Aver paura non basta a scongiurare i pericoli. Temevamo che le elezioni presidenziali statunitensi potessero finire così: con la vittoria di Donald Trump, che a 78 anni entrerà per la seconda volta nello studio ovale e guiderà la più grande potenza mondiale. La suspense di una sfida che per mesi era sembrata molto equilibrata aveva alimentato la speranza di scampare alla minaccia. Invece eccola qui. Forse aggravata dalla delusione, ma soprattutto alimentata dall’esperienza del primo mandato e dal presentimento che il secondo sarà ancora peggio.
Peggio per le donne, che Trump ha promesso di difendere “che lo vogliano o no”. Peggio per le minoranze nere e latinoamericane. Peggio per gli immigrati, che ha detto di voler espellere in massa. Per il pianeta, dato che il futuro presidente degli Stati Uniti se ne infischia del cambiamento climatico. Per l’economia globale, minacciata dal protezionismo e dal nazionalismo del futuro inquilino della Casa Bianca. Peggio per gli equilibri mondiali. Per gli ucraini. Per il Medio Oriente. Peggio per l’Europa, che sembra troppo fragile per resistere ai cattivi venti che soffieranno. Peggio per la pura e semplice verità dei fatti, e quindi peggio per l’informazione. E anche per la cultura e l’istruzione, nemiche della volgarità trumpiana. Peggio per la scienza, che per il vincitore del 5 novembre è tutto fuorché sinonimo di progresso. Peggio, in una parola, per la democrazia. Prima di tutto negli Stati Uniti, ma anche altrove, dato che la vittoria di Trump non potrà che indebolire, in particolare in Europa, lo spirito di resistenza alla rivoluzione reazionaria che da anni sta avanzando in molte delle cosiddette democrazie liberali. L’elezione di Trump fa temere che non sia più in marcia, ma arrivi di corsa. ◆ gac
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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 19. Compra questo numero | Abbonati