Poco più di mezzo secolo fa, nel 1970, i miei nonni portarono mia madre a Kabul per fare spese prima del suo matrimonio. Da Lahore, Kabul era raggiungibile con un breve volo o con un lungo viaggio in auto, ma era comunque molto più vicina di Karachi. Era la prima volta che mia madre usciva dal Pakistan.
Alloggiavano in un hotel, ma ad accompagnarli in giro per Kabul c’era un’amica di famiglia, una giovane afgana che parlava persiano e aveva frequentato la scuola di medicina a Lahore con la sorella di mia madre. Quest’amica portava abiti occidentali alla moda, come molte donne della borghesia a Kabul, e mia madre rimase colpita da quanto la città fosse moderna e cosmopolita. Era piena di occidentali tra cui, nei racconti di mia madre, un sacco di “hippy e drogati”. Se ne innamorò all’istante.
Un giorno andarono a fare un picnic nel parco. Vicino c’era un fiume o un canale, e sulla riva alcune donne occidentali prendevano il sole in bikini. Un gruppo di uomini afgani in abiti tradizionali sbucarono dagli alberi e cominciarono a fissarle. Chiaramente a disagio, le donne si coprirono e scapparono.
Osservando quella scena mia madre e gli altri si misero a ridere. Sembrava una cosa abbastanza innocua. “Gli occidentali vengono qui e si dimenticano dove sono”, disse l’amica afgana.
Nelle ultime settimane, quando ho visto le immagini strazianti dell’aeroporto di Kabul – le migliaia di disperati ammassati all’aperto, i bambini passati ai soldati sopra il filo spinato, gli uomini aggrappati alle fiancate dell’aereo che precipitano dopo il decollo, le macchie di sangue a terra dopo l’esplosione di una bomba – mi sono chiesto com’è possibile che tutto questo stia succedendo ancora. Non è la prima volta che un intervento occidentale in Afghanistan finisce nell’orrore e nel caos. Chi ha la mia età se lo ricorda bene.
Quando ero bambino, a Lahore, l’Afghanistan e il Pakistan erano diventati un campo di battaglia della guerra fredda. Nel 1978, dopo un colpo di stato, in Afghanistan s’insediò un governo comunista e di fronte alla resistenza afgana al nuovo regime nel 1979 l’Unione Sovietica invase il paese. Gli Stati Uniti decisero d’intervenire, alleandosi con il Pakistan in una grande operazione contro l’Unione Sovietica. Il piano era armare e addestrare i mujahidin, quelli che facevano il jihad (o, come li chiameremmo oggi, jihadisti), farli entrare in Afghanistan da una serie di basi in Pakistan e organizzare una guerriglia contro l’Unione Sovietica. Molti di questi combattenti erano afgani, ma diversi musulmani che venivano da tutto il mondo risposero alla chiamata per unirsi al jihad. Tra questi c’era un giovane saudita di nome Osama bin Laden.
I sovietici combatterono una guerra brutale e s’impegnarono in una colossale opera di costruzione della nazione, scolarizzando e addestrando migliaia di afgani e costruendo scuole, ospedali e infrastrutture. Dopo un po’, però, i guerriglieri appoggiati dagli Stati Uniti presero il controllo di buona parte delle campagne. I sovietici e il governo afgano loro alleato controllavano le città e le strade principali. Milioni di profughi afgani messi in fuga dai combattimenti si rifugiarono in Pakistan e in Iran. Morì più di mezzo milione di afgani, forse molti di più.
Dopo dieci anni di tentata occupazione, nel 1989 l’Unione Sovietica ordinò il ritiro dall’Afghanistan. Gli Stati Uniti si ritirarono a loro volta dalla regione e reintrodussero le sanzioni al Pakistan per il suo programma di sviluppo di armi nucleari, quelle stesse sanzioni che erano state rimosse e sostituite da sostanziosi aiuti negli anni ottanta, durante la guerra contro i sovietici. L’Afghanistan sprofondò nella guerra civile e nel caos. Nel 1992, dopo una serie di terrificanti scontri tra varie fazioni dei mujahidin, Kabul era praticamente distrutta. L’Afghanistan era in macerie.
Anche il Pakistan pagò il conto della guerra. Se mia madre fosse andata a fare shopping per il matrimonio a Karachi invece che a Kabul, avrebbe trovato una città piena di bar e locali notturni, con migliaia di stranieri delle missioni diplomatiche, uffici di multinazionali e assistenti di volo delle compagnie aeree in giro per le strade. Nel 1970 Karachi era l’equivalente di quello che oggi è Dubai, uno snodo vitale del traffico aereo e dei commerci, a metà strada tra l’Europa e l’Asia. Ma nel 1992, tra kalashnikov, eroina e militanti del conflitto afgano, era diventata una città invivibile, lacerata dalla violenza etnica e dalla criminalità. Chi non era pachistano faceva di tutto per evitarla.
Per sconfiggere i sovietici, gli Stati Uniti avevano appoggiato entusiasticamente il regime del dittatore del Pakistan, il generale Muhammad Zia-ul-Haq, di fatto legittimando il suo progetto d’islamizzazione che mirava a rimodellare ogni aspetto della vita del paese secondo un’interpretazione reazionaria dell’Islam. I libri scolastici venivano riscritti, i giornali censurati e gli oppositori arrestati. Gruppi di studenti religiosi minacciavano il personale laico delle università. I militanti uccidevano chi apparteneva alle minoranze religiose. Il tutto mentre Zia era accolto con tutti gli onori da Ronald Reagan alla Casa Bianca e riceveva miliardi di dollari di armi e aiuti.
Alla fine, gli Stati Uniti hanno vinto la guerra fredda. Ma l’Afghanistan è stato distrutto, e le ferite subite dal Pakistan in quegli anni non sono ancora guarite. Alcune, anzi, si sono infettate e aggravate. Agli occhi di molte persone che vivono in questa regione, il prezzo pagato per la vittoria statunitense sembra comprensibilmente troppo alto.
La guerra civile afgana degli anni novanta ha creato i taliban. I taliban hanno dato ospitalità a Osama bin Laden (che è tornato nei luoghi del suo jihad personale degli anni ottanta contro i sovietici). Bin Laden, contrario alla presenza militare statunitense in Arabia Saudita, ha organizzato gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan. I taliban, travolti, hanno provato a negoziare la resa in cambio dell’amnistia. La proposta è stata rifiutata. Il conflitto è andato avanti per altri vent’anni. Ancora una volta una potenza straniera e il governo afgano suo alleato hanno preso il controllo delle città. Ancora una volta i guerriglieri jihadisti hanno dilagato nelle campagne. Ancora una volta i guerriglieri hanno preso Kabul. E ancora una volta un esercito straniero batte in ritirata.
A cosa è servito tutto questo? E a cosa è servito tutto il resto, tutti i disastri che sono seguiti all’intervento militare in Iraq e in altre zone della regione? “Siamo venuti per sconfiggere il terrorismo”, si è ripetutamente detto dell’invasione dell’Afghanistan nel 2001. Di sicuro, però, il terrorismo non è stato sconfitto, come testimoniano gli attentati suicidi delle scorse settimane all’aeroporto di Kabul. E se non è stato sconfitto, se il meglio che si può fare è gestire il terrorismo attraverso una combinazione di soluzioni politiche, pressioni internazionali, collaborazioni con i regimi locali e con i paesi vicini, e interventi occasionali e mirati, allora perché sono state combattute le guerre degli ultimi vent’anni?
Invece di rispondere a queste domande, ci dicono che il ritiro dall’Afghanistan permette agli Stati Uniti di concentrare i loro sforzi militari sulla Cina. La vera minaccia è la Cina, non il terrorismo. La Cina deve essere fermata a tutti i costi.
Com’è possibile che tutto questo stia succedendo ancora? Non è la prima volta che un intervento occidentale in Afghanistan finisce nell’orrore e nel caos. Chi ha la mia età se lo ricorda bene
Non sono un esperto di questioni militari. So però cosa vuol dire vivere in un paese governato da esperti militari. In Pakistan sentiamo ripetere da sempre che l’India è la più grande minaccia per il nostro paese. Non l’analfabetismo, non la violenza, non il cambiamento climatico, non la povertà, non l’assistenza sanitaria: l’India. L’India è senza dubbio un vicino pericoloso per il Pakistan (e anche il Pakistan lo è per l’India). Nonostante questo, vorrei che il Pakistan scegliesse in altri modi le sue priorità.
Nel frattempo in India, un paese che gli Stati Uniti oggi considerano un alleato contro la Cina, ci sono segnali di una trasformazione per molti aspetti simile a quella del Pakistan alleato degli Stati Uniti negli anni ottanta. Al posto della minaccia sovietica c’è la minaccia cinese, al posto dell’islamizzazione di Zia c’è l’hindutva di Modi, e ancora una volta le minoranze sono perseguitate, i giornalisti sono minacciati e le strutture democratiche cedono il passo a un governo assoluto sempre più intollerante. Il Pakistan, con la sua storia di sciovinismo religioso cresciuto all’ombra di una superpotenza, sarebbe dovuto servire da monito per l’India. Invece, sembra che sia una specie d’ispiratore.
E così, mentre la popolazione di tutto il mondo viene convinta a passare dalla guerra fredda alla guerra al terrorismo e poi alla guerra contro l’egemonia cinese, suggerirei di guardare bene la rovinosa débâcle dell’Afghanistan e di continuare a essere opportunamente scettici.
A parte la Cina, qual è la vera grande sfida a cui il mondo dovrebbe dedicare tutte le sue energie? La pandemia di covid-19 contro cui stiamo combattendo è un’ovvia candidata. I vaccini sono una parte importante della soluzione. Stiamo incontrando difficoltà a vaccinare un numero sufficiente di persone fuori dall’Europa, dal Nordamerica e dalla Cina. Ma se questi tre centri di potere avessero lavorato insieme? Se avessero unito le risorse, elaborando un piano per produrre più velocemente i vaccini più efficaci con l’obiettivo di potenziare gli impianti di produzione in tutti i continenti e vaccinare tutta la popolazione adulta mondiale entro il 2022?
Certamente il risultato sarebbe stato migliore dell’alternativa che abbiamo sotto gli occhi, con i singoli paesi che corrono ad accaparrarsi le dosi, la diplomazia bilaterale dei vaccini, le critiche continue sulla loro qualità relativa e il delinearsi di una rivalità geopolitica in quello che avrebbe dovuto essere un obiettivo condiviso di tutta l’umanità. Di fronte alla pandemia mondiale più urgente e improvvisa a memoria d’uomo, l’emergere di una nuova guerra fredda non ci ha affatto aiutati.
Per quanto terribile, la crisi del covid-19 non è paragonabile per grandezza e complessità alla catastrofe incombente del cambiamento climatico. Purtroppo è tardi per evitare almeno una parte del danno: possiamo vederne i segni dappertutto, tra incendi, inondazioni, siccità e ondate di calore. In Pakistan, la città di Jacobabad ha già sperimentato temperature superiori ai 52 gradi, la soglia oltre la quale, anche all’ombra e in presenza di acqua potabile, il corpo umano non è in grado di raffreddarsi e progressivamente muore. Un anno fa, un amico che vive sulle Alpi italiane mi ha mandato due immagini: una di un satellite della Nasa, l’altra scattata da casa sua, in cui c’è una montagna che si vede male, offuscata, anche se era una giornata limpida. La corrente a getto aveva portato fino a lì il fumo dei giganteschi incendi che stavano devastando la costa ovest degli Stati Uniti.
Possiamo ancora limitare i danni del cambiamento climatico in modo da scongiurare lo sfollamento di milioni di persone. È ancora possibile evitare la distruzione delle principali regioni agricole del pianeta. Ma non possiamo più sprecare né tempo né risorse. Purtroppo, l’idea che faremo tutto il necessario e che l’entità dell’intervento sarà quella richiesta, mentre gli Stati Uniti e la Cina sono bloccati in un pericoloso stallo nel Pacifico occidentale, sembra nella migliore delle ipotesi poco plausibile. Arriveranno altre portaerei, altri missili ipersonici, altri silos per le armi nucleari, e decisamente queste cose non sono quello che serve di più all’umanità.
La fine di una guerra non dovrebbe essere il momento in cui ci si prepara alla prossima. La fine di una guerra dovrebbe essere il momento in cui ci si concentra sulla pace. In Afghanistan, la priorità è creare un’azione coordinata di pressione internazionale per spingere i taliban a tutelare i diritti umani della popolazione afgana (specialmente delle donne e delle ragazze), dei gruppi perseguitati come gli hazara e dei sostenitori delle precedenti libertà concesse dagli occidentali. L’economia afgana per non crollare avrà bisogno di assistenza, come ne avranno bisogno i rifugiati afgani, soprattutto se il proseguire degli scontri ingrosserà le loro file, e il mondo chiederà rassicurazioni sul fatto che l’Afghanistan lavorerà per contrastare i gruppi che organizzano attentati negli altri paesi.
Ma dobbiamo anche considerare cosa significa la pace al di là dell’Afghanistan. Dobbiamo, soprattutto, cercare di ridimensionare il conflitto in corso tra gli Stati Uniti e la Cina. Questo non vuol dire dare per scontato che la Cina sia una protagonista benevola degli affari mondiali. Né che lo siano gli Stati Uniti. Vuol dire fare i conti con le conseguenze di un conflitto infinito, riconoscere che raramente i benefici delle soluzioni militari che ci vengono promessi si concretizzano e che i costi sono spesso rovinosi.
Quella tra politica estera e politica interna non è una distinzione valida. È difficile pensare di combattere una serie infinita di guerre o quasi guerre all’estero e ridurre la povertà e la polarizzazione in casa propria. Questo vale sia per i paesi ricchi sia per quelli poveri; vale per l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina e vale per il Pakistan e l’India. Non è solo una questione di risorse, anche se le risorse per affrontare le grandi sfide dell’umanità sono limitate. È anche una questione di obiettivi, di attenzione, di priorità. Di cultura, insomma.
Il compito che ci aspetta è prendere atto che oggi siamo in troppi. Ci sono semplicemente troppe persone che vivono e hanno un impatto sul nostro pianeta, e l’unico modo di assicurare un futuro accettabile alla nostra specie è aumentare il nostro livello di cooperazione. Dopo il disastro in Afghanistan, dovremmo avere l’ambizione di guardare alla guerra con più sospetto e di pensare in modo più radicale alle prospettive della pace. ◆ fas
Mohsin Hamid
è uno scrittore pachistano, cittadino britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Exit west (Einaudi 2017). Questo articolo è uscito sul Financial Times con il titolo Mohsin Hamid on Afghanistan – and the case against wars.
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Questo articolo è uscito sul numero 1428 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati