L’economia europea sta andando bene: i dati sulla crescita del secondo trimestre sono stati buoni in quasi tutti i paesi dell’Unione europea e i numeri sui contagi suggeriscono che l’alto tasso di vaccinazione contro il covid-19 rende possibile la ripresa.
È una buona notizia ma non è sorprendente. In questa fase della pandemia, la crescita è determinata dalle dinamiche generali degli shock macroeconomici e dalle politiche di bilancio e monetarie. Dopo la brusca flessione, un forte rialzo era prevedibile. Quello che succederà ora, però, dipende dalla qualità delle politiche economiche e soprattutto dei piani nazionali di ripresa e resilienza che i vari paesi hanno messo a punto, finanziati da un prestito senza precedenti dell’Unione europea. Per una serie di motivi è molto difficile giudicare questi piani. Innanzitutto perché è troppo presto: alcuni piani non sono stati nemmeno approvati. C’è poi il fatto che sono troppo lunghi, dettagliati e tecnici per chiunque avesse la curiosità di leggerne uno per intero. Figuriamoci leggerne 27. Peccato per i funzionari dei ministeri delle finanze che hanno dovuto scriverli, per i burocrati europei che hanno dovuto controllarli e per gli analisti finanziari pagati per leggerli in modo che i loro clienti non debbano farlo.
Crescita del 6 per cento
Quindi è sorprendente che i piani siano stati accolti finora piuttosto bene dagli osservatori indipendenti. La ragione principale è che prevedono importanti investimenti nei settori giusti, come quello delle infrastrutture materiali e digitali, indispensabili a economie sempre più connesse e in via di decarbonizzazione. Un’altra ragione è che la Commissione europea obbliga gli stati a raggiungere degli obiettivi per poter accedere ai finanziamenti a fondo perduto. Infine, i piani prevedono riforme strutturali da tempo caldeggiate e per le quali la Commissione è ora in grado di esercitare maggiori pressioni.
Tra i vari piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr) dei paesi europei, ce n’è uno più importante di tutti: quello dell’Italia. La questione decisiva per il futuro dell’Unione europea è se l’Italia riuscirà a sfruttare la ripresa dopo la pandemia per uscire da vent’anni di stagnazione economica. Da questo si capirà se il mercato unico sarà considerato efficace da tutti i paesi europei. Dalla riuscita del piano italiano dipenderà anche l’atteggiamento nei confronti dell’euro, se e quando si ripresenteranno i dubbi esistenziali sulla moneta unica, che ora sono temporaneamente dissipati. Ma soprattutto, quello che l’Italia farà del Fondo per la ripresa economica è decisivo per determinare se il fondo stesso sarà un successo, e per capire se sarà confermata la prospettiva di un’Unione europea rafforzata sul piano dei prestiti e delle spese comunitarie.
Vale quindi la pena di prestare attenzione al nuovo rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sull’Italia. La valutazione complessiva che fa l’Ocse del piano italiano è molto ottimistica. Gli investimenti promessi e le riforme strutturali – che puntano a sanare le debolezze nella pubblica amministrazione e nella concorrenza – potrebbero far crescere l’economia del 6 per cento entro il 2030.
L’investimento previsto è notevole. Quando il piano è stato reso pubblico, Jack Allen-Reynolds dell’istituto di ricerca britannico Capital Economics ha notato che, in proporzione, il piano di ripresa e resilienza dell’Italia è più grande dell’American jobs plan del presidente statunitense Joe Biden (entrambi hanno al loro centro investimenti simili in materia digitale e ambientale) e verrebbe speso in un periodo un po’ più breve, con un maggiore spinta economica.
È un cambiamento significativo. L’Ocse sottolinea che di solito l’Italia investe meno della maggior parte degli altri paesi dell’Unione europea. E sottolinea quanto sia importante investire. Mentre la crescita della produttività italiana è stata per molto tempo tra le più basse del continente, la crescita della produttività dell’industria manifatturiera aveva raggiunto la media Ocse negli anni precedenti alla pandemia: non a caso quello manifatturiero è stato un settore in cui gli investimenti si sono mantenuti alti, soprattutto nel campo della proprietà intellettuale. Nel settore dei servizi, invece, gli investimenti sono diminuiti e di conseguenza è diminuito anche il tasso di produttività.

Come ricorda l’Ocse, i punti deboli dell’economia italiana sono noti e semplici da individuare (e non hanno nulla a che fare con l’euro): la burocrazia è inefficiente, i processi e le controversie sui fallimenti sono lenti e costosi, gli investimenti sono scarsi, la forza lavoro è poco qualificata, la digitalizzazione insufficiente, c’è una scarsa disponibilità delle banche a garantire liquidità e le tasse sul lavoro sono troppo alte.
La posta in gioco
Tutto questo può essere risolto: le sfide sono perfettamente superabili. Basterebbe correggere i punti elencati e la ricompensa, in termini economici, potrebbe essere grande. Quello che si è sempre messo in mezzo è la politica. Ma l’Italia ora ha un governo che sa cosa fare e sembra determinato a farlo. Inoltre ha ampie risorse finanziarie per spianare la strada alle riforme. Infine ha Mario Draghi, un presidente del consiglio che ha un sostegno molto ampio. Questo significa che la possibilità di una nuova crescita italiana è a portata di mano e che l’Italia ora è più vicina che mai a realizzarla. Una possibilità non è una garanzia, ovvio, e l’opportunità non durerà a lungo. Se sarà colta, l’Italia potrebbe recuperare gran parte degli ultimi due decenni di stagnazione. Se sarà sprecata, potrebbe lasciarsi sfuggire l’ultima occasione per scrollarsi di dosso un declino permanente. Sia per l’Italia sia per Europa, la posta in gioco non potrebbe essere più alta. ◆ nv
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Questo articolo è uscito sul numero 1427 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati