiti e a bruciare i libri, le fotografie e le lettere.

“Gli oggetti rimossi tornavano tuttavia attraverso il dolore per la loro perdita che la affliggeva, e poiché non si raccapezzava più tra le cose di cui si era sbarazzata e quelle rimaste, l’appartamento si riempì di tutti gli oggetti che ci erano mai stati dentro, e la loro costante presenza era perfino più opprimente di prima”.

Non possiamo che darle ragione: gli oggetti che si trovano in via Döbrentei non hanno gravami, non tornano più a nessuno attraverso il dolore.

Ma ne siamo sicuri? E se uno dei proprietari avesse rinunciato al proprio oggetto per guadagno?

Per intascare due o tre euro? Ma no.

Allora i loro proprietari devono essere proprio morti.

Come si può vedere, le cose raccolte nel negozio di rigattiere dei morti hanno una storia poco trasparente. Per il cliente è una macchia bianca. Forse ciò che sto per dire è un crimine semantico, però mi è venuto in mente che ciascuno di questi oggetti è “la cosa in sé”, vale a dire il noumeno kantiano. La cosa in sé, secondo Kant, è inconoscibile e si trova fuori dell’esperienza. È trascendentale, non sappiamo e non possiamo sapere niente sul suo conto, perché ci mancano gli strumenti. “Una cosa in sé” non può quindi diventare “una cosa per noi”.

Ciò che per Kant è trascendentale, dal rigattiere dei morti lo possiamo attribuire a oggetti fisici concreti. Le cose, come missive dal passato spedite da mittenti sconosciuti con i quali non parleremo mai, non ci offrono altro che se stesse.

Il negozio di rigattiere dei morti si trova a Budapest, al numero 10 di via Döbrentei, ed è aperto tutti i giorni, anche la domenica

Non è meglio così?

Forse solo in questo modo possono essere (sono) un messaggio puro. Pronto da interpretare come una poesia. Non serve conoscere il poeta per poter interpretare i suoi versi.

Cassetti con fotografie private. Migliaia di foto rimaste senza casa, date via in blocco. La vita raffigurata in queste immagini non abbellisce l’esistenza di nessuno. Non rallegra i discendenti delle persone che sono ritratte.

Chi è che compra fotografie che provengono dalla vita altrui? I titolari delle gallerie d’arte mi hanno detto che i ritratti fotografici sono i più difficili da vendere. Bisogna avere una grande apertura emotiva per introdurre una faccia estranea nel proprio appartamento, soprattutto se è inquadrata in primo piano. Dobbiamo tenere presente che le foto di una scrittrice amata o del nostro attore preferito ritraggono comunque persone che conosciamo e ammiriamo, e quindi le sentiamo vicine, fanno parte della famiglia. Ma un volto sconosciuto? Nel nostro ambiente più intimo? Be’, difficile che trovi tanti acquirenti. Chi è che vorrebbe diventare proprietario di un album contenente 49 foto matrimoniali scattate all’inizio degli anni cinquanta a una coppia di sposi che non ha mai visto in vita sua?

Zsolt me l’ha spiegato. “Prova a immaginare i giovani dell’Europa occidentale o degli Stati Uniti che entrano nel mio negozio. Sono nati fuori dalla realtà comunista, non sanno niente della vita nei nostri paesi. Quindi comprano queste foto considerandole dei reperti storici della vecchia Europa dell’est. Sono attratti da ogni singolo dettaglio. Inutile negare che quel che porto via in numero maggiore dalle case dei defunti sono proprio le fotografie”.

Due volte all’anno compro regali per i miei amici nel negozio di rigattiere dei morti. Consegno questi oggetti in adozione. Dico che porto delle cose dalla vita di qualcuno anche se, per essere preciso, dovrei dire che le porto dalla sua non-vita.

Anch’io ho preso in adozione un quadretto da lì. Ha una sottile cornice di legno color oro ramato.

È stato un colpo di fulmine.

Un giovane uomo dai capelli scuri con una riga perfettamente cesellata.

Lo vediamo di profilo. Ha gli zigomi sporgenti e le sopracciglia ben delineate. Indossa una giacca e una camicia bianca. È probabile che sia inginocchiato (non possiamo saperlo, è ripreso solo dalla vita in su) davanti a una figura di Gesù sulla croce. Ma nemmeno di questo possiamo essere sicuri, dal momento che di Gesù si vedono solo i piedi sovrapposti e le gambe fino alla metà delle cosce. L’uomo sta baciando il piede sinistro, e con le mani tocca la croce.

Alle sue spalle ci sono alcune candele accese. La loro luce soffusa si dissolve su uno sfondo indefinito color seppia. Il quadretto, a giudicare dalla firma, risale al 1933, un anno a cui sono affezionato, perché è quello della nascita di mio padre. Questo ritratto è stato stampato dalla Congregazione di Sant’Antonio di Paterson, nel New Jersey. I frati avevano una propria tipografia, a quanto pare la più grande degli Stati Uniti all’epoca. Si stima che abbiano stampato milioni d’immagini simili, per invogliare i giovani uomini a intraprendere la via del sacerdozio.

Il modello che posava per queste raffigurazioni si chiamava Thomas F. Lynch.

Sotto il disegno c’è una didascalia: May thy way be my way. Possa la tua via essere la mia via.

Però le gambe di Gesù sembrano quelle di una donna. Sono lisce e paffute. I piedi non sono trafitti da un chiodo.

Neanche il bacio si può dire ingenuo: è visibilmente passionale.

Possibile che l’autore non sia stato capace di disegnare un paio di gambe maschili in un modo più realistico? Con un’ossatura più marcata?

E se fosse un messaggio occulto?

Gesù può sostituirti la donna? Gesù sarà per te ogni cosa? Perfino la tua sposa?

Ho trovato in rete un altro disegno, nel quale lo stesso modello solleva la testa e guarda negli occhi un Gesù nudo. Non è uno sguardo ordinario, fin qui nulla di strano, chi è che guarderebbe Gesù in modo ordinario. Ma negli occhi di Thomas F. Lynch, che incarna l’immagine di un cattolico esemplare, c’è qualcosa d’inquietante. Il ragazzo fissa Gesù con uno sguardo carico di desiderio.

L’autore dei quadretti si chiama Charles Bosseron Chambers (1882-1964) ed è chiamato “il Norman Rockwell dei cattolici”. Norman Rockwell era un gigante del disegno americano. Come risaputo, arruolare un talento al servizio di un’ideologia ha conseguenze fatali per il talento, e in effetti i lavori di Chambers sono zuccherosi, di maniera, mostrano tutt’al più una buona tecnica. I critici non gli risparmiavano giudizi feroci. Forse è per questo che Chambers, ben consapevole che la sdolcinatezza era una caratteristica inespugnabile, aveva pensato d’inoculare nei propri disegni almeno un pizzico di erotismo. La nutrita schiera di attivisti cattolici statunitensi (la mentalità nordamericana è piuttosto banale, non è stato Andy Warhol a dirlo?) aveva accolto le sue visioni senza battere ciglio.

Thomas F. Lynch, che faceva da modello a Chambers, era nato in una famiglia irlandese di undici figli, di cui solo sei erano sopravvissuti. Thomas diventò medico, non si fece prete. Mentre due dei suoi fratelli sì. Il terzo entrò in seminario, ma lo lasciò quasi subito, ritenendo di non essere abbastanza bravo come oratore. Il quarto fratello, il maggiore, era un fabbro qualificato, lavorava al restauro della Statua della libertà, e inoltre fabbricava lame di alabarde per le produzioni di Hollywood. Anche Thomas ebbe molti figli: due femmine e cinque maschi. Uno di loro, Greg, ricorda il padre come un uomo onesto e di bell’aspetto, sempre in giacca e cravatta, costantemente pronto a prestare aiuto ai bisognosi. A Greg c’erano voluti al massimo cinque minuti per scartare il pensiero d’indossare la sottana. Sognava di fare il poliziotto. La sfortuna volle che nel 1971 fosse coinvolto in un incidente motociclistico, in seguito al quale perse la gamba sinistra e il sogno di entrare in polizia. Diventò un famoso specialista di arti artificiali. Sua moglie, Michelle, aveva frequentato un liceo cattolico. Accanto alla segreteria della sua scuola era appesa la riproduzione di un quadro di Chambers per il quale aveva posato Thomas F. Lynch. “Ci sono passata centinaia di volte, non potevo immaginare che un giorno avrei sposato il figlio del modello”, ha raccontato. I figli di Greg…

Potrei, ah se potrei!, andare avanti con la storia della famiglia Lynch.

(Quando taccio, mi sembra di non esistere).

L’altro ieri ho messo il quadretto con Thomas F. Lynch intento a baciare i piedi femminili di Gesù sulla mia scrivania temporanea di Budapest. Ed ecco che mi sono sentito subito bene, come a casa. Non ho bisogno della mia foto preferita, che peraltro non mi sono portato dietro da Varsavia. Non mi serve nemmeno la mia scrivania. L’oggetto adottato è capace di colmare il mio “non c’è” temporaneo.

“E invece le lettere o le cartoline postali? Interessano a qualcuno?”, ho chiesto a Zsolt.

“C’è una categoria di persone, piuttosto numerosa”, ha risposto, “che trova piacere nella lettura di vecchi carteggi privati. Non è forse interessante scoprire, per esempio, che a metà del novecento un avvocato di campagna faceva il filo a una fanciulla che studiava legge a Budapest?”.

Messaggi spediti una volta. E una volta o, nel migliore dei casi, due o tre volte letti da qualcuno.

Tra le lettere e le cartoline illustrate esisteva una forma intermedia: quella delle cartoline postali. Le cartoline illustrate avevano su un lato una fotografia (di un paesaggio, un castello, una piazza eccetera), invece quelle postali erano destinate a corrispondenze epistolari aperte, ed erano senza immagini. Ho una teoria, cioè che le cartoline postali venivano usate da chi non aveva voglia di scrivere una lettera, che richiede una comunicazione più lunga, ma non volevano nemmeno spedire una cartolina illustrata, che è associata a semplici saluti, e ha un che di futile. Il formato consentiva di mantenere la stringatezza, anzi la giustificava (“ho finito lo spazio”), e allo stesso tempo il mittente non doveva rinunciare alla serietà che viene invece tolta da una illustrazione.

Peraltro non bisogna dimenticare che i francobolli per una cartolina costavano meno di quelli per una lettera.

Nel negozio di via Döbrentei le cartoline postali sono finite in un paniere per uova. La più vecchia che ho notato risaliva al 1923, la più giovane era del 1992. Un giorno ho deciso che ne avrei portata via una per sempre. È probabile che io sia stato colto da ciò che Marek Bieńczyk, scrivendo di Baudelaire, ha definito “la maniacale necessità di un’idea”. Così ho agguantato il grande e sottile manico del paniere, mi sono drizzato, ho riempito e svuotato i polmoni, perché quel giorno c’erano trenta gradi all’ombra, e ho pescato!

Una cartolina postale abbandonata per sempre sia dal mittente sia dal destinatario.

Era stata spedita da Dunakeszi, nei pressi di Budapest, il 12 dicembre 1965 all’indirizzo di un certo Zsolt Domboy e firmata da János H.

Cari Ildi e Zsolt,

da ormai due settimane sono alle prese con l’influenza. Un giorno mi sono sentito quasi bene, ma per lo più sto malissimo. Penso che il diavolo sia già lì che aspetta la mia pelle (non mi dispiacerebbe lasciargliela). Speravo di sentimi meglio oggi, almeno quel tanto da poter fare un po’ di teatrino. Però la sera sono peggiorato al punto da non essere in grado di uscire né di ricominciare niente. Ciò che più mi preoccupa è che sono terribilmente debilitato, e se questo malessere mi tormenterà per un’altra settimana, allora potrei non liberarmene mai. Vi chiedo scusa di non essermi occupato di ogni cosa. Solo adesso mi torna tutto in mente e cerco di mettermi in pari con il lavoro. Ho scritto a Koczag e, pensate un po’, ha risposto augurandomi buon Natale. Mi farò vivo appena starò meglio. Baci a tutt’e due, János

E così con questo libro abbiamo salvato una cartolina postale, e forse qualcosa di più. ◆ mb

Mariusz Szczygieł è uno scrittore polacco. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Quello che non c’è, tradotto da Marzena Borejczuk (Nottetempo 2021). Questo racconto è un estratto del libro.

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Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati