Dopo mezzo secolo di guerra alle droghe, gli statunitensi sembrano pronti a chiedere la pace. Le elezioni del 2020 hanno fornito molte prove del fatto che gli elettori hanno superato i politici nel riconoscere sia i fallimenti di quella guerra sia le potenzialità di alcune droghe illecite come potenti strumenti terapeutici.
I referendum che si sono tenuti in cinque stati – quattro dei quali tradizionalmente repubblicani – hanno legalizzato una qualche forma di consumo della cannabis. L’Oregon ha approvato con margini inequivocabili due importanti iniziative di riforma: il 59 per cento degli elettori ha votato a favore della misura 110, che depenalizzava il possesso di piccole quantità di tutte le droghe, anche quelle pesanti come l’eroina e la cocaina. Una seconda proposta, la misura 109, ha legalizzato la terapia con psilocibina, chiedendo al dipartimento della salute dello stato di dare le licenze ai coltivatori dei cosiddetti funghi magici e di formare dei facilitatori per somministrarli a partire dal 2023. Negli ultimi due anni un nuovo movimento di riforma della politica sulla droga chiamato Decriminalize nature ha convinto i governi di alcune città statunitensi, tra cui Washington, a depenalizzare i “farmaci vegetali” come la psilocibina, l’ayahuasca, l’iboga e i cactus che producono mescalina. A giugno il senato dello stato della California ha approvato un disegno di legge che renderebbe legale il possesso personale, l’uso e la “condivisione sociale” di sostanze psichedeliche, tra cui l’lsd e l’mdma, chiamato anche ecstasy o Molly. L’opposizione politica a tutte queste misure è stata particolarmente debole. Nessuna delle parti, a quanto pare, ha il coraggio di persistere in una guerra che ha ottenuto così poco facendo tanti danni, specialmente alle comunità non bianche e alle libertà civili.
Ma anche se ora si comincia a intravedere la fine della guerra alla droga, è molto più difficile immaginare come sarà la pace. Come inseriremo queste potenti sostanze nella società e nella vita delle persone se vogliamo ridurre al minimo i rischi e usarle in modo più costruttivo? La scelta di “dire sempre di no” che è stata predominante così a lungo negli Stati Uniti ha impedito di affrontare la questione e di capire quanto sia diversa una droga illegale da un’altra.
Il primo passo
Per cominciare bisogna riconoscere che agli umani piace cambiare stato di coscienza e che le culture usano piante e funghi psicoattivi da quando esistono. Qualcosa in noi semplicemente non è soddisfatto del normale stato di coscienza e cerca di trascenderlo in vari modi, alcuni dei quali sono distruttivi (come lo erano le droghe psichedeliche in occidente negli anni sessanta) e altri generalmente considerati utili, per esempio la caffeina. Da qui il rito della pausa caffè, in cui i datori di lavoro concedono ai dipendenti sia la droga sia il tempo retribuito per gustarla. Ma il contesto è tutto: in molte comunità di nativi americani, il peyote, un cactus dalle proprietà psichedeliche, non è affatto distruttivo; al contrario, il suo uso cerimoniale favorisce la coesione sociale e guarisce i traumi. La nozione di Timothy Leary dell’importanza del set and setting – cioè delle aspettative e del contesto – probabilmente si applica a tutte le droghe, non solo quelle psichedeliche, e vale la pena di tenerla a mente mentre ci muoviamo in questo nuovo mondo.
Nel caso delle droghe psichedeliche, la depenalizzazione di questi potenti composti è solo il primo passo di un processo che serve a capire come meglio introdurre in sicurezza il loro uso nella società. Il modello principale che abbiamo per risocializzare una droga fino a ieri illecita è la legalizzazione della cannabis, che è la nuova normalità in 18 stati statunitensi. E molti ora guardano alla psilocibina come alla prossima cannabis. Ma la prospettiva che i funghi magici siano commercializzati come la cannabis – pubblicizzati sui cartelloni stradali e venduti insieme agli orsetti gommosi al thc – dovrebbe metterci in trepida attesa. Magari in microdosi, visto che una macrodose di psilocibina è un’esperienza potente e rischiosa che può avere delle conseguenze, richiede un’attenta preparazione e una guida esperta. Quindi avremo bisogno di cercare altrove modelli di uso psichedelico sano e sicuro negli Stati Uniti.
Ma dove? Il percorso più diretto e meno controverso per introdurre nella società la psilocibina, così come l’mdma, è quello medico, che passa attraverso il processo di approvazione dei farmaci della Food and drug administration (Fda), l’agenzia federale statunitense che controlla i farmaci. Queste sostanze dovrebbero essere approvate per l’uso in psicoterapia entro pochi anni: l’mdma per trattare il disturbo da stress post-traumatico e la psilocibina per curare la depressione e la dipendenza. Dopodiché i medici potranno prescrivere questi composti, anche se solo in certi casi. L’agenzia dovrebbe emanare regolamenti che stabiliscano come e da chi possono essere somministrati; probabilmente con un facilitatore qualificato in un luogo sicuro, al fine di massimizzare il valore della terapia e minimizzare le possibilità di un brutto viaggio.
Ma che dire del resto di noi, persone sane senza una diagnosi psichiatrica che vogliono usare gli psichedelici per terapia, scoperta di sé o sviluppo spirituale? Un piccolo gruppo di organizzazioni religiose ha tracciato una seconda strada verso la normalizzazione. Dal 1994 la Chiesa dei nativi americani, che oggi ha circa 250mila affiliati, ha il diritto di usare il peyote come sacramento. Da allora altre due chiese si sono assicurate il diritto di usare l’ayahuasca. Stanno nascendo nuove chiese organizzate intorno all’uso di psilocibina, lsd e altri cosiddetti enteogeni, che vorrebbero ottenere il riconoscimento legale. E alcuni esperti di diritto prevedono che ci riusciranno. L’ampia giurisprudenza della corte suprema statunitense sulla libertà religiosa ha creato un’apertura attraverso la quale una serie di nuove chiese psichedeliche potrebbe riuscire a passare. Gli stessi giudici che hanno concesso a un’azienda privata, la Hobby Lobby, di essere esonerata da alcune disposizioni della legge federale difficilmente potrebbero negare alla Chiesa dell’acido lisergico il diritto di usare il sacramento prescelto. Gli statunitensi potrebbero presto essere in grado di andare in una chiesa per avere un’esperienza psichedelica ritualizzata.
Per quanto riguarda le persone che vogliono usare sostanze psichedeliche in un ambiente più laico, è facile immaginare centri simili a spa
Per quanto riguarda le persone che vogliono usare sostanze psichedeliche in un ambiente più laico, è facile immaginare centri simili a spa in tutto il paese. Ne esiste già un prototipo: la Field trip health ha aperto cinque o sei cliniche ampiamente riconosciute (e altre sono in arrivo) dove si può seguire una terapia assistita contro la depressione a base di ketamina, che è già legale, in previsione dell’approvazione dell’mdma e della psilocibina da parte della Fda. Uno psichiatra esamina i “pazienti”, cioè i clienti, e poi un medico o un infermiere somministrano il farmaco; facilitatori appositamente formati spiegano ai clienti cosa aspettarsi e stanno con loro durante l’esperienza, aiutandoli poi a “integrare” – dare un senso e applicare – tutto quello che hanno imparato.
Manuali d’uso
Per quanto diversi possano sembrare, gli usi medici, religiosi e, in mancanza di un termine migliore, dei centri benessere degli psichedelici sono tutti altamente formalizzati, questo è importante. Quando le sostanze psichedeliche irruppero per la prima volta in occidente a metà del secolo scorso, arrivarono senza un manuale d’istruzioni e a volte erano usate incautamente, senza riguardo per le aspettative e l’ambiente. La gente non ci pensava due volte prima di farsi di acido ai concerti e alle manifestazioni o di riempire i contenitori di punch con l’lsd, una pratica che sembra folle, se non crudele. Non c’è da meravigliarsi se il brutto trip, il brutto viaggio, è diventato un meme così potente e la cultura si è rivoltata contro le droghe psichedeliche.
In realtà già allora esisteva un manuale per l’uso sicuro degli psichedelici: è solo che la maggior parte di noi non lo sapeva. Mi riferisco all’uso di sostanze psichedeliche nei popoli indigeni, un modello che faremmo bene a tenere a mente mentre cerchiamo di capire come gestire al meglio queste sostanze. Ci sono molti esempi di popoli indigeni che hanno incorporato con successo composti psichedelici nelle loro culture come sacramenti, medicine o strumenti di comunicazione. Esaminando queste culture, troviamo alcuni denominatori comuni. Raramente, o quasi mai, le persone usano una sostanza psichedelica da sole e mai casualmente: la prendono per un motivo specifico, con un’intenzione. C’è quasi sempre un anziano che presiede, qualcuno che conosce il terreno psichico e può creare un contenitore adatto all’esperienza. E questa avviene all’interno di una struttura rituale.
Il dottor Andrew Weil è stato uno dei primi a riconoscere il valore del rituale nell’uso delle droghe. Nel suo libro del 1972, The natural mind, scrive: “Il rituale sembra proteggere individui e gruppi dagli effetti negativi delle droghe, verosimilmente stabilendo uno schema ordinato intorno al loro uso. Almeno, le persone che le usano ritualmente in genere non hanno problemi, mentre le persone che abbandonano il rituale e usano le droghe in modo arbitrario sembrano averli”.
Prendere semplicemente in prestito una cerimonia rituale da un qualsiasi gruppo indigeno probabilmente non funzionerebbe negli Stati Uniti del 2021 e, anche se funzionasse, sarebbe un atto di appropriazione culturale. Nelle mie interviste con i nativi americani ho riscontrato una profonda riluttanza a condividere con un giornalista bianco quello che succede esattamente durante una cerimonia del peyote. “Il Grande Spirito ci ha dato questa pianta molto tempo fa”, mi ha spiegato Steven Benally, un leader diné della Native american church, quando gli ho chiesto di descrivermi una cerimonia del peyote. “Immagino che sei bianco, vero? Da tutte queste informazioni che vuoi, a me cosa me ne viene?”. È stato portato via così tanto ai nativi americani che ora sono determinati a salvaguardare il loro peyote e i rituali che lo accompagnano. Noi non nativi avremo bisogno di progettare i nostri contenitori culturalmente appropriati per un’esperienza psichedelica laica e non medica. Ma quel processo dovrebbe essere informato dai princìpi che guidano le pratiche indigene, poiché sono il prodotto di una profonda esperienza con queste molecole che risale a migliaia di anni fa.
La fine della guerra alla droga ci metterà di fronte a casi più difficili di quello delle sostanze psichedeliche, molte delle quali sono state studiate dagli scienziati come trattamenti efficaci per varie forme di malattia mentale. Inoltre non creano assuefazione. Ma che dire delle cosiddette droghe pesanti, come l’eroina, la cocaina e la metanfetamina, che le persone apparentemente assumono per piacere? C’è un modo sicuro per introdurre nella nostra vita queste molecole che creano più dipendenza?
Il sintomo della dipendenza
Questo è un territorio scomodo, in parte perché pochi considerano il piacere una ragione legittima per assumere droghe e in parte perché la guerra alla droga (con i suoi sostenitori nel mondo accademico e nella stampa) ha prodotto una fitta nebbia di disinformazione, soprattutto sulla dipendenza. Molte persone (me compreso) rimangono sorprese quando scoprono che la stragrande maggioranza di chi assume droghe pesanti lo fa senza diventare dipendente. Immaginiamo la dipendenza come una proprietà di alcune sostanze chimiche e come una malattia che le persone contraggono da quelle sostanze, ma ci sono buoni motivi per credere che non sia così. Più che una malattia, la dipendenza può essere un sintomo: di un trauma, di disconnessione sociale, di depressione o di disagio economico.
Come suggerisce la geografia delle crisi degli oppioidi e della metanfetamina negli Stati Uniti, l’ambiente e le prospettive economiche svolgono un ruolo importante nel determinare le probabilità di diventare dipendenti; basta guardare dove tendono a raggrupparsi le morti per disperazione o i luoghi in cui è proliferata la dipendenza dal crack.
Due risultati sottolineano questo punto, entrambi descritti in Chasing the scream, il libro di Johann Hari sulla tossicodipendenza (2015). Gran parte di ciò che sappiamo, o crediamo di sapere, sulla tossicodipendenza si basa su esperimenti con i topi. Metti un topo in una gabbia con due leve, una che gli dà eroina o cocaina, l’altra acqua zuccherata, e il topo opterà regolarmente per la droga fino a quando non sarà dipendente o morto. Questi esperimenti classici sembravano dimostrare che la dipendenza è il risultato inevitabile dell’esposizione a droghe che creano dipendenza, una semplice questione di biologia. Ma succede qualcosa di molto diverso quando il topo esce dall’isolamento e viene trasferito in una gabbia più grande e più piacevole dove ci sono giocattoli, buon cibo e compagni con cui giocare e fare sesso. È il cosiddetto esperimento del parco dei topi, ideato dallo psicologo canadese Bruce Alexander negli anni settanta. Alexander e i suoi colleghi hanno scoperto che in questo ambiente arricchito, i ratti assaggiano la morfina ma ne consumano una minima parte della quantità consumata da quelli che vivono in isolamento, in alcuni casi cinque milligrammi al giorno invece di 25. Alexander arrivò così a capire che l’abuso di droghe non è una malattia: è un adattamento all’ambiente e alle circostanze, alle condizioni della propria gabbia.
Non ci libereremo del problema della tossicodipendenza finché ci sarà l’infelicità. La guerra alla droga ha fatto ben poco per arginarlo
Il secondo fenomeno che Hari racconta si verificò alla fine della guerra del Vietnam. Circa il 20 per cento delle truppe statunitensi diventò dipendente dall’eroina mentre era in Vietnam. Con la fine della guerra, gli esperti erano preoccupati per le decine di migliaia di tossicodipendenti che avrebbero invaso le strade degli Stati Uniti. Ma quando i militari diventati dipendenti dalla droga tornarono a casa, successe qualcosa d’inaspettato: il 95 per cento di loro smise di usarla. Non faceva differenza se ricevevano o meno un trattamento farmacologico. Con questo non voglio sminuire il danno fatto dall’eroina a chi non riusciva a smettere, ma suggerire che la dipendenza non nasce solo dall’esposizione a una droga che la può creare.
Ridurre il danno
Non ci libereremo del problema della tossicodipendenza finché ci sarà l’infelicità. La guerra alla droga ha fatto ben poco per arginare il fenomeno, che non svanirà neanche con la pace. Quindi che fare? La riduzione del danno è il metodo adottato dagli elettori dell’Oregon e dalle nazioni che hanno depenalizzato le droghe, tra cui Portogallo e Svizzera. Questo potrebbe significare scegliere un trattamento farmacologico, invece del carcere, per aiutare i tossicodipendenti a liberarsi dalla dipendenza o, in alcuni casi, somministrargli l’eroina (con siringhe pulite) per mantenerla. Questo riduce i danni che derivano dall’uso di droghe di strada, con additivi sconosciuti (e oggi spesso abbinate al fentanil, che ha contribuito pesantemente all’aumento delle overdosi da oppiacei), e i reati commessi per procurarsele. La Svizzera ha scelto forse il metodo più ambizioso per il trattamento della dipendenza da eroina. Lo stato ti prescrive l’eroina, ma poi si assicura che tu abbia un lavoro, un alloggio dignitoso e un supporto terapeutico, basandosi sulla teoria che non avrai più bisogno della droga dopo che le tue condizioni saranno migliorate. L’abuso di oppiacei fa un’enorme quantità di danni agli individui e alla società. Ma smentendo lo stereotipo della spirale della schiavitù chimica, alcune persone riescono a usare abitualmente gli oppiacei mentre conducono una vita produttiva. Molti, se non la maggior parte, dei danni dell’uso di droghe derivano dal suo divieto.
Non dovremmo dimenticare che due delle droghe più distruttive in uso oggi, alcol e tabacco, sono da molto tempo perfettamente legali. Avendo saggiamente rinunciato al proibizionismo, ci siamo impegnati come società a regolamentarne l’uso, sia con le leggi sia con le convenzioni sociali. Riconoscendo i pericoli del tabacco, negli ultimi cinquant’anni ne abbiamo desocializzato l’uso, elaborando regole e tabù su quando e dove si può fumare. Insieme a un aumento delle tasse, le espressioni di disapprovazione culturale hanno sostanzialmente ridotto l’uso del tabacco (vale la pena di ricordare che in molte culture tradizionali del nuovo mondo il tabacco è usato ritualmente senza i danni associati al fumo in occidente).
La difficile pace che la nostra cultura ha instaurato con l’alcol potrebbe indicare un modo per usare droghe come l’eroina e la cocaina nel dopoguerra della lotta alle droghe. Come società, accettiamo che alcune persone finiranno per avere un rapporto malsano con l’alcol e che decine di migliaia di loro moriranno ogni anno per averne abusato. Ma molte di più useranno la stessa droga con piacere e senza danno per se stesse né per la società. Anche qui i rituali che abbiamo sviluppato intorno al bere svolgono un ruolo protettivo e suggeriscono un modello, per quanto imperfetto. La maggior parte di noi non beve prima di una certa ora. Beviamo solo in compagnia o mentre mangiamo; e dopo aver bevuto non guidiamo, una pratica codificata dalla legge. Le persone che seguono queste regole e questi rituali generalmente non si mettono nei guai a causa dell’alcol.
◆ In Italia il testo unico 309 approvato il 9 ottobre 1990 stabilisce le norme che regolano la produzione, il commercio e l’uso delle sostanze stupefacenti e psicotrope, e la prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza. Il ministero della salute suddivide gli stupefacenti in base agli effetti e ogni anno aggiorna una lista delle sostanze psicotrope considerate illegali. Sono vietate l’eroina, i derivati della cannabis, la cocaina, gli allucinogeni, l’ecstasy e alcuni prodotti simili. Sono legali l’alcol e il tabacco, ma la vendita e il consumo sono regolati da una serie di norme. Il 18 settembre 2021 il comitato promotore per la proposta di un referendum sulla legalizzazione della cannabis ha annunciato di avere raccolto in pochi giorni 500mila firme, cioè il minimo necessario previsto dalla costituzione per indire un referendum. Associazione Luca Coscioni
Natura ambigua
La linea intransigente della guerra alla droga aveva la virtù della semplicità. La regola di “dire sempre di no” è più facile da seguire rispetto a “sì, ma solo in questo modo e non in quello”. Facendo di tutte le droghe illegali un fascio, la guerra alla droga non aveva bisogno di considerare le loro diverse proprietà e poteri, a cosa servono e a cosa fanno male. Né aveva bisogno di trovare il miglior contenitore culturale per ciascuna e l’insieme di regole, rituali e tabù che ci permettessero di usarle in modo sicuro, produttivo e, sì, anche con piacere.
Ma se vogliamo mettere fine alla guerra alla droga, è proprio quello che dovremo fare. Non sarà facile né veloce. Stiamo ancora cercando di capire come gestire al meglio alcol e tabacco, trovando il giusto equilibrio tra leggi, norme sociali e tasse (la tassazione è importante per due ragioni: scoraggiare l’uso e pagare i costi sanitari associati all’abuso). E dato che l’onere dell’abuso di droghe (compreso quello di alcol e tabacco) ricade di più sui poveri, quella che dobbiamo combattere non è tanto una guerra alla droga quanto una guerra alla povertà, alle condizioni di vita che fanno sembrare l’uso di droghe una soluzione ragionevole o un mezzo di automedicazione.
La lunga storia degli esseri umani e dei farmaci che alterano la mente ci dà motivo di sperare di poter negoziare una pace, per quanto imperfetta, con queste potenti sostanze. L’abbiamo già fatto in passato. Gli antichi greci comprendevano la natura ambigua e a doppio taglio delle droghe molto meglio di noi. Il termine che usavano, pharmakon, significa sia medicina sia veleno: avevano capito che tutto dipende dall’uso, dalla dose, dall’intenzione, dalle aspettative e dall’ambiente. Benedizione o maledizione, quale sarà delle due? La risposta non dipende dalla legge né dalla chimica, ma piuttosto dalla cultura, che vuol dire da noi. ◆ bt
Michael Pollan è un giornalista statunitense che si occupa di alimentazione e agricoltura. Insegna all’università della California a Berkeley. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Come cambiare la tua mente (Adelphi 2019).
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Questo articolo è uscito sul numero 1428 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati