Alle otto del mattino Rudi Swart, 33 anni, si prepara per un’altra giornata nel suo “ufficio”. Caricata la borsa da lavoro sull’auto, passa a prendere il collega Matthew Kingma, arrampicatore esperto, nella cittadina di George, in Sudafrica. Da lì ci vogliono venti minuti per arrivare al parcheggio della foresta di Groenkop e poi venticinque minuti a piedi per raggiungere un esemplare alto diciassette metri di Curtisia dentata, un albero chiamato anche assegai, su cui Swart deve arrampicarsi.

Prima di salire, i due devono lanciare su un ramo adatto una corda con un’estremità zavorrata. È un’operazione frustrante che può richiedere anche un’ora di tentativi, ma oggi sono fortunati: Kingma ci riesce al quarto lancio. Quando la corda è intorno al ramo, la fanno scendere verso il basso e la usano per portare una seconda corda in cima all’albero. Swart aggancia la sua imbracatura a una delle corde e si arrampica sull’altra, mentre Kingma aspetta a terra e fa in modo che il carico di Swart non cada. “Quando ho cominciato ero lento”, racconta Swart, “ma ora riesco a salire in dieci minuti”.

Dopo essersi accomodato su un ramo da cui può osservare un ciuffetto di piccoli fiori biancastri di assegai, Swart si mette all’opera. Nelle successive quattro ore prende nota di ogni creatura che visita i fiori, e cerca di catturare almeno un esemplare di ogni specie. Ogni ora registra i dati sulla temperatura e la velocità del vento, grazie all’anemometro portatile che ha con sé. Kingma, nel frattempo, aspetta seduto a terra.

Il giorno dopo, meteo permettendo, rifaranno la stessa cosa. Come parte di un piccolo gruppo di studiosi che sta cercando di capire il mondo segreto sopra le nostre teste, Swart e Kingma non hanno tempo da perdere. Pur essendo degli inestimabili hotspot di biodiversità e serbatoi di carbonio, le foreste indigene dell’Africa sono tra i biomi meno conosciuti al mondo.

In totale Swart ha compiuto trentasei arrampicate (ventiquattro di giorno e dodici di notte) su ventiquattro esemplari di sei diverse specie di alberi della foresta di Groenkop. Tra il settembre 2021 e il gennaio 2022, ha trovato centocinque diversi insetti e invertebrati. Tra questi, due nuovi sirfidi sono stati formalmente descritti da John Midgley, esperto del KwaZulu-Natal museum di Pietermaritzburg. È difficile stabilire quante altre specie non ancora descritte potrebbe aver trovato: identificare nuove specie e capire qual è il loro posto nell’ecosistema costa tempo e denaro. Per questo è stato descritto solo il 10-20 per cento degli insetti di tutto il mondo.

“Quando cammini in una foresta, è buio e fresco, e in realtà non vedi molta vita”, dice Swart. “Ma tra le chiome degli alberi è tutta un’altra storia: è luminoso, soleggiato, pieno di vita”.

Charles Haddad, 45 anni, esperto di ragni e prolifico autore di articoli scientifici dell’università sudafricana del Free State, è d’accordo: “Una cosa è sapere cosa succede vicino al suolo. Ma i grandi alberi fioriscono in cima. Se vuoi avere un’idea di chi li impollina devi andare lassù”.

Usando il canopy fogging – un metodo introdotto negli anni settanta dall’entomologo statunitense Terry Erwin, che consiste nello spruzzare sulla chioma di un albero insetticidi specifici per uccidere i piccoli animali che ci vivono – Haddad ha identificato sei nuove specie di ragno saltatore nella foresta di Hogsback, circa 450 chilometri a est di quella di Groenkop. Ha anche identificato cinque nuove specie di ragni-sacco con un corpo simile a quello delle formiche, e sette nuove specie di ragni dal sacco scuro nella riserva di Ndumo, vicino al confine tra Sudafrica e Mozambico.

Ultima frontiera

Quella di Groenkop è una delle tante foreste di specie endemiche sparse tra Città del Capo e il Benin, in Africa occidentale. Erwin, con un’espressione diventata famosa, definì la loro volta o canopia “l’ultima frontiera biotica”.

Parole più che mai appropriate per l’Africa: Città del Capo è uno dei centri urbani più grandi e sviluppati del continente, ma le foreste della Table mountain, il massiccio che sovrasta la città, “probabilmente contengono molte specie di cui non sappiamo nulla”, osserva Swart.

Le foreste afromontane dell’Africa (cioè quelle delle regioni montuose del continente) sono uniche al mondo. Si estendono su vaste regioni, in zone spesso circoscritte e isolate, a centinaia di chilometri di distanza l’una dall’altra. Ma le specie arboree che ospitano hanno tra loro delle somiglianze osservate fin dai tempi di Charles Darwin: il Podocarpus latifolius (un sempreverde chiamato real yellowwood), l’Olea capensis (ironwood o ulivo del Capo) e il faggio del Capo crescono dal Sudafrica all’Etiopia. E, man mano che gli scienziati studiano le foreste afromontane, scoprono nuove specie di insetti che le accomunano.

“Sappiamo più cose sulla superficie della Luna di quello che succede tra gli alberi”, commenta enfaticamente Swart. Uno dei motivi è la difficoltà d’accesso. L’Africa è l’unico continente che non ha una gru per l’osservazione della volta forestale (nel 2017 ce n’erano ventidue in tutto il mondo), cioè una struttura permanente che permette di accedere alle chiome sia in orizzontale sia in verticale. Anche se queste gru non sono perfette perché sono fisse, sono comunque il modo più semplice per studiare le chiome degli alberi e hanno rivoluzionato le scienze forestali ovunque, tranne che in Africa. Grazie a una gru installata in Australia, sono stati pubblicati più di centoventi articoli scientifici in diverse discipline. Uno di questi studi ha evidenziato che il nettare delle piante e la melata prodotta da alcuni insetti forniscono sostentamento alle comunità di formiche.

Un lavoro faticoso

I ricercatori africani non devono solo percorrere lunghe distanze, spesso su strade malridotte, per raggiungere foreste remote. Devono anche usare attrezzature per l’arrampicata o ricorrere a tattiche come le trappole con esche o il fogging per ottenere dei campioni. Un’alternativa è percorrere faticosamente a piedi il sottobosco e raccogliere gli insetti morti, di solito a causa di eventi atmosferici. Per studiare le chiome degli alberi si possono usare anche i droni, che però non passano tra i rami.

Tutti questi sistemi hanno dei limiti. Arrampicarsi sugli alberi richiede attrezzature, competenze, forma fisica e tempo. Le trappole con l’esca tendono ad attirare solo alcune specie. Il canopy fogging è relativamente costoso e non è facile applicarlo nel modo corretto. Bisogna aggiungere l’obbligo morale di catalogare ogni animale ucciso, dice Haddad: “Nebulizzare pesticidi su un albero può significare un lavoro che andrà avanti anche per sei mesi”, spiega, indicando un vasetto della maionese pieno di campioni.

Sfide a parte, si ha la possibilità di scoprire nuove specie. “Con finanziamenti a sufficienza si potrebbe costruire un’intera carriera studiando un solo albero”, dice Swart.

Con tanti alberi e poche persone impegnate a scoprire cosa ronza tra le loro chiome, gli scienziati africani devono per forza collaborare e mettere in comune le risorse. L’interesse principale di Swart, per esempio, è l’ecologia forestale. Nello specifico, studia gli insetti responsabili dell’impollinazione dei grandi alberi.

Per il suo lavoro ha bisogno di affidarsi alle competenze di esperti come Midgley, Haddad e altri. A sua volta, lui li aiuta a capire meglio gli animali che studiano.

Ogni volta che cattura un sirfide, lo invia a Midgley. I ragni ad Haddad. Le vespe di solito vanno a Simon van Noort, entomologo dell’Iziko museum di Città del Capo, mentre le falene sono identificate da Hermann Staude, autore della prima guida sudafricana a questi lepidotteri.

Haddad e Midgley, invece, condividono tutte le “prede accidentali” delle loro missioni. Questo grande gioco di scambio dei campioni riguarda tutta l’Africa, e oltre. Per esempio, Massimiliano Virgilio, un esperto del moscerino della frutta originario della Repubblica Democratica del Congo, invia i campioni raccolti all’Africa museum, in Belgio, l’istituzione che finanzia il suo lavoro. Ashley Kirk-Spriggs e Hitoshi Takano, del museo dell’African natural history research trust nel Regno Unito, condividono i campioni catturati con le loro trappole in Congo. I musei di tutto il mondo conservano almeno altri cento milioni di campioni raccolti nel corso di secoli dagli scienziati dell’epoca coloniale.

Alberi di sicomoro nella riserva di Ndumo, Sudafrica, novembre 2010 - Fve Media/Alamy
Alberi di sicomoro nella riserva di Ndumo, Sudafrica, novembre 2010 (Fve Media/Alamy)

“La maggior parte dei musei è disposta a condividere, così evitiamo di dover viaggiare tanto”, dice Midgley, 41 anni, con la barba rossiccia un po’ incolta. “È anche loro interesse far identificare quei campioni”.

Questo almeno in teoria: Midgley indica un mobile di legno con dieci minuscoli cassetti nell’angolo del suo ufficio. In ognuno c’è un gruppo di insetti: mosche, cicale, bittacidi… “È il mio armadio della vergogna”, dice ridendo. “È pieno di campioni che non ho avuto ancora il tempo di esaminare”.

Midgley ha catalogato 25 specie diverse di sirfidi nel suo giardino, tra cui almeno una specie non ancora descritta. “Tutti hanno sicuramente visto dei sirfidi”, dice. “Ma spesso li confondono con api o vespe”. Anche se le singole specie sono affascinanti, quello che interessa a Midgley è capire “perché le troviamo dove le troviamo”. C’entra la geografia (quanto a nord, quanto a sud), ma “si deve guardare più nel dettaglio. E la volta delle foreste può spiegarci qualcosa”.

I due generi di sirfidi su cui ha lavorato di recente sono sempre presenti nelle foreste. Il primo si trova in zone che vanno da George, dove lavora Swart, a Capo Verde, uno stato insulare al largo della costa occidentale dell’Africa. Il secondo vive in un’area leggermente meno estesa, che va dal Sudafrica al Togo. “Sono animali con aree di distribuzione grandissime, ma ne abbiamo pochi campioni”, dice Midgley.

Queste creature vivono infatti tra le chiome degli alberi, lontane dalla vista dei ricercatori, se non quelli più intrepidi. Anche se è ancora agli inizi, lo sviluppo delle ricerche sulla volta forestale può offrire risposte ad alcune domande affascinanti e importanti, commenta Midgley, prima di snocciolare una lista di domande ancora in cerca di risposta: “Queste foreste sono ancora collegate tra loro? Può avvenire uno scambio genetico su così vasta scala? Cosa può insegnarci lo studio delle canopie sulla paleostoria delle foreste e dell’Africa stessa? E cosa significa questo per la conservazione di queste nicchie di biodiversità?”.

Secondo la teoria dell’evoluzione tutte le specie appartenenti a un genere discendono da un’unica specie. Nel corso di milioni di anni, man mano che gli individui di quella specie incontrano nuovi habitat e nuove sfide emergono nuove specie, attraverso il processo chiamato selezione naturale. Più un habitat è isolato dal resto delle specie, come un’isola, più rapidamente si verificherà la speciazione.

Le foreste di specie endemiche africane stanno diventando più frammentate: quelle afromontane, per esempio, si sono ridotte del 18 per cento in vent’anni. Se per i mammiferi questo è un problema perché si riduce la loro connettività, per le creature volanti non è un ostacolo altrettanto grande. Spiega Midgley: “Gli insetti si muovono in modo relativamente libero nella loro area. Ogni tanto decidono di andare da un’altra parte. Così salgono in cielo e partono”.

Foreste da proteggere

◆ L’Africa ha degli ecosistemi forestali unici, oggi minacciati dallo sfruttamento eccessivo, dalla conversione dei terreni per altri usi e dalla crisi climatica, spiega su The Conversation Robert Nasi, direttore del Centre for international forestry research, con sede in Indonesia. Tra gli ecosistemi più importanti ci sono le foreste di argan (Argania spinosa), che si estendono lungo la costa del Marocco. A sudest, nelle foreste pluviali del bacino del fiume Congo crescono alberi monumentali come il mogano sipo o il moabi. Le foreste afromontane dell’Africa orientale, che vanno dalla Repubblica Democratica del Congo all’Uganda all’Etiopia, ospitano molte specie endemiche, tra cui l’Entandrophragma excelsum, che con i suoi 85 metri è considerato l’albero nativo più alto del continente. Dall’Angola alla Tanzania, i boschi di miombo si estendono su 2,7 milioni di chilometri quadrati e danno sostentamento a più di 65 milioni di persone. Infine, nel sud del Madagascar, la foresta spinosa ospita specie uniche di baobab e alberi del polpo.


Le mosche, per esempio, hanno un’ottima vista e possono percorrere fino a cinquanta chilometri al giorno. Per questo gli è relativamente facile spostarsi da una zona forestale all’altra. E, a quanto pare, è proprio quello che fanno: Midgley ha scoperto che molte specie sono presenti in vari siti, alcuni dei quali separati da centinaia, se non migliaia, di chilometri.

I ragni non volano, ma possono disperdersi con il ballooning, cioè producendo dei filamenti e lasciandosi trascinare dal vento. Alcune specie di ragno hanno percorso in questo modo anche migliaia di chilometri, ma come mezzo di trasporto è piuttosto imprevedibile. Questo probabilmente spiega perché Haddad non ha trovato molte delle stesse specie di ragno nei siti in cui ha praticato il fogging a Hogsback e a Ndumo. Si tratta di una semplificazione, perché ci sono molti altri fattori nella speciazione. Tutti i ragni sono predatori, per esempio, mentre le mosche possono occupare molte nicchie ecologiche. È per questo che al mondo ci sono circa il triplo di specie di mosche (152mila) rispetto al numero di specie di ragni (52.400).

Quadro d’insieme

Ma, per quanto affascinanti, perché dovremmo interessarci alle volte forestali? “La risposta è semplice: la distruzione del pianeta sarebbe un male anche per gli esseri umani”, spiega Midgley. “Le persone sanno che gli alberi sono importanti, ma lo sono perché forniscono sostentamento a tutte queste specie”.

E il rapporto è reciproco. “Questi alberi giganteschi, essenziali per il sequestro del carbonio, dipendono per la loro sopravvivenza da insetti minuscoli”. Gli insetti non hanno solo il compito di impollinare gli alberi, spiega Swart. “Mantengono la connettività tra le foreste e preservano la salute degli ecosistemi”.

Catalogare il mondo segreto sopra le nostre teste è il primo passo per conservare la biodiversità, dice Midgley: “Dobbiamo sapere cosa abbiamo. E poi possiamo provare a capire in che modo i pezzi s’incastrano tra loro”.

“Ci sono ancora molte caselle vuote da riempire”, conferma Haddad. “Ci sono aree del mondo su cui abbiamo tanto materiale, mentre su paesi come l’Angola e il Mozambico la ricerca è ancora molto scarsa. E le volte forestali sono l’ultimo posto che si va a studiare quando si arriva in un nuovo paese”.

L’impresa appare titanica, ma i ricercatori non sembrano scoraggiarsi. Mid­gley sta sperimentando delle esche artificiali per attirare i sirfidi nelle trappole a secchiello; Haddad sta “freneticamente tentando di descrivere più specie possibili” e Swart vuole procurarsi i fondi necessari per comprare la prima gru forestale dell’Africa.

La buona notizia è che non è troppo tardi. “Abbiamo ancora foreste funzionali”, dice Midgley. “Dobbiamo solo continuare a fare ricerca”.

E c’è un unico modo per farlo: guardare all’insù. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1606 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati