Se si guarda alla sua carriera, l’elezione di Alessia Borroni a sindaca di Seveso nel 2021 era scontata. Era sostenuta della Lega, un partito molto radicato in Lombardia. Anche lei è nata e cresciuta in questo ex centro industriale che ha 24mila abitanti e si trova a una ventina di chilometri a nord di Milano. Ma soprattutto, anche se aveva solo due anni, ha vissuto il dramma che ha colpito questa città: la prima catastrofe che ha interessato l’opinione pubblica, molto prima di Bhopal in India (2 dicembre 1984) o di Černobyl nell’ex Unione Sovietica (26 aprile 1986). Il 10 luglio 1976 l’esplosione della fabbrica Icmesa liberò nell’aria una nube di diossina. L’incidente non ha causato dei morti, ma 193 persone furono colpite da cloracne, una grave malattia della pelle. Senza contare gli aborti, i circa ottocento sfollati, le 220mila persone poste sotto controllo medico e le abitazioni rase al suolo.

Il destino di Borroni sembra essere stato plasmato da questa catastrofe. “Vivo qui da sempre”, racconta lei, capelli lisci e unghie laccate che tamburellano di continuo sul suo cellulare. “Ho studiato fisica e scienze dell’organizzazione, ho scritto la tesi di laurea sulla crisi nelle industrie complesse. Volevo capire dove era stato commesso l’errore. All’Icmesa mancava tutto: protocolli, controllo, formazione del personale e investimenti per modernizzare gli impianti. Fu una catena di errori. E poi quell’estate faceva molto caldo. La fabbrica attingeva alla falda acquifera per il raffreddamento della vasca e mancava l’acqua”. Borroni precisa di non aver usato le sue competenze in campagna elettorale. Sa che a Seveso tutti evitano di rivangare il passato.

Quell’incidente però è stato fondante sul piano del diritto ambientale, perché ha portato nel 1982 all’adozione di una importante direttiva europea: la “direttiva Seveso” sulla prevenzione dei rischi industriali gravi. La direttiva, che da allora è stata aggiornata due volte, ha lo scopo di censire gli impianti che presentano un rischio grave per l’ambiente e di stabilire le norme per prevenire qualsiasi catastrofe. Dalla sua entrata in vigore diecimila siti in Europa sono stati classificati pericolosi come Seveso: chi li gestisce è obbligato a realizzare degli studi per identificare gli scenari di rischio, valutarne le conseguenze e adottare strumenti per la prevenzione.

Nel 1976 niente di tutto questo era obbligatorio per le industrie. La fabbrica dell’Icmesa, un’azienda del gruppo farmaceutico svizzero Givaudan, a sua volta controllata della multinazionale Hoffmann-La Roche, era stata costruita una trentina d’anni prima sul confine tra i comuni di Meda e Seveso. In quel momento ci lavoravano duecento operai e funzionava a pieno regime, senza che gli abitanti sapessero davvero cosa producesse. “Profumo? Diserbante? Non è mai stato chiaro. Però si sentivano spesso odori nauseabondi”, racconta Natalina Pontiggia, che vive non lontano da quello che resta della fabbrica.

Un muro di silenzio

Nel caldo della fine di giugno Pontiggia, maestra in pensione, si ripara al fresco con il fratello Sergio e la cognata Graziella (che preferiscono non dire il loro cognome), nella cucina di casa sua, in un quartiere di villini a Seveso. I tre settantenni ricordano bene quel sabato 10 luglio 1976, “che ci ha sconvolto la vita”, dice Sergio. Vanno regolarmente a parlare nelle scuole per raccontare quello che successe.

Graziella e il marito si erano sposati due mesi prima e avevano appena comprato casa. Erano le 12.37 quando una spessa nube bianca si allargò sulla città facendo cadere sul terreno delle particelle sottili. “Avevamo appena finito di pranzare sotto la magnolia in giardino quando cominciammo a sentire un odore tremendo, ma capitava spesso quindi non ci preoccupammo”, ricorda Sergio. Alla fabbrica invece i pochi operai presenti, in preda al panico, corsero verso un hangar dove c’era stata una forte esplosione: lì si fabbricava il triclorofenolo, un erbicida. La vasca 101 si era surriscaldata ed era saltata la valvola di sicurezza. Il responsabile della produzione, convocato d’urgenza, riuscì a fermare la perdita alle 13.45, più di un’ora dopo l’esplosione.

“Il fine settimana trascorse normalmente”, racconta Pontiggia. Le autorità sanitarie locali rassicurarono i sindaci di Seveso e Meda, i due comuni sorvolati dalla nube tossica. I campioni di terra raccolti dagli operai nei dintorni della fabbrica furono inviati con discrezione in Svizzera alla sede della Hoffmann-La Roche. “Il lunedì successivo sulle foglie della magnolia comparvero dei forellini”, ricorda Graziella. “Capimmo che dal cielo era caduto qualcosa di brutto. Gli uccelli avevano smesso di cantare. Li trovammo morti sull’erba, in mezzo alle foglie. Poi cominciarono a morire anche altri animali: cani, anatre e conigli”. L’Icmesa disse che si trattava solo di una nube di erbicida. La casa madre si rifugiò dietro un muro di silenzio, senza dare informazioni sulla natura della tossina. Le autorità si limitarono a sconsigliare il consumo di frutta e legumi coltivati negli orti.

Trascorsero così dieci giorni. “Nessuno ci diceva niente. Fu la foto della piccola Stefania, pubblicata sui giornali, a scatenare il panico”, interviene Sergio interrompendo la moglie. L’immagine scattata all’epoca dal fotografo Mauro Galligani, fa stringere il cuore: Stefania Senno, due anni, urla di dolore con il volto interamente coperto da pustole rosse.

Alle 12.37 di quel 10 luglio lei e la sorella Alice, di quattro anni, stavano giocando nel giardino di casa loro, a poche decine di metri dalla fabbrica, quando furono avvolte dalla nube. Ventiquattr’ore dopo le due bambine, e insieme a loro molti altri, furono colpite da mal di testa e vomito. Il 18 luglio furono portate all’ospedale di Milano per essere sottoposte a degli esami. In un’altra foto del reportage di Mauro Galligani, il viso di Stefania è coperto da garze, con placche purulente diffuse su tutto il corpo.

Il 20 luglio il centro di ricerca medica dei laboratori Hoffmann-La Roche svelò finalmente alle autorità locali i risultati degli esami effettuati: il surriscaldamento della vasca aveva scatenato una reazione chimica e nell’aria erano finiti fra i trecento grammi e i due chili (non è stata mai fissata una cifra ufficiale) di diossina, il famoso agente arancio usato dagli statunitensi nella guerra in Vietnam. Sull’essere umano la diossina può provocare gravi danni al fegato, anomalie embrionali, malattie della pelle e una forma di acne che si manifesta dopo qualche tempo.

Barili contaminati

Fu aperta un’indagine, il direttore e il vicedirettore della fabbrica Icmesa furono interrogati dai magistrati italiani. Nel corso dell’estate le autorità locali, confuse da perizie contraddittorie, esitarono a prendere provvedimenti importanti. A ogni pioggia la diossina, che non è solubile in acqua, s’infiltrava sempre più nel terreno e penetrò fino a 14 centimetri di profondità.

Alla fine di luglio il governo annunciò l’evacuazione della zona A, 110 ettari nei dintorni della fabbrica. Furono individuate altre due zone: la B, 270 ettari di terreno con una concentrazione leggermente inferiore di diossina, e la zona R, detta zona di rispetto, 1.430 ettari con tracce di diossina. “La famiglia di mio marito”, racconta Natalina Pontiggia, “viveva nella zona A. Dovettero andare via e lasciare tutto, perfino gli animali da compagnia, che morirono di fame. È stato orribile”.

Dove prima si trovava il reattore dell’Icmesa, al limitare del parco, oggi c’è il centro sportivo di Meda, con campo da calcio e piscina

Alessia Borroni ricorda i soldati che facevano la guardia al settore circondato dal filo spinato. “Uomini vestiti di bianco che venivano nelle case dei dintorni per spruzzare sui mobili non si sa cosa, non lo abbiamo mai saputo”, spiega Natalina Pontiggia. “Non ci davano nessuna informazione scientifica”.

Seveso somigliava a una città fantasma. In un perimetro di dieci chilometri erano sette i comuni coinvolti. Furono fatte seicento visite mediche al giorno; 380 ettari di terreno risultarono gravemente contaminati; 77mila capi di bestiame furono abbattuti. Le attività agricole furono interrotte. “Ad agosto eravamo terrorizzati”, racconta Graziella. “I dipendenti del comune passavano in auto con gli altoparlanti per dare delle indicazioni. I poliziotti inviati dalle autorità sanitarie locali spruzzarono una specie di colla sull’erba che si riteneva potesse schiacciare al suolo la diossina. La natura diventò nostra nemica. Mi rivedo in quell’estate mentre getto via all’improvviso un fiore che, senza pensarci, avevo appena colto”.

L’altra paura di Graziella era di restare incinta. Per la prima volta molte donne desiderarono abortire, intervento vietato nell’Italia di allora, un paese molto cattolico. Delle 190 donne incinte nella zona, quindici abortirono. “C’erano molte pressioni sulle coppie, in un senso e nell’altro”, assicura Graziella, che oggi è nonna. “La paura di malformazioni fetali era tanta. Seveso era diventato teatro della lotta in favore dell’aborto, che fu legalizzato poco dopo, nel 1978. Io e Sergio decidemmo di aspettare”.

Il 15 febbraio 1977 le autorità regionali della Lombardia adottarono finalmente un piano di decontaminazione per Meda e Seveso. Il tempo era poco, la diossina poteva finire nella falda acquifera. Dal giorno dopo cominciarono i lavori: nella zona A furono distrutte le fabbriche, i laboratori, le case con tutto quello che c’era dentro, ricordi, vestiti e foto. La casa della piccola Stefania Senno fu rasa al suolo.

Nelle foto in bianco e nero si vedono donne in lacrime, con abiti scuri, dietro il filo spinato. Le strade, i marciapiedi, i trattori e gli autobus furono tritati dai denti delle macchine demolitrici e le macerie sigillate all’interno di fusti a tenuta stagna. Le scavatrici raschiarono via uno strato di 25 centimetri di terreno, portandone via centomila tonnellate, poi sostituite da terra nuova e sana.

La popolazione si oppose alla costruzione di un inceneritore dove bruciare questi rifiuti temendo di essere esposta a ulteriori rischi di inquinamento. La regione decise allora di seppellire i barili contaminati. Furono scavati due bacini con una capacità di duecentomila metri cubi sotto la zona A. Oggi i due immensi sarcofagi in cemento armato, costantemente sorvegliati, sono ancora lì, nel “cimitero della diossina”, come è stato battezzato in seguito.

La paura è sempre presente

Complessivamente la multinazionale Hoffman-La Roche ha pagato 183 milioni di euro per i lavori di riparazione proseguiti per più di dieci anni. La maggior parte di questi soldi è stata usata per risanare il territorio e costruire nuove infrastrutture. Nel 1986 la corte di cassazione confermò le condanne decise qualche mese prima dalla corte d’appello di Milano contro Herwig von Zwehl, ex direttore tecnico dell’Icmesa, e Jörg Sambeth, ex direttore tecnico della Hoffman-La Roche (Givaudan).

I due dirigenti furono condannati rispettivamente a due anni e a diciotto mesi di carcere, entrambi con la condizionale. La corte li considerò colpevoli di non aver adottato le necessarie misure di sicurezza e di avere, con la loro imprudenza, provocato la catastrofe.

Le operazioni di bonifica dopo l’incidente all’Icmesa a Seveso, nel 1976 (Marka/Universal Images Group/Getty)

La causa civile si è conclusa solo nel 2006, trent’anni dopo il disastro, con un risarcimento economico per le vittime. Stefania Senno, che ora vive a Treviso, ha subìto quattro interventi di chirurgia estetica al viso, ma non sono bastati a farle dimenticare i traumi della sua infanzia.

Nel 1982 il parlamento europeo non ebbe dubbi sulla necessità di regolamentare l’attività industriale, ma nei fatti la situazione presenta ancora problemi. In Francia negli ultimi anni ci sono stati alcuni gravi incidenti industriali seguiti da episodi di inquinamento.

A Tolosa il 21 settembre 2001 è esploso un magazzino di nitrati di ammonio nella fabbrica di fertilizzanti chimici Azf, inclusa tra quelle individuate dalla direttiva Seveso, provocando 31 morti e migliaia di feriti. Il 16 settembre 2019 l’incendio scoppiato in piena notte nello stabilimento chimico della Lubrizol, a Rouen, considerata ad alto rischio secondo la direttiva Seveso, ha risvegliato le paure per i pericoli delle industrie chimiche. L’ultima versione della direttiva, la Seveso 3, distingue tra gli impianti ad alto rischio e quelli a basso rischio, in funzione della quantità di materiali pericolosi.

Stefania Senno, una bambina di due anni (Mauro Galligani)

Con il passare del tempo Seveso è tornata a essere una cittadina tranquilla. Ha un albergo, il Lombardia, un solo bar dove i giovani ammazzano il tempo, tante attività commerciali che negli anni hanno chiuso, tranne il parrucchiere, dove vanno le donne in pensione mentre i mariti passano il tempo sotto gli ombrelloni del circolo di bocce. Seveso, alla periferia di Milano, oggi è un paese dormitorio, che si sta impoverendo.

“Negli ultimi dieci anni gli abitanti sono passati da 19mila a 24mila”, evidenzia Alessia Borroni. “Il prezzo delle case qui continua a essere più basso rispetto ai comuni vicini”.

Il “cimitero della diossina” è stato trasformato in un parco con un piccolo stagno, il “Bosco delle querce”. Dove prima si trovava il reattore dell’Icmesa, al limitare del parco, oggi c’è il centro sportivo di Meda, con campo da calcio e piscina. Resta però l’incertezza. Gli effetti dei gas tossici sulle popolazioni coinvolte nell’incidente sono ancora oggetto di studi di un’équipe dell’ospedale di Desio, a dieci chilometri da Seveso. Massimiliano Fratter, responsabile della biblioteca comunale, attivista di Legambiente e formazione da storico, ha scritto una guida alla scoperta del bosco delle querce e ha collocato sul posto dei pannelli esplicativi. “La paura è sempre presente”, spiega, “paura per le conseguenze sulla salute. È più forte di loro. Per la gente tutti i casi di cancro che ci sono stati tra gli abitanti di Seveso sono dovuti alla nube del 1976”.

La diossina è un’ossessione e spesso la paura si riaccende. Di recente i lavori per la costruzione di un tratto dell’autostrada Pedemontana, che collega Milano a Meda, hanno risvegliato i timori degli abitanti, perché sarà necessario smuovere la terra.

“Un progetto che si trascina da più di vent’anni e che non ha alcun senso”, commenta irritata Natalina Pontiggia. “Una delle bretelle in uscita passerà per il bosco delle querce, si dovrà scavare. In base agli ultimi carotaggi realizzati dalla Società autostrade e dall’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, la diossina c’è ancora. La terra non è stata mai bonificata nel punto in cui dovrebbe passare l’autostrada!”. La sindaca Alessia Borroni spiega che “il prefetto, responsabile delle questioni legate alla sicurezza, assicura che non ci sono problemi”. Teme però che il progetto possa “diventare un nuovo ‘No Tav’”, dal nome del movimento di protesta contro la costruzione della linea ferroviaria Lione-Torino.

Sul finire del pomeriggio, quando il caldo diminuisce un po’, chi ha un cane viene a sgranchirsi le gambe nel bosco delle querce. Tutti sembrano aver dimenticato che sotto l’area giochi ci sono i fusti, ancora tossici a distanza di cinquant’anni. Il comune nel bosco ci organizza concerti e gare sportive. La sindaca assicura che qui hanno trovato rifugio anche due specie rare di orchidea.◆ gim

Stéphanie Marteau è una giornalista d’inchiesta. Collabora con Le Monde. Ha lavorato per il settimanale Marianne e il mensile Les Inrockuptibles.

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Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati