Le operaie sono intorno a un tavolo di metallo. Esaminano i crostacei a uno a uno e li sistemano in mucchi diversi a seconda della dimensione. Sul tavolo accanto altre donne tagliano con le forbici gli animali in due e li ripongono ordinatamente in scatole di cartone. “Questi vanno in Corea”, sottolinea con soddisfazione Atif Athmi, direttore esecutivo della fabbrica. “Da quelle parti il granchio blu è considerato una prelibatezza”. Lo stabilimento di lavorazione del gruppo ittico Jaradah, nella zona industriale di Gabès, in Tunisia, è stato inaugurato nel 2020 ed è il più grande del paese. È l’avamposto di una rivoluzione che ha trasformato una catastrofe ecologica in un’opportunità di sviluppo.
Athmi elenca numeri da capogiro mentre fa vedere la zona in cui ci sono decine di celle frigorifere: “In piena stagione estiva qui lavorano 1.700 persone, soprattutto donne, organizzate su tre turni. Possiamo trasformare fino a settanta tonnellate di granchio al giorno”. Il prodotto, cotto o solo congelato, viene confezionato in base alle richieste dei clienti: i coreani amano quello tagliato in due e preferiscono la femmina, mentre in Thailandia è richiesto soprattutto crudo. Lo stabilimento di Zarzis, più a sud, ha una linea di produzione che confeziona la polpa in barattoli, destinati al mercato nordamericano.
Oggi in Tunisia sono 51 gli impianti di lavorazione del granchio blu, tutti costruiti negli ultimi cinque anni. Un giro d’affari su cui si sono buttati investitori da ogni parte del mondo: la fabbrica di Gabès appartiene a un’azienda del Bahrein, che ha uno stabilimento simile nel paese del golfo Persico, poi ci sono anche altre fabbriche di imprenditori coreani, turchi e tunisini.
La svolta
Il granchio blu è stato avvistato per la prima volta nel golfo di Gabès nel 2014, portato dai cambiamenti climatici che stanno colpendo duramente il mar Mediterraneo. “Il Portunus segnis è arrivato dall’oceano Indiano attraverso il canale di Suez. In un mare più caldo ha trovato un ambiente adatto che gli ha permesso di proliferare”, spiega Jamila Ben Souissi, esperta di specie aliene marine e direttrice di ricerca presso l’Institut national agronomique de Tunisie. Quando è arrivato sulle coste tunisine il crostaceo ha avuto lo stesso impatto di uno tsunami. Ha devastato le riserve ittiche e gettato sul lastrico i pescatori. Non per niente è stato soprannominato Daesh, acronimo arabo con cui si indica il gruppo Stato islamico. Ha lo stesso modo d’agire: fa tabula rasa di tutto ciò che incontra.
“All’inizio è stata una tragedia: i granchi hanno mangiato tutto il pesce pregiato e con le loro chele hanno distrutto le reti da pesca”, ricorda Sassi Alaya, responsabile del Groupement de développement de pêche (Gruppo per lo sviluppo della pesca), un’associazione che riunisce seicento pescatori della zona di Al Ghanouche, vicino a Gabès. “Molti di noi hanno venduto le imbarcazioni perché non vedevano alcun futuro per la professione”.
Poi c’è stata la svolta: nel giro di pochi anni gli stessi pescatori che avevano ceduto le barche ne hanno comprate di nuove e ripreso a lavorare. Il tanto vituperato Daesh era diventato una materia prima molto ricercata da vari stabilimenti per la trasformazione che in quel periodo stavano aprendo un po’ ovunque lungo tutta la costa tunisina. Si è creata così una filiera funzionante che oggi dà lavoro a migliaia di persone: dai pescatori ai commercianti, dagli operai agli operatori della logistica. Secondo il ministero dell’agricoltura, delle risorse idriche e della pesca marittima, nel 2022 la Tunisia ha esportato 8.116 tonnellate di granchio blu per un valore di 90,5 milioni di dinari (circa 30 milioni di euro), con una crescita del 200 per cento in quattro anni. “Si tratta di un mercato molto promettente. Da quando abbiamo inaugurato lo stabilimento non abbiamo mai smesso di aumentare le quantità”, conferma Athmi. “Stiamo pensando di aprire altre linee con nuovi prodotti, come per esempio il caviale per granchio”.
Trasformare la crisi in un’opportunità è stata una felice intuizione del governo tunisino. Nel 2017 è stata elaborata una strategia nazionale per fronteggiare l’emergenza. I pescatori hanno ricevuto delle trappole metalliche per la cattura dei crostacei ed è stata incoraggiata la creazione di impianti di lavorazione, in particolare con incentivi pubblici per l’acquisto della materia prima. La scelta è stata così fruttuosa che oggi ci si trova di fronte a un paradosso: i pescatori, che dieci anni fa erano disperati per l’arrivo dei crostacei, ora chiedono dei periodi di fermo biologico e di stabilire per legge la taglia minima degli esemplari da pescare. Temono che la pesca eccessiva li faccia diminuire, quindi chiedono delle misure di conservazione.
Il granchio blu è diventato parte integrante dell’economia della pesca e sta guadagnando spazio anche nella gastronomia tunisina. Ben Souissi mostra con orgoglio il ricettario che ha realizzato insieme alle donne delle isole Kerkennah, un arcipelago al largo di Sfax dove la comunità di pescatori è stata particolarmente colpita dall’arrivo dei crostacei. Si intitola significativamente “Dall’invasione al piatto”: “L’anno scorso abbiamo organizzato sulle isole un festival del granchio blu e servito piatti in cui questo nuovo ingrediente sostituiva quelli tradizionali della cucina tunisina”. Le foto nel libro mostrano sandwich o grandi piatti di cous cous in cui al polpo si affianca questo crostaceo tropicale. Per il momento sono esperimenti di nicchia. Il granchio è destinato principalmente all’esportazione, ma non è escluso che in futuro possa trovare maggiore diffusione nel mercato tunisino.
Una tragedia
Dall’altra parte del Mediterraneo, in Italia, l’idea di risolvere il problema attraverso il consumo fa saltare sulla sedia i pescatori. “Abbiamo sentito il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida dire che bisogna mangiare il granchio. Ma temo che non abbia idea delle dimensioni della tragedia che stiamo vivendo”, dice Luigino Marchesini, presidente del consorzio delle cooperative di pescatori di Scardovari, in provincia di Rovigo. Questa laguna sul delta del Po è la principale area di raccolta in Italia delle vongole. I 1.500 soci delle 14 cooperative pescano da anni il mollusco bivalve e fanno ottimi guadagni. La raccolta è organizzata per quote: ogni socio può prelevare dalla laguna venti chili al giorno. In tempi normali bastavano tre ore di lavoro per raggiungere la quota. “Oggi invece non c’è più nulla. In tutta la Sacca di Scardovari siamo passati da 300 quintali al giorno ad appena cinque”. Marchesini mostra su un foglio excel l’entità del disastro. Sulla tabella sono riportate le quantità raccolte mese per mese negli ultimi anni. Si passa dai 10.762 quintali nel dicembre 2022 ad appena 163 del dicembre 2023: “I nostri soci non escono nemmeno più a pescare. Un settore intero si è disintegrato”.
La causa di questa tragedia è identica a quella che inizialmente ha sfiancato i pescatori tunisini: il granchio blu. Si tratta di una specie diversa. Il Callinectes sapidus che ha invaso il Polesine è originario degli Stati Uniti meridionali, ma ha caratteristiche simili a quelle della specie del mar Rosso: è molto vorace e ha una capacità riproduttiva impressionante. “Ogni femmina può produrre fino a otto milioni di uova”, spiega Emanuele Rossetti, biologo specializzato nel settore ittico e responsabile qualità del consorzio di Scardovari. “Il Callinectes sapidus si muove tra l’acqua salata e quella dolce: la femmina si riproduce in mare, mentre le larve crescono in acque salmastre. Le lagune di queste zone garantiscono condizioni ottimali con i loro fondali bassi e la compresenza di entrambi gli ambienti”.
Ma come ha fatto il Callinectes sapidus ad arrivare dall’oceano Atlantico fino alle acque della laguna? “Probabilmente è stato portato con le acque di zavorra (l’acqua immagazzinata nello scafo della nave per mantenerla stabile) delle navi cargo, che sono uno dei principali vettori di specie aliene”, spiega Ernesto Azzurro, ricercatore all’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Ancona. “La proliferazione di organismi estranei a un luogo, di cui il granchio blu è solo un esempio, è il termometro più evidente dei grandi cambiamenti che stanno attraversando il nostro mare, con cui dovremo fare i conti sempre più spesso”. Come è successo in Tunisia, anche qui il granchio ha trovato un ambiente favorevole grazie alla temperatura più elevata. “Supponiamo anche che l’alluvione del maggio scorso in Romagna e la grande quantità di acqua dolce arrivata nelle lagune abbia facilitato la proliferazione. Questo spiegherebbe i numeri spaventosi di quest’anno”, sottolinea Rossetti, mostrando come i vari effetti dei cambiamenti climatici innescano crisi a catena difficilmente prevedibili.
Per fronteggiare l’emergenza, il ministro dell’agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida sta guardando con interesse all’esperienza tunisina. A ottobre ha visitato il paese nordafricano e ha detto a più riprese che bisognerebbe creare una filiera di trasformazione. I pescatori italiani, però, sono scettici. “Abbiamo 35 anni di attività alle spalle”, dice Marchesini. “Non è che dall’oggi al domani possiamo smettere di raccogliere vongole e trasformare il granchio blu. Una conversione di questo tipo richiederebbe investimenti milionari. Chi ci dice che non è un fenomeno passeggero? E se poi non ci fossero più granchi?”.
La realtà è che oggi non ci sono più vongole e non ce ne saranno almeno per il prossimo anno e mezzo. I granchi hanno mangiato tutto il novellame, i molluschi allo stadio giovanile. Un esemplare ha bisogno di un periodo tra i dodici e i quindici mesi per raggiungere le dimensioni adatte alla vendita, quindi tutto il 2024 sarà caratterizzato dalla totale mancanza di prodotto. “Anche ammettendo di importare il seme da fuori e creare dei luoghi protetti dove far crescere il novellame, avremmo quantità molto ridotte e comunque non prima dell’anno prossimo”, dice ancora Marchesini.
Avvolta dalla nebbia invernale, la Sacca di Scardovari ha un aspetto un po’ lugubre. L’impianto di depurazione e confezionamento del consorzio è fermo. Le baracche di legno dei raccoglitori di vongole, che di solito fervono di attività, sono deserte. In giro non c’è un’anima: tutti i pescatori sono a casa in riposo forzato. Vicino alla sua baracca Michele Pezzolato sembra l’ultimo superstite di una catastrofe nucleare. Oltre ad avere la licenza per le vongole ne ha una per la pesca da posta, che si fa con reti verticali calate la sera e recuperate la mattina successiva. Una pesca che non pratica più da alcuni anni, da quando il granchio ha cominciato a distruggere le reti: “Lo abbiamo visto arrivare nel 2017, quando ha depredato i gamberi e altri pesci. L’abbiamo segnalato al consorzio, ma siccome all’inizio non attaccava le vongole pensavano non fosse un problema”.
Come tutti i suoi colleghi, Pezzolato è convinto che la situazione sia grave e che si debba agire in fretta. Nel 2023 ha cominciato a catturare i crostacei. Ammassate su un lato della baracca, mostra le nasse metalliche che usa per questa pesca: “In inverno non ci sono molti granchi, ma in primavera e in estate ne prendiamo quintali”. È possibile replicare l’esperienza tunisina, come vorrebbe il ministro Lollobrigida, e creare una filiera di sfruttamento del crostaceo? L’Italia di oggi non è forse allo stadio in cui si trovava la Tunisia sette anni fa? Come Marchesini, anche Pezzolato non la considera una strada percorribile. Anche perché quando ci ha provato si è scontrato con un muro: “L’anno scorso ho cercato, attraverso un intermediario, di vendere il granchio in Corea. Ho proposto come prezzo d’acquisto un euro al chilo, ma mi è stato risposto che era troppo caro”. In un mercato globale, l’esperienza tunisina e la disponibilità di prodotto a un prezzo più basso rappresentano un ostacolo oggettivo allo sviluppo di un’eventuale filiera italiana. Il governo italiano ha stanziato 2,9 milioni di euro come fondo d’emergenza per la cattura e lo smaltimento del granchio e altri dieci milioni di euro per aiutare i produttori. “Ma non sono abbastanza”, sottolinea Vadis Paesanti, pescatore di Goro e vicepresidente di Confcooperative fedagripesca Emilia-Romagna. In questa cittadina in provincia di Ferrara, allungata sul ramo più meridionale del delta del Po, la vongola è oggetto di un vero e proprio culto. È qui che nel 1986 è cominciata la coltivazione della Tapes philippinarum, meglio nota come vongola filippina, che si è adattata perfettamente agli ambienti lagunari e ha portato prosperità a una comunità altrimenti depressa. È stato un biologo di Goro, Francesco Paesanti (nessuna parentela con Vadis), a convincere i pescatori locali a importare il seme di vongola proveniente dall’oceano Indiano e a spargerlo nella Sacca di Goro, creando un’economia che nel giro di pochi anni ha prodotto in questa cittadina un giro d’affari da 60 milioni di euro all’anno.
Il paradosso è che oggi quella ricchezza arrivata con una specie importata rischia di essere spazzata via da un altro organismo alieno. Vadis Paesanti si fa il segno della croce ogni volta che nomina il granchio blu, quasi che lo consideri un castigo divino. E immagina misure draconiane per debellarlo: “Noi abbiamo una flotta di 1.200 barche per la raccolta delle vongole che possiamo riconvertire alla cattura del granchio. Ci serve solo il sostegno economico del governo”. Paesanti calcola un prezzo minimo garantito dallo stato di 1,5 euro al chilo. “Con un investimento di 80 milioni di euro se ne potrebbero pescare 53mila tonnellate. E capire se funziona”. Non si tratterebbe secondo lui di salvare solo i pescatori del delta, ma di svolgere un servizio eco-sistemico e a tutela del settore turistico: “Questi fondi dovrebbero essere stanziati dai ministeri dell’agricoltura, dell’ambiente e del turismo. Perché non è solo un problema di noi vongolari, ma di tutta la zona. Pensate cosa succederebbe se in Germania si spargesse la voce che la riviera adriatica è invasa da un crostaceo aggressivo che può pizzicare i bambini”.
Azioni di mantenimento
In Italia, come è già successo in Tunisia, si stanno cercando soluzioni a breve termine per ristabilire un equilibrio ed evitare la distruzione di un settore economico, ma il problema è più ampio. “L’arrivo delle specie aliene è una conseguenza del riscaldamento globale prodotto dall’essere umano. Non possiamo fare altro che mettere in campo azioni di mantenimento”, sottolinea il biologo Ernesto Azzurro. Il punto è proprio questo: come convivere con un ecosistema che cambia e un mare che si scalda a questa velocità? Oltre al granchio blu, quali altre sorprese ci riserverà un Mediterraneo che si tropicalizza? “Troveremo una soluzione. L’essere umano si è sempre adeguato ai mutamenti della natura”, dice ostentando ottimismo il pescatore Michele Pezzolato, mentre si allontana tra la nebbia che avvolge la laguna deserta, in vista di un domani che appare quanto mai incerto. ◆
Stefano Liberti è un giornalista italiano. Il suo ultimo libro è Terra bruciata (Rizzoli 2020).
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Questo articolo è uscito sul numero 1551 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati