“Ha perso la vita per un capello”, titola Ham-mihan, commentando la morte di Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa a Teheran perché accusata di non indossare il velo in modo conforme alle regole. In copertina il giornale riformista pubblica un’immagine del disegnatore iraniano Hadi Heidari, in cui una serie di faldoni cadono come pezzi di un domino. Su ognuno c’è scritto il nome di un caso legato alle vittime della violenza della polizia. La morte di Amini, che aveva 22 anni, ha scatenato la collera degli iraniani nelle strade e sui social network. Durante il funerale, che si è svolto il 17 settembre a Saqez, la città della provincia del Kurdistan in cui viveva Amini, c’è stata una contestazione repressa dalle forze di sicurezza e nei giorni seguenti le proteste si sono estese al resto del paese. Il 20 settembre il governatore del Kurdistan, Ismail Zarei Koosha, ha affermato che almeno tre persone sono state uccise nelle manifestazioni nella provincia. La mobilitazione si è diffusa anche sui social network, dove molte iraniane hanno pubblicato video in cui si tagliano i capelli e bruciano i loro veli. Dalla rivoluzione iraniana del 1979 l’hijab, il velo che copre la testa, è obbligatorio per tutte le donne che hanno compiuto nove anni, ma il 5 luglio 2022 una direttiva ha inasprito le punizioni per chi lo usa “in modo improprio”. Il giornale economico Jahanesanat critica l’accanimento del governo sulla questione del velo e l’aumento della violenza della polizia religiosa, che contribuisce a “dividere la società e ad aggravare le tensioni in un paese che deve affrontare già molti problemi”. Nelle ultime settimane si sono diffuse varie notizie di violenze delle autorità nei confronti di donne accusate di non rispettare le restrizioni sull’abbigliamento. ◆
Settembre al buio
L a rete elettrica del Sudafrica, la prima potenza industriale del continente, è al collasso. “Le due settimane dal 3 al 18 settembre sono state le peggiori nella storia della Eskom, l’azienda elettrica pubblica”, scrive News24. In pochi giorni sono stati registrati un centinaio di incidenti e avarie, che hanno costretto l’azienda a sospendere la produzione in metà delle centrali del paese e a programmare una serie di lunghi blackout. Il presidente Cyril Ramaphosa è rientrato in anticipo dall’estero per occuparsi della crisi.
Prove di atrocità
Il 19 settembre la Commissione internazionale di esperti in diritti umani sull’Etiopia ha pubblicato un rapporto in cui afferma che “esistono motivi fondati per credere che dal 3 novembre 2020 le fazioni in guerra in Etiopia abbiano commesso violazioni dei diritti umani che potrebbero essere considerate crimini di guerra e contro l’umanità”, scrive Addis Standard. Il 20 settembre il Fronte popolare di liberazione del Tigrai ha dato notizia di un’offensiva su ampia scala delle truppe eritree nella loro regione. Secondo la Bbc, Asmara nei giorni precedenti aveva cominciato a richiamare i riservisti dell’esercito.
I soldi in banca
Il 16 settembre cinque banche libanesi sono state assalite da clienti che volevano recuperare i loro risparmi, bloccati a causa delle restrizioni imposte dal governo per far fronte alla crisi economica ( nella foto, una protesta davanti a una banca ). Questi eventi stanno suscitando grande sostegno nell’opinione pubblica e hanno spinto l’Associazione delle banche del Libano a ordinare la chiusura di tutte le filiali per tre giorni. **Al Safir al Araby ** racconta di Sally Hafez, entrata nella sede della Blom bank di Beirut con in mano una pistola finta, per prelevare dal conto migliaia di dollari e pagare le cure alla sorella malata. Questa storia “paradossale”, commenta il giornale, rivela “il furto organizzato dalle banche” ai danni dei libanesi negli ultimi anni.
Camerun Otto persone, tra cui preti e suore, sono state sequestrate il 16 settembre in una parrocchia a Nchang, un villaggio nella regione anglofona.
Guinea Equatoriale Il 19 settembre il paese ha abolito la pena di morte con una legge promulgata dal presidente Teodoro Obiang Nguema Mbasogo.
Palestina La famiglia di Shireen Abu Akleh, la giornalista palestinese-statunitense uccisa l’11 maggio durante un raid dell’esercito israeliano in Cisgiordania, ha chiesto alla Corte penale internazionale di aprire un’indagine sulla sua morte.
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