L’istante in cui appare il lago Turkana è assolutamente indimenticabile. Lo si vede dopo aver superato il parco eolico, al termine di una serie di spettacolari curve a gomito che disegnano la terra rossa. Più in basso, il lago che scintilla sotto il sole del pomeriggio promette sollievo dall’afa, alla fine di un lungo viaggio nel deserto da Ngurunit. Sembra quasi di sentire il fresco sulla pelle disidratata. Ma, prima di arrivare, ci sono due chilometri di discesa ripida. Una sfida, soprattutto se si è in moto.

Ho imparato a guidarne una in piena pandemia. In Kenya i primi due lockdown sono stati molto duri: Nairobi e le contee circostanti sono state tagliate fuori dal resto del paese. Anche se nella capitale keniana c’è ancora un buon numero di aree verdi protette che offrivano un po’ di sollievo dal confinamento, è presto subentrata la smania di andare in giro. Quando finalmente ci è stato permesso di riunirci in piccoli gruppi, ho pensato che fosse il momento giusto per provare a fare qualcosa a cui pensavo da almeno quindici anni. Allora credevo che mi sarei limitata a questo: a imparare una cosa che avrebbe potuto tornarmi utile in futuro.

Lago Turkana, Kenya, novembre 2013 (Horst Klemm, Greatstock/Alamy)

E invece, nel preciso istante in cui ho capito come si metteva in folle e come si cambiavano le marce, in me è esplosa la passione. Nel libro Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta (Adelphi 1981), Robert M. Pirsig scrive che in moto “hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente”.

Il dialogo tra la moto e chi la guida è meditazione pura. Qualcuno lo capisce, altri no. Io l’ho capito subito. Quando sei in sella, non puoi avere la testa altrove. Devi essere sempre presente, senza distrazioni né interruzioni. Devi dimenticare tutto ciò che non riguarda il fatto di tenere il mezzo in equilibrio e in movimento.

Dopo aver preso lezioni per un paio di settimane, ho pagato l’acconto per comprare una moto da turismo. Il mio sogno era vedere il Kenya da una nuova prospettiva.

L’autostrada

Come molti altri stati, il Kenya è un insieme di territori diversi legati da una serie di incidenti storici e dalle fantasie espansioniste di un gruppo di uomini armati di fucili. La grande maggioranza dei keniani vive al sud, lungo la ferrovia che collega Mombasa, sulla costa, a Kisumu, sul Nam Lolwe (il lago Vittoria, in lingua luo). Cinque delle quarantasette contee – Turkana, Marsabit, Mandera, Wajir e Garissa – occupano la parte più estesa del territorio nazionale e si trovano tutte nel nord e nell’est del paese.

Il governo coloniale britannico era talmente intimidito dall’ingegno e dalla determinazione che servivano per sopravvivere in quei territori che non è mai riuscito ad amministrarli veramente. Quella parte del paese era gestita separatamente e fu nominata “distretto della frontiera settentrionale”. Lì venivano mandati i prigionieri politici condannati per aver rivendicato l’indipendenza e i colonizzatori più sfortunati, per punizione. Ancora oggi quelle terre sono così estranee al concetto di nazione che gli abitanti, quando incontrano qualcuno arrivato dal sud, gli chiedono: “Come va in Kenya?”.

La moto non voleva saperne di partire e ho temuto che fosse un cattivo presagio. Invece era semplicemente finita la benzina

Per gran parte della storia del paese, fare un viaggio di piacere nel nordest era quasi impossibile per le preoccupazioni legate alla sicurezza. L’acqua scarseggia e le diverse comunità si scontrano per il controllo dei pascoli e delle sorgenti. I grandi progetti privati di conservazione ambientale, gestiti come enclave strettamente sorvegliate, hanno peggiorato la situazione.

A lungo la strategia del governo di Nairobi di fronte alle violenze che scoppiavano tra le comunità è stata fornire armi ad alcuni gruppi, o di reprimerli. La regione rappresentava esattamente il concetto di “altro”, come elaborato da Edward Said (l’intellettuale d’origine palestinese autore di Orientalismo).

La situazione è cambiata dopo che nel 2014 è stato completato l’ultimo tratto dell’autostrada A2. L’arteria collega il confine settentrionale del paese con quello meridionale, da Moyale a Namanga, e ha permesso di ridurre da tre giorni a uno il tempo di percorrenza tra Nairobi e Marsabit, incoraggiando i turisti provenienti dal sud. In questi ultimi dieci anni la risposta dei keniani a quest’invito è stato un entusiastico “sì”.

A nove mesi dal primo giorno in cui sono salita su una moto, anch’io ho risposto a quell’invito. Quando avevo comprato la moto avevo deciso di chiamarla Sibiloi, il nome del parco nazionale più a nord del paese. Era un tributo alla mia vaga ambizione di poterci andare. Nei mesi successivi sono entrata a far parte di un giro di appassionati e mi sono iscritta a uno dei club per motocicliste che avevano aperto a Nairobi.

Le gite fuori programma nel fine settimana, chiamate random, erano un modo per lasciarsi alle spalle la pressione del lockdown. Potevamo restare distanti e, allo stesso tempo, viaggiare in compagnia in posti che perfino i fuoristrada faticavano a raggiungere.

Sibiloi mi ha portata nel parco nazionale di Amboseli, dove ho ammirato la vetta innevata del monte Kilimangiaro, e nel sito preistorico di Olorgesailie, nella Rift valley. Ma questo non faceva che alimentare il mio desiderio di avventura.

Quando ho scritto ad alcuni gruppi di motociclisti per avere consigli su un possibile viaggio nel parco nazionale di Sibiloi, i maschi mi hanno risposto dicendo che era troppo pericoloso. Quando invece ho scritto a gruppi formati da sole donne, ho ricevuto incoraggiamenti e aiuti per decidere il percorso. Guidare la moto mi ha ricordato una cosa: le donne che non rispettano i ruoli predefiniti dalla società devono necessariamente essere coraggiose.

Tempo per riflettere

La mattina del primo giorno ero così nervosa che mi tremavano le mani. La moto non voleva saperne di partire e ho temuto che fosse un cattivo presagio. Invece era semplicemente finita la benzina. Ho lasciato Nairobi cercando di tranquillizzarmi con dei respiri profondi e ripetendo il mantra: “Pensa ad arrivare alla prossima città”. Ed è quello che ho fatto, a tappe di circa due ore di viaggio lungo l’autostrada, tra un centro abitato e l’altro.

Oltrepassata la città di Isiolo, il traffico è praticamente scomparso, e all’improvviso mi sono ritrovata da sola per lunghi tratti. Finalmente ero libera dalla minaccia più grave per una motociclista – gli altri conducenti di veicoli – e ho trovato il tempo di riflettere sull’enormità di quello che stavo facendo. A Ololokwe (montagna sacra, nella lingua samburu) mi sono fermata per l’immancabile foto con la quale vuoi far sapere a tutti che ti trovi nel nord, lontano da Nairobi, circondata dagli elefanti e tutto il resto. Per la prima volta ho sentito la morsa dell’ansia che si allentava.

Nel pomeriggio sono arrivata a Laisamis, una località a 435 chilometri da Nairobi, dove ho incontrato le guide locali che avevo ingaggiato per aiutarmi nei tre giorni successivi. A Laisamis c’è l’ultimo tratto di strada asfaltata prima del deserto, che ha ritmi e culture da rispettare. Bisognava portarsi dell’acqua da condividere con le persone che avremmo incontrato lungo la strada. Le guide dovevano anche informarsi sulle strade da evitare a causa degli scontri tra le comunità o delle imminenti inondazioni, spiegandomi le caratteristiche del percorso da seguire e consigliandomi i punti migliori per fermarci. Io li avrei preceduti in moto, loro mi avrebbero seguita in auto.

Ben fatto

Inizialmente i miei accompagnatori erano confusi nel vedere una donna che guidava una moto nel deserto per puro divertimento, ma alla fine della settimana ne avevamo già passate tante insieme da poterci considerare amici.

Laisamis, Kenya, febbraio 2020 (Khadija Farah, The New York Times/Contrasto)

Dopo Laisamis, la strada che porta a Sibiloi è composta da 404 chilometri di sabbia e rocce. Ogni tanto superavo dei boda boda, i mototaxi, molto comuni nel Kenya rurale; ma per la maggior parte del tempo ho condiviso la strada solo con sciacalli, antilopi, struzzi e qualche iena.

Serve un livello ancora più alto di concentrazione per guidare per ore sulla sabbia o sulla ghiaia. Ci siamo fermati per raccogliere dell’acqua e per scattare foto, ma per il resto del tempo sono rimasta focalizzata sulla strada che avevo davanti.

Cosa pensano le persone che passano ore in sella a una moto? Io non pensavo a niente. La mia mente era svuotata, a parte la musica che mi arrivava dagli auricolari del casco e il mantra che mi ripetevo: “Cerca di arrivare al prossimo punto di riferimento”.

Ho avuto quasi un sussulto quando alla fine della giornata ho visto all’improvviso il lago Turkana, ammiccante sotto il sole, come a dire: “Ben fatto”.

Un tragitto di venti chilometri lungo la riva del lago porta a Loiyangalani. Qui i campeggiatori hanno l’imbarazzo della scelta e possono trascorrere la notte sulle splendide spiagge nere del parco nazionale South Island. Ma ci sono anche degli alberghi semplici e puliti. Ho scelto uno di questi perché i lunghi tragitti in moto sono fisicamente impegnativi, dato che devi mantenere la posizione per ore, senza supporti. Più a nord, nel parco nazionale di Sibiloi, il Kenya wildlife service gestisce l’unico alloggio economico, che dev’essere prenotato in anticipo, via radio, da Loiyangalani.

La strada tra questi due avamposti si snoda attraverso il deserto, senza punti di riferimento, per più di cento chilometri. Per gli spiriti avventurosi è un paradiso: sabbia profonda, ripidi pendii rocciosi, carovane di cammelli che ti obbligano a fermarti all’improvviso per dargli la precedenza.

Sono caduta tre volte, ma per fortuna avevo buone protezioni. Ogni volta mi sono rialzata, ho rimesso in piedi la moto e sono ripartita. Dopo la prima caduta, le guide hanno smesso di uscire dall’auto per venire ad aiutarmi, perché avevano capito che sarei risalita in sella prima che potessero raggiungermi.

L’arrivo a Sibiloi mi ha fatto sentire realizzata, in un modo che mi ha cambiata per sempre. Una delle guide mi ha fatto capire meglio quello che avevo fatto. A cena (a base di pesce fresco di lago, catturato sotto i nostri occhi) mi ha detto con un sorriso: “Da oggi puoi considerarti una vera motociclista”.

In qualche modo sapevo che aveva ragione. ◆as

Nanjala Nyabola è una scrittrice e studiosa di politica e tecnologia keniana. Ha scritto Travelling while black. Essays inspired by a life on the move (Hurst 2020).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1522 di Internazionale, a pagina 148. Compra questo numero | Abbonati