“L’Europa sarà forgiata dalle sue crisi”, scriveva nel 1976 Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Unione europea, “e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolverle”. A meno di cinquant’anni di distanza, la prima parte della profezia di Monnet si è certamente realizzata. L’eccessiva austerità finanziaria e la lunga stagnazione dei primi dieci anni dei duemila, il tragico spettacolo della crisi dei rifugiati e l’insorgere dei partiti populisti di estrema destra in tutta Europa sembravano già più che sufficienti per testare le capacità di gestione delle crisi e l’unità politica dell’Unione europea. Poi sono arrivati il covid-19, che ancora mette a dura prova i sistemi sanitari pubblici degli stati dell’Unione, e la guerra imperialista di Vladimir Putin, che l’ha sottoposta a un altro stress test.
La spalla di Draghi
Tra lo scetticismo generale, molti sosterrebbero che allo scoppio del conflitto l’Europa ha mostrato di essere unita. La condanna esplicita dell’aggressione di Vladimir Putin e il sostegno alla lotta ucraina hanno portato molti dei principali governi europei a inviare aiuti militari a Kiev e a chiedere un embargo sul gas russo. Ma a due mesi dall’inizio dell’invasione, senza negoziati all’orizzonte, motivi economici e interessi nazionali diversi hanno diviso i paesi europei su questioni di strategia e posizionamento politico. Oggi il piano di Bruxelles per affrontare la crisi ucraina e le sue conseguenze economiche rimane dolorosamente poco chiaro.
Imperturbabile di fronte alla serie di crisi esistenziali che l’Unione europea ha dovuto affrontare negli ultimi mesi, il segretario del Partito democratico (Pd) Enrico Letta è rimasto ottimista. Facendo riferimento alla previsione di Monnet, in una recente intervista ha affermato che “l’Europa troverà la sua unità attraverso questa crisi”. Dopo essersi allontanato dalla scena politica nel 2014, vittima del successo di Matteo Renzi, diventato segretario del Pd, Letta è tornato in Italia nel 2021 per accompagnare l’ex presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi in un altro esperimento tecnocratico all’italiana. Come il precedente governo di unità nazionale, anche quello attuale è nato con l’obiettivo di “salvare” l’Italia dall’ennesima crisi.
Sotto la guida di Draghi, i leader politici italiani hanno mostrato una rinnovata passione per i valori europei e la responsabilità finanziaria. Con il più grande pacchetto d’incentivi della storia dell’Unione europea pronto per essere speso, partiti fino a quel momento in guerra tra loro hanno improvvisamente superato ogni differenza e inimicizia. Non c’è niente come le ricette di un banchiere centrale – ex vicepresidente della banca d’affari Goldman Sachs – per sanare le vecchie divisioni tra sinistra e destra.
Eppure, tra i partiti che compongono il governo di unità nazionale, quello di Letta è l’unico che può vantare credenziali impeccabili nei confronti dell’Unione europea e della Russia. A differenza dei suoi avversari, non ha scheletri euroscettici nell’armadio. E mentre i suoi rivali di destra hanno rapporti opachi con personaggi come Putin e Viktor Orbán, Letta non solo è un convinto europeista, ma anche un alleato di lunga data degli Stati Uniti. Solo pochi giorni dopo la decisione della Germania di aumentare drasticamente le spese per la difesa, una scelta impensabile nella storia recente dell’Europa, Letta ha sostenuto l’aumento della spesa militare al 2 per cento del pil, come richiesto dall’adesione alla Nato.
In soccorso al liberismo
Questa decisione è stata motivata da una convinzione più grande, che è al centro del manifesto recentemente pubblicato da Letta e in cui espone la sua visione di “un nuovo ordine europeo”. Apparso, curiosamente, sul quotidiano di centrodestra il Foglio, il manifesto di Letta può essere riassunto nello slogan che ha usato nel suo appello agli altri partiti di centrosinistra europei: “Quando sei in difficoltà, gioca al rialzo”. In un momento spartiacque come questo, sono necessarie misure straordinarie e l’Europa dovrebbe essere all’altezza delle aspettative che suscita dal punto di vista economico, morale e militare. Certo, l’Unione ha sempre mostrato più sintonia in materia di sicurezza che sulle politiche finanziarie e sociali, eppure questo grado di coesione in Europa mancava da tempo, e per alcuni è motivo di ottimismo.
Il Pd si è svincolato dalla sua dipendenza dagli elettori della classe operaia
Questo non solo perché l’aggressione russa contro l’Ucraina ha alimentato una rinascita di nostalgia per la guerra fredda, polarizzando il dibattito su questioni che sembravano relegate al passato. L’Europa sta attraversando circa due decenni di turbolenze politiche, economiche ed esistenziali, con la democrazia liberale che vacilla, minacciata dai partiti di estrema destra, dall’autoritarismo e da molte altre spine nel fianco. È proprio guardando a questa situazione che Letta vede un’occasione che non può essere sprecata: è il momento di rendere nuovamente egemoni i valori liberali e di schierarli contro gli euroscettici, i populisti e l’estrema destra sostenuta dalla Russia. In altre parole, contro le forze politiche con cui governa.
È una situazione paradossale. Letta è il più fermo sostenitore del governo Draghi e usa il potere del suo partito per difenderlo dai disaccordi interni alla maggioranza. In nome dell’unità nazionale, il segretario del Pd è al governo con il Movimento 5 stelle, fino a poco tempo fa il partito populista per eccellenza; con Silvio Berlusconi, che ha descritto Putin come il più grande leader mondiale; e con Matteo Salvini, che nel 2015 si è presentato al parlamento europeo con un’immagine di Putin sulla maglietta e che non ha mai nascosto il suo desiderio di far uscire l’Italia dall’Unione europea. Un’alleanza così anomala da parte del Partito democratico si potrebbe spiegare in termini di prospettive elettorali: se gli italiani votassero oggi, secondo i sondaggi una coalizione di partiti di destra porrebbe fine alle sue ambizioni. Ma questa spiegazione non basta. Il sostegno di Letta a Draghi e al suo programma non è solo strategico, ma politico.
Enrico Letta incarna un orientamento comune a molti leader di partiti di centrosinistra, che propongono un mix di diritti sociali e civili diluiti, un ambientalismo svogliato e politiche economiche liberiste che favoriscono la flessibilità del mercato, una finanza regressiva, una debole lotta contro le delocalizzazioni e, di recente, il trasferimento di risorse alla spesa militare, non esattamente il settore più verde.
In Italia come altrove, i partiti socialdemocratici non hanno mai veramente smesso di promuovere le politiche della terza via: nonostante alcuni cambiamenti di facciata sul tema delle disuguaglianze, rimangono riluttanti ad assumersi la responsabilità della situazione attuale e non sono quindi in grado di offrire alcuna alternativa.
Invece di cercare un modo per aumentare il potere del lavoro sul capitale, il principale partito di centrosinistra italiano si è svincolato dalla sua dipendenza dagli elettori dei ceti più bassi, e questo gli ha permesso di spostarsi a destra sulle questioni economiche. Il politologo Nicola Melloni ha affermato che il Pd rappresenta l’unico vero partito di classe: il suo elettorato è composto principalmente da persone molto istruite e benestanti, che vivono nelle aree urbane. Quello che gli economisti Stefano Palombarini e Bruno Amable chiamano il bloc bourgeois (il blocco borghese). Solo il 10 per cento dei voti arriva dai ceti più bassi, dai precari e dai disoccupati.
Questo non significa che all’interno del Pd non si discuta sui temi fondamentali di oggi. Potrebbe sembrare logico che in tempi di difficoltà economiche i partiti di sinistra traggano un vantaggio elettorale dall’attribuire maggiore importanza alla ridistribuzione della ricchezza. Dalle disuguaglianze al cambiamento climatico, Letta è stato attento a presentare se stesso e il suo partito come progressisti, e all’interno del partito e del suo elettorato c’è sempre spazio per alcune idee di sinistra da discutere e occasionalmente sostenere.
Ma dietro questa facciata pluralista si nasconde il nucleo postideologico, nato negli anni novanta, della “fine della storia” (uno dei concetti chiave dell’analisi del politologo Francis Fukuyama, secondo cui il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del ventesimo secolo nella forma della democrazia liberale), l’ultima possibilità per una classe dirigente da tempo priva di idee per dimostrare che consentire al mercato di gestire la nostra vita può ancora funzionare, se solo riuscissimo a convincere le élite a condividere il bottino. Alla ricerca di un’identità che possa nascondere la loro inerzia sulle riforme sempre più necessarie, a Letta e ai suoi non rimane altra strategia che quella di rappresentarsi come l’ultimo baluardo contro la crescente ondata di populismo e nazionalismo di estrema destra. Gli ultimi difensori, secondo le stesse parole di Letta, di “uno stile di vita e un modello di sviluppo unici”, minacciati dall’autoritarismo.
Da quali leader autoritari il segretario del Pd si senta minacciato dipende però dalle contingenze storiche: Letta ha affermato che l’Unione dovrebbe “riprendere i rapporti” con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, i cui bombardamenti sui civili curdi e violazioni dei diritti umani sono ben noti. Non sorprende poi che la vittoria di Emmanuel Macron in Francia sia stata definita da molti esponenti del centrosinistra italiano una vittoria contro Putin, il nazionalismo e l’euroscetticismo, un successo che dimostra la validità della sua strategia politica. Tracciando una linea netta tra noi e loro, quelli che credono nel progetto europeo e chi appoggia la Russia, Letta non solo riesce a nascondere l’assenza di vere soluzioni economiche e sociali sulla crisi attuale, ma crea un forte legame tra quelli che considera valori europei e il sostegno all’Unione europea.
Non importa che Macron abbia consegnato la sfera economica alle forze di mercato usando il braccio autoritario dello stato per placare qualsiasi malcontento, che abbia adottato alcune posizioni dell’estrema destra sull’islamofobia, e che così facendo abbia consentito a Marine Le Pen di ottenere tre milioni di voti in più rispetto alle elezioni del 2017.
Sostenere governi tecnocratici
Come il successo dell’estrema destra dimostra, questa narrazione solleva molti dubbi: la strategia di Macron è problematica sul lungo termine, ma non si può negare che gli abbia garantito dieci anni di potere per consolidare il suo progetto neoliberista. In Italia, però, questa stessa strategia è impraticabile. Il sistema elettorale italiano non mette mai due candidati uno contro l’altro. Potendo scegliere tra molti partiti, chi vota è meno incentivato a farlo contro un candidato e questo limita l’influenza di quella fetta di elettorato che in Francia ha contribuito alla vittoria di Macron. Per governare, a un partito che si rifiuta di allargare la propria base ascoltando le lamentele di vaste fasce della popolazione, non resta che sostenere i governi tecnocratici, come il Pd ha fatto con Mario Monti nel 2011 e con Draghi nel 2021, o governare con partiti di destra e ambigui esperimenti populisti, come ha fatto quattro volte negli ultimi nove anni.
Alla fine, ciò che conta veramente è coltivare un’immagine di responsabilità economica e finanziaria per non perdere seggi e sostenere riforme volte a modernizzare il capitalismo italiano. Nel 2011 queste riforme strutturali sono state proposte per evitare l’esplosione del debito pubblico; nel 2021 sono diventate essenziali per ricevere il pacchetto di stimolo non poi così ricco dell’Unione europea. Se si guarda oltre la propaganda dei mezzi d’informazione che per mesi ha tentato di presentare il mandato di Draghi come il ritorno a un’età dell’oro keynesiana, si rimane a fissare increduli una riproposizione dell’ideologia che è al centro dell’attuale crisi sociale: la convinzione che, se riuscissimo a eliminare i lacci burocratici che ostacolano l’iniziativa privata e i meccanismi selettivi del mercato, ne seguirà una crescita vantaggiosa per tutti.
Letta sostiene questo programma in nome dei valori europei, e forse l’unico vero errore è che qualcuno ne sia sorpreso. La fedeltà del suo partito al bloc bourgeois e il terreno ideologico su cui si basa per capire il mondo di oggi lasciano poco spazio a un’alternativa. Ma così rischia di fondare il proprio successo elettorale su una classe media sempre più ridotta e scontenta, abbandonando del tutto i ceti più deboli. Molti smetteranno di votare, altri andranno alla ricerca di un leader che offra spiegazioni per una crisi apparentemente irrisolvibile. Il rischio quindi è che sempre più persone si rivolgano a candidati che propongono una retorica razzista, nazionalista e in opposizione al sistema per puntare il dito contro i presunti responsabili.
In Italia questa voce è rappresentata da Fratelli d’Italia, che i sondaggi danno come primo partito, premiato per essere rimasto fuori dal governo Draghi. Gli elettori, sempre più incapaci di vedere differenze tra le politiche economiche dei partiti tradizionali, si sono concentrati su questioni socioculturali. Su questo terreno, la sinistra è stata incapace di opporsi alle narrazioni degli avversari, favorendo la crescita dell’elettorato di estrema destra.
L’esempio di Mélenchon
Un’alternativa c’è. Il programma di Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto il 22 per cento dei voti al primo turno delle elezioni francesi, dimostrando che, soprattutto tra gli elettori più giovani e più poveri, c’è chi chiede il salario minimo, investimenti sull’istruzione e assistenza sanitaria. Ma anche lotta alle disuguaglianze e un piano concreto contro il cambiamento climatico. Sono idee condivise anche da molti italiani, ma è probabile che sostenerle fino in fondo porterebbe una parte dell’elettorato del Pd a sentirsi tradito da uno spostamento a sinistra.
Tuttavia, senza un cambio di passo da parte del Partito democratico, e nessuno in grado di rappresentare vere posizioni di sinistra, le prossime elezioni di marzo 2023 vedranno il Pd guidare l’ennesimo governo centrista con la destra, oppure la tanto rimandata vittoria dell’estrema destra. In un caso o nell’altro, non si vedono vie di uscita da questa crisi. ◆ bt
Niccolò Barca è giornalista e fotografo, vive a Roma.
Tommaso Grossi è un analista politico.
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Questo articolo è uscito sul numero 1460 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati