Una mattina d’estate mi trovavo sulle Alpi Lepontine, in Ticino, il cantone svizzero di lingua italiana, e all’orizzonte s’intravedeva la minaccia di un temporale. Con lo zaino in spalla, stavo percorrendo un sentiero attraverso un bosco di larici e noccioli in direzione di un passo di montagna. Davanti a me pascolava un gregge di capre con i campanacci che risuonavano allegramente, mentre alle mie spalle le vette sovrastanti la valle Maggia apparivano e scomparivano dietro le nuvole formando una specie di smorfia con i loro denti di pietra scheggiati.
Ogni estate vado in Svizzera a fare trekking, ma quella volta ero stato attirato da quello che è pubblicizzato come il primo sentiero escursionistico in amaca del mondo, realizzato a ovest di Locarno. Inaugurato nel 2023, il percorso parte dal paesino di Bosco Gurin ed è dedicato a chi ama combinare ardite ascese verticali con un passatempo più orizzontale, come rilassarsi su un’amaca. È un modo di viaggiare rispettoso dell’ambiente, che offre la possibilità di conoscere una delle valli svizzere più sorprendenti.
Finora per il progetto Ggurijnar Hermi (che nel dialetto locale significa “il posto di riposo degli abitanti di Bosco Gurin”) è stata attrezzata una decina di postazioni in grado di accogliere una o più amache. Ogni sito è stato pensato in funzione dell’ampiezza e dell’altezza ideali, con cinghie di gomma fissate ai pini e moschettoni per un montaggio rapido. I posti sono stati scelti anche per i loro panorami rasserenanti. Uno è vicino alla chiesa di Bosco Gurin, che risale al quattrocento, ed è facilmente raggiungibile con una breve passeggiata lungo un pendio. Un altro, dove possono sistemarsi fino a sette persone, è sulla riva di un fiume, con un braciere e una legnaia rifornita di ciocchi. Altri sono sparsi lungo i sentieri segnati della parte alta della valle.
Iniziativa comunitaria
La mia idea era percorrere tutto il circuito, che un escursionista mediamente allenato può concludere in due giorni. Bisognava dunque adattarsi alle condizioni del meteo e ripensare il modo in cui trascorrere il tempo in montagna.
Sono partito in senso antiorario, per toccare quattro postazioni, tra cui una direttamente collocata sotto il passo Quadrella, un valico di montagna a 2.137 metri di altitudine che offre una rapida via di fuga verso l’Italia. Avevo programmato una nuotata in corrispondenza della prima tappa, uno spuntino alla seconda, un riposino alla terza e pensavo di fermarmi per dormire alla quarta, in riva al fiume.
Portavo nello zaino un’amaca leggera, affittata a 15 franchi (15,50 euro) per usarla di giorno (la notte il prezzo sale a 40 franchi) alla panetteria Sartori, uno dei tre punti di noleggio del paese, dove ho comprato anche una mappa e un fagottino alle noci, entrambi necessari alla mia avventura. Il sentiero delle amache è un’iniziativa comunitaria. L’idea è coinvolgere, sostenere e comunicare con gli abitanti del posto, che condividono con i visitatori l’amore per la tranquillità della loro valle.
Prima di partire ho parlato con l’artefice del progetto Ggurijnar Hermi, Zita Sartori, che ha avuto l’ispirazione dopo aver ricevuto un’amaca come regalo di compleanno durante il lockdown del 2021. “Le amache sono un ottimo strumento per reinterpretare il paesaggio”, spiega Sartori. “L’obiettivo non è pubblicare foto su Instagram, ma stare all’aria aperta e pensare in modo diverso”.
Mi sono incamminato da solo in salita, lasciandomi il villaggio alle spalle e mi sono subito imbattuto nella prima postazione attrezzata, a ridosso di una piscina naturale. Srotolare e appendere l’amaca è stato molto semplice e ho deciso di cambiare programma per dedicarmi a un lungo pomeriggio di ozio. La pozza d’acqua era limpida ma sembrava molto fredda. Invece di nuotare, mi sono limitato a oscillare come un metronomo, avanti e indietro, ascoltando in silenzio il suono dell’amaca.
Ha cominciato a piovigginare e mi sono spinto più in alto sulla montagna verso la seconda postazione, nascosta da una fila di alberi. Un aquilone rosso si librava in volo. Sotto uno squarcio azzurro tra le nuvole ho appeso di nuovo l’amaca. Davanti a me potevo vedere Grossalp, un gruppo di case di pietra oggi disabitate. Furono costruite intorno al 1235 dai coloni Walser, che dal Canton Vallese si erano spostati a est per sfuggire ai conflitti con i signori feudali. La frazione sembrava un regno microscopico, fuori della storia.
“I Walser non volevano la proprietà della terra. Volevano vivere in modo semplice, tranquillo e indipendente senza depredarla”, mi ha raccontato Francesca Pedrocchi, vicepresidente dell’associazione che gestisce il museo Walserhaus di Bosco Gurin, prima dell’inizio della mia escursione.
Pedrocchi ha aggiunto che possiamo ancora imparare da loro l’attenzione da riservare all’ambiente. In qualche modo, con il percorso mi è sembrato di seguire le orme dei suoi antenati, continuando la loro migrazione e ricominciando ogni volta da un posto nuovo.
A metà del pomeriggio mi stavo dondolando vicino a una cascata sotto il passo Quadrella. Mi ero preparato a trascorrere lì il resto della giornata, contemplando le nuvole in costante cambiamento e ascoltando lo sciabordìo dell’acqua sulla roccia, ma si preannunciava un temporale e le previsioni davano pioggia intensa.
Ho affrontato la ripida discesa a passo sostenuto. In breve la pioggerellina si è trasformata in una tempesta e così, invece di sistemare la mia amaca all’aria aperta in riva al fiume, mi sono diretto a Bosco Gurin. L’hotel Walser, dove lavora la maggior parte degli abitanti del paese, riesce a conciliare l’impegno verso la comunità con la sostenibilità, e la sua cucina si rifornisce dagli agricoltori locali. Questa è stata una specie di compensazione per l’occasione che avevo perduto. Bosco Gurin è spesso descritto come uno dei paesini più belli del Ticino. Dai camini sale il fumo della legna, le case sono dipinte con scene allegoriche: un angelo a cavallo infilza un coccodrillo, uno stambecco si staglia contro la montagna. Le stradine acciottolate conducono a fontane dove da secoli gli abitanti del posto vanno a prendere l’acqua con i secchi. Il panorama mi ha ricordato quello del Tibet. La modernità di città come Zurigo e Basilea mi è sembrata lontana anni luce.
Conquistato dalla natura
Il giorno successivo è cominciato con una nebbia persistente, una chiazza biancastra sulle cime delle montagne e sui sentieri deserti. Dovevo ancora raggiungere altre tappe del circuito e per riprendere il cammino da dove l’avevo lasciato mi sono diretto verso la foresta di Weltu, seguendo un sentiero che costeggia il fiume Rovana. Ho trascorso la maggior parte del mattino nel posto dove avrei dovuto passare la notte, sorseggiando un caffè dal thermos e ascoltando il borbottìo del fiume sdraiato sulla mia amaca. Con un binocolo, scrutavo gli alberi alla ricerca di falchi.
La natura selvaggia che aveva conquistato Zita Sartori e che l’aveva portata a ripensare l’ambiente in cui vive stava esercitando la sua influenza anche su di me. All’ora di pranzo, ho raggiunto un punto più alto, attraversando i silenziosi frutteti di Bawald-Wolfstaful e percorrendo una strada lungo un crinale.
Per il resto del pomeriggio la mia amaca – fissata alla parte bassa di una barriera in legno contro le valanghe – è stata la mia base, e la mia finestra sulla valle. In quegli ultimi momenti lungo l’itinerario, il resto del mondo era solo un’immagine in lontananza. ◆ mf
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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati