Con voce tremante, Patricia Ramírez, madre del “piccolo Gabriel Cruz”, lo scorso 11 giugno ha fatto una promessa davanti ai senatori della commissione interni: nessuna serie tv potrà trarre profitto dall’assassinio di suo figlio, avvenuto nel 2018, quando il bambino aveva otto anni. “Non siamo attori. La morte di Gabriel non è uno spettacolo”, ha detto. I suoi timori sono fondati.
Mesi fa Patricia è venuta a sapere “da fonti dirette” che Ana Julia Quezada, cinquant’anni, l’assassina di suo figlio e fidanzata del suo ex marito, ha avuto accesso a un cellulare in carcere, “con la complicità di alcuni funzionari”. In questo modo è stato possibile intervistarla in videochiamata dal penitenziario di Breva, nella città spagnola di Ávila.
Quezada, che ha nascosto per dodici giorni il corpo del bambino fingendo di partecipare alle ricerche prima di essere sorpresa a spostare il cadavere del piccolo nel portabagagli della sua vettura, sconta in carcere una condanna all’ergastolo, con venticinque anni da trascorrere in regime di sicurezza.
“Abbiamo sempre rifiutato di partecipare a documentari o serie tv basate sulla morte di Gabriel. Purtroppo ci sono persone che cercano di arricchirsi sulla sua morte, macchiando la sua memoria dopo averci strappato la sua vita”, aveva già denunciato pubblicamente Patricia Ramírez lo scorso 11 maggio, durante una manifestazione ad Almería con lo slogan: “I nostri figli non sono in vendita”. Secondo le sue informazioni, Ana Julia Quezada avrebbe addirittura firmato un contratto con la casa di produzione.
Riaccendere la sofferenza
Il suo intervento ha provocato un acceso dibattito in Spagna, dove continua ad allungarsi l’elenco delle serie tv e dei docufilm su fatti di cronaca nera che hanno sconvolto il paese. E sono diverse le produzioni che includono immagini girate di nascosto in carcere. È possibile offrire il microfono a un assassino e consentirgli di esprimere liberamente la sua versione dei fatti, a discapito della verità e con il rischio di far soffrire ancora la famiglia? Quanto vale la storia della morte di un bambino? Vale di più o di meno a seconda dei dettagli morbosi che possono essere forniti? Le piattaforme possono arricchirsi sfruttando fatti di cronaca ritoccati con una patina di finzione, contando sulla curiosità morbosa del pubblico?
Netflix è tra i principali veicoli delle produzioni true crime e le ultime serie e docuserie proposte dalla piattaforma sono state tra i programmi più visti in Spagna. La serie Asunta racconta l’inchiesta sull’omicidio di un’adolescente di dodici anni, uccisa nel 2013 dai genitori adottivi, una coppia altoborghese di Santiago de Compostela.
La fiction ha mantenuto i nomi dei personaggi principali, gli ha fatto indossare gli stessi abiti e girare scene che replicano le foto pubblicate sui giornali all’epoca del delitto e del processo. Candela Peña e Tristán Ulloa interpretano rispettivamente la madre, Rosario Porto, avvocata ed ex console onoraria di Francia a Santiago de Compostela, e il marito, il giornalista esperto di economia Alfonso Basterra, sessant’anni, condannati entrambi a 18 anni di carcere. Porto si è uccisa nel 2020 a cinquant’anni.
Nella serie In fiamme non si parla della morte di un bambino, ma come per altri casi la rabbia delle famiglie si è fatta sentire. La serie racconta la vicenda di Rosa Peral, quarant’anni, agente della polizia municipale di Barcellona che nel 2017 ha ucciso il fidanzato con l’aiuto dell’amante, cercando poi d’incriminare l’ex marito. La serie, interpretata dall’attrice Úrsula Corberó (che qualcuno ricorderà nei panni di Tokyo in La casa di carta), riprende non solo l’intreccio, ma anche i nomi dei due condannati e quello della vittima. Alla fine di ogni episodio si legge un messaggio che riassume il concetto alla base di questo genere televisivo così in voga: “Questa serie è basata su un fatto di cronaca realmente accaduto e di dominio pubblico, ma non pretende di essere una rappresentazione fedele di tutto ciò che è successo. Alcune vicende, personaggi e circostanze sono stati modificati a scopo narrativo”.
La famiglia dell’uomo ucciso, scontenta per il modo caricaturale in cui è stato presentato e preoccupata per le possibili ripercussioni sul figlio ancora piccolo, avrebbe voluto impedirne l’uscita. “Il diritto al rispetto delle vittime si scontra con la libertà di espressione. Per le famiglie può essere molto costoso avviare un procedimento giudiziario dall’esito incerto”, sottolinea l’avvocato Juan Carlos Zayas.
Inganni e compensi
Cosa ancora più assurda, Rosa Peral, che sconta una condanna a venticinque anni di carcere, ha denunciato Netflix per calunnia. Se dovesse ottenere un risarcimento, dovrà versarlo interamente alla famiglia della vittima, che non è stata ancora indennizzata dai due colpevoli.
Un tribunale di Barcellona ha disposto già nel 2023 il sequestro di tutti i guadagni che Rosa Peral potrà ricavare dal docufilm Il caso Rosa Peral, ispirato alla stessa vicenda e uscito quello stesso anno. In quella produzione, trasmessa su Netflix, l’ex agente della polizia municipale difende la sua innocenza, respingendo ogni accusa.
“Non sono stato contattato per la serie, e per partecipare al documentario sono stato ingannato”, riassume il procuratore Félix Martín. “Mai, in nessun momento, mi è stato spiegato che sarebbe stata presentata solo la versione della detenuta e che il documentario le avrebbe fatto da megafono. Quando l’ho visto sono rimasto sconvolto. La decontestualizzazione degli interrogatori e il montaggio servono a far apparire Rosa Peral come una vittima di machismo. Un atteggiamento prossimo al populismo audiovisivo, una terribile mancanza di rispetto per la famiglia, la vittima e la verità”, aggiunge Martín, che ritiene indispensabile organizzare un dibattito sul tema per le vittime, ma anche per le persone condannate, che devono prendere coscienza delle difficoltà che potrebbero derivare dalla loro “celebrità” al momento del reinserimento nella società civile.
“I true crime creano vari problemi”, commenta il giudice istruttore José Antonio Vásquez Taín. “La moda arriva dagli Stati Uniti, dove il podcast Serial è riuscito a dimostrare l’innocenza di un condannato che poi è stato scarcerato. Oggi però aumentano le serie che vogliono far credere nell’innocenza dei condannati o anche solo soddisfare curiosità insane”, prosegue.
Il true crime appaga la fascinazione del male e la fame di contenuti delle piattaforme
Per il docufilm El rey del cachopo: i crimini di César Román, trasmesso su Netflix, il criminale César Román, 49 anni, ha rilasciato un’intervista in videochiamata dal carcere di Alcalá-Meco, nei pressi di Madrid. Questo ristoratore, che nel 2018 ha ucciso e smembrato la sua ex ragazza, si lancia in una teoria del complotto attribuendo l’assassinio di Heidi Paz, 25 anni, a una banda di narcotrafficanti guidata tra l’altro da un commissario di polizia.
“Ci hanno nascosto la partecipazione di Román al documentario”, precisa Alexis Socías, avvocato della famiglia Paz, che appare nella serie insieme alla madre della vittima. “Le videochiamate sono riservate ai parenti. Per una produzione audiovisiva dovrebbero essere vietate. Se Román non è stato già sanzionato, ci assicureremo che questo strappo al regolamento gli impedisca di ottenere dei permessi di uscita o altri benefici”, annuncia l’avvocato. Socías ha poi avviato un procedimento per sapere se il detenuto è stato pagato, e nel caso bloccare qualsiasi versamento per far sì che quel denaro possa essere usato per risarcire la famiglia della vittima.
È in un simile contesto che Patricia Ramírez ha chiesto al senato “un patto di stato” affinché le vittime di “gravi fatti di violenza” possano essere protette dalla “vittimizzazione secondaria”. Vuole impedire che alle ferite inferte dal reato si aggiunga quella inflitta da un sistema giudiziario insensibile o carente. “Quando le case di produzione presentano idee o storie di una qualsivoglia natura al nostro team responsabile dei contenuti, ci atteniamo con attenzione al massimo rigore e al rispetto di cui questi progetti devono dare prova. Il nostro principio guida è che con le storie che raccontiamo non vogliamo emettere giudizi di valore né vittimizzare una seconda volta”, ci hanno risposto via email da Netflix.
Ma la madre di Gabriel Cruz chiede una legge che proibisca alle persone condannate per “crimini particolarmente gravi” di partecipare a documentari, serie tv e libri. Fanno eccezione i casi in cui le vittime o i loro familiari siano d’accordo, cosa non rara nel caso di crimini irrisolti. Rivolgendosi direttamente a Patricia Ramírez, Antonio del Castillo, padre di Marta del Castillo, 15 anni, scomparsa nel 2009, ha difeso l’utilità dei documentari per “evidenziare gli errori investigativi e giudiziari”. L’identità dell’assassino di sua figlia non è mai stata rivelata né è mai stato trovato il corpo della ragazza. “Siete stati fortunati. La polizia ha fatto un buon lavoro”, ha scritto su X, a maggio. “Nel mio caso purtroppo ha fatto solo buchi nell’acqua”. Nel 2021 aveva testimoniato nel documentario ¿Dónde está Marta? Caso aperto, su Netflix.
Anche la madre di Heidi Paz ha partecipato alla docuserie sulla morte della figlia, nonostante “le forti reticenze iniziali”, sottolinea l’avvocato. Alla fine si è fatta convincere per un motivo semplice: César Román non ha mai detto cosa ne è stato del cadavere della ragazza, di cui è stato ritrovato solo il tronco mozzato. Mantenere i riflettori accesi sul caso è per lei l’unico modo per sperare di ottenere delle risposte sulle circostanze della morte e, forse, di poter un giorno scoprire cosa ne è stato di sua figlia.
Come genere narrativo, “il true crime risponde a una funzione sociale molto importante”, sintetizza Vicente Garrido, docente di criminologia all’università di Valencia e autore del saggio True crime. La fascinación del mal (2021). “Quando l’opera è fatta bene, consente un’analisi e un approfondimento dei delitti e ci obbliga a riflettere sulla sofferenza delle vittime: come fa una persona a diventare un assassinio seriale? Come funzionano il sistema giudiziario e la polizia? Può contribuire a fare giustizia”.
Meccanismi ben oliati
Secondo Jordi Costa, curatore presso il Centro di cultura contemporanea di Barcellona e critico cinematografico, la maggior parte delle serie più recenti aumenta il dolore delle famiglie, “ma non la nostra comprensione dei casi”. A suo parere, “nascondendosi dietro l’etichetta accettabile di true crime, rispondono sia alla fascinazione che le persone provano nei confronti del male sia alla fame di contenuti delle piattaforme”. Per produttori e distributori è un vero colpo di fortuna: non bisogna inventarsi nulla, i personaggi sono noti, l’interesse del pubblico è evidente e il riverbero nei mezzi d’informazione è garantito. Inoltre, qualsiasi svolta nel caso può rilanciare il documentario o la serie.
Il meccanismo è ben oliato, gli adattamenti sempre più rapidi, e lo stesso vale per i rischi che ne derivano. “A causa della concorrenza tra piattaforme, i registi cercano crimini sempre più recenti”, sottolinea Vicente Garrido. Sintomatica di questa impietosa corsa all’anteprima nel racconto dell’orrore è la docuserie El caso Sancho, girata mentre ancora si svolgevano le indagini sulla morte del chirurgo estetico colombiano Edwin Arrieta Artega, ucciso e fatto a pezzi il 2 agosto 2023 in Thailandia dal cuoco spagnolo Daniel Sancho, 30 anni, che dichiara di aver agito per legittima difesa.
Nell’episodio pilota, pubblicato su Hbo Max il 9 aprile, il primo giorno del processo, c’è una lunga intervista a Rodolfo Sancho, padre del cuoco nonché famoso attore spagnolo, che difende il figlio. L’avvocata della famiglia Sancho, Carmen Belfagón, ha spiegato la partecipazione del suo cliente al documentario con la necessità di “coprire le spese di un padre che cerca di salvare la vita a suo figlio”. Secondo Hbo Max, l’uomo sarebbe stato pagato 120mila euro. Darling Arrieta, sorella della vittima, si è indignata per questa mancanza di rispetto e di empatia nei confronti del fratello.
Da qualche tempo Patricia Ramírez sente una maggiore considerazione per la sua protesta e il suo dolore. Il 13 giugno ha ricevuto una lettera dalla casa di produzione che secondo i suoi sospetti sarebbe dietro l’intervista all’assassina del figlio, in cui le viene garantito che il progetto sulla sua storia è stato bloccato. Lei però non ha intenzione di fermarsi qui. Dopo aver avuto conferma del fatto che Ana Julia Quezada era effettivamente stata sul punto di firmare un contratto, Ramírez chiede al tribunale di Almería di scoprire “se ci sono altre produzioni o mezzi di comunicazione che desiderano intervistarla”. Nell’attesa si consola con ogni piccolo progresso: a marzo il programma Equipo de investigación del canale La Sesta ha annunciato che non manderà più in onda il suo reportage sulla morte di Gabriel. ◆ gim
Iscriviti a Schermi
|
Cosa vedere al cinema e in "tv". A cura di Piero Zardo. Ogni giovedì.
|
Iscriviti |
Iscriviti a Schermi
|
Iscriviti |
Cosa vedere al cinema e in "tv". A cura di Piero Zardo. Ogni giovedì.
|
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1572 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati