S e nasci in Germania, sei figlio d’immigrati e ti chiami Hengameh Yaghoobifarah impari presto che c’è un solo modo per sopravvivere alle battute degli altri: incassare e rispondere con parole ancora più pesanti. Quindi se un compagno di classe ti chiede perché ti chiami Hengameh, e se magari tua madre si chiama Bigné, non serve andare in un angolo a piagnucolare. “Io rispondevo: ‘Sì, e mio padre si chiama Vivident, come le gomme da masticare’. Anche alle battute sul mio peso replicavo rincarando la dose, per far capire agli altri ragazzini che ero forte”, racconta Yaghoobifarah. “Ho standard diversi. Per questo penso sempre che le battute che faccio non sono poi così pesanti”, dice una delle più controverse opinioniste tedesche.

La scorsa estate Yaghoobifarah ha fatto infuriare l’intero paese con un articolo per cui il ministro dell’interno Horst Seehofer ha minacciato una querela e il presidente della Repubblica federale tedesca Frank-Walter Steinmeier ha espresso un duro rimprovero.

Yaghoobifarah, trent’anni, è figlia di due iraniani. Oltre a fare l’opinionista, è autrice di podcast e ha esordito con un romanzo, Ministerium der träume (Il ministero dei sogni), diventato un best seller. Sul suo profilo Instagram compare con le Crocs rosa shocking accanto alla scritta “Acab” (All cops are bastards). E ama mettere i tedeschi di fronte ai problemi del loro paese: disuguaglianze sociali, razzismo e omofobia.

A prima vista Hengameh Yaghoobifarah non sembra certo una nemica dello stato. Occhi castani dietro occhiali senza montatura, sguardo timido, due piercing al naso e una testa di ricci scuri. “Sono a casa dei miei genitori. Siamo un po’ stressati”, dice in collegamento video. Yaghoobifarah era nei paraggi per una registrazione televisiva e si è trovata di fronte a un classico dilemma da pandemia: passare a salutarli o no? Alla fine è andata, ma poi uno degli ospiti della trasmissione è risultato positivo al tampone. “Mi sento in colpa. La cosa peggiore è che mia madre deve fare la prima dose di vaccino alla fine della settimana”, dice. Yaghoobifarah non si sente a proprio agio con le categorie di donna o uomo. Per questo quando si parla di Hengameh Yaghoobifarah bisogna cercare di evitare ogni allusione al genere (in questi casi in inglese si usa il pronome they).

“All cops are berufsunfähig”, tutti i poliziotti sono disabili. Così recitava il titolo del suo controverso articolo uscito sulla Tageszeitung (Taz), un giornale intellettuale di sinistra con sede a Berlino, l’11 giugno 2020. Due settimane prima un poliziotto bianco aveva ucciso l’afroamericano George Floyd e le manifestazioni del movimento Black lives matter erano sbarcate in Europa. Era uno dei pezzi satirici della rubrica bisettimanale di Yaghoobifarah dedicata a “fashion, fascisti, femminismo & co”, come si legge su Instagram. Nei suoi articoli ama prendere in giro il tedesco bianco medio, e per farlo usa lo slang dei giovani immigrati.

Polizia e polemiche

In quel caso prendeva di mira un’istituzione tanto amata quanto odiata in Germania: la polizia. Yaghoobifarah si chiedeva cosa avrebbe dovuto farsene la Germania dei suoi agenti se le forze dell’ordine fossero state abolite. “Nella polizia ci sono troppi fascisti che non sono adatti a lavorare per lo stato”, ha scritto. Dopo una battuta sulle professioni alternative, come dipingere la ceramica (“Comunque c’è il rischio che si mettano a produrre servizi da tè pieni di svastiche”) l’opinionista stabiliva che l’opzione migliore era la discarica. “Lì sono circondati solo da rifiuti. Di certo si sentiranno più a loro agio in mezzo ai loro simili”. Le polemiche sono esplose subito, alimentate dai politici. Markus Blume, consigliere dell’Unione cristiano sociale (Csu) bavarese, ha definito Yaghoobifarah “il volto peggiore della sinistra che odia”. Il ministro Seehofer, anche lui della Csu, non ha sporto denuncia ma ha ispirato altri a farlo, tra cui alcuni politici del partito di estrema destra Afd (Alternative für Deutschland). Alla procura di Berlino ci sono voluti mesi per archiviare tutti i casi invocando la libertà di stampa.

Yaghoobifarah paga un prezzo alto per le sue opinioni. Le minacce che riceve dal 2012 provengono quasi esclusivamente dalla destra

Perché la Germania ha dato in escandescenze? “Ho l’impressione che alcuni tedeschi s’identifichino troppo con la polizia. Come se gli agenti tedeschi non fossero razzisti, non buttassero fuori dal paese i richiedenti asilo e non affrontassero le manifestazioni con la violenza. Molta gente vive con i paraocchi”, dice. Poi cita l’attentato razzista del 2020 a Hanau, in cui sono morti nove tedeschi di origine turca, curda e afgana, e si chiede come mai i tedeschi in quell’occasione non siano scesi in piazza. La conclusione di Yaghoobifarah è che è più difficile affrontare il “proprio razzismo” che quello di un altro paese. “È quasi divertente che tanti tedeschi per tutta l’estate abbiano dimostrato solidarietà al movimento Black lives matter, dicendo che negli Stati Uniti la situazione è grave, ma che poi abbiano considerato il mio articolo eccessivo”.

Quando scrive Yaghoobifarah ha uno stile aggressivo, ma quando parla è prudente e fa delle brevi pause in cui sembra riflettere sul pensiero successivo. Guarda con calma nella videocamera del computer, beve un sorso d’acqua da una tazza con sopra l’immagine di una famiglia di orsi sbiadita dai lavaggi – come se ne vedono solo nelle case dove i figli hanno lasciato il nido – e il silenzio prosegue. “Il tempismo del mio articolo si è rivelato perfetto per il ministro Seehofer, perché in quel momento la polizia era al centro delle critiche. L’articolo è stato il diversivo ideale”.

Per la polizia tedesca quella del 2020 è stata effettivamente un’estate difficile: era emerso che gruppi di estrema destra inviavano lettere piene di minacce a donne tedesche famose di origini straniere dopo aver ottenuto i loro indirizzi dagli agenti. La vicenda toccava un tasto delicato, dato che in Germania ogni tanto viene scoperta una nuova rete di estrema destra all’interno delle forze dell’ordine. Secondo il ministro Seehofer si tratta di casi isolati. Nel periodo in cui Yaghoobifarah ha pubblicato il suo articolo, Seehofer stava cercando in ogni modo d’impedire che venisse aperta un’indagine sulla discriminazione etnica all’interno della polizia. E ci è riuscito.

Il dito nella piaga

Hengameh Yaghoobifarah fa parte di una nuova generazione di opinionisti, giornalisti e scrittori berlinesi. Tutti attivisti tra i venti e i trent’anni delusi dai politici che anno dopo anno promettono una società più giusta, creata a piccoli passi e dopo consultazioni democratiche: questi autori fanno sentire la loro voce e da molti sono considerati troppo radicali. Allo stesso tempo guadagnano terreno sui mezzi d’informazione, perché mettono il dito nella piaga. Spesso scrivono sulla base della propria esperienza, in quanto vittime di discriminazioni o perché cresciuti in condizioni svantaggiate. La loro arma principale è la politica dell’identità. Sono individualisti idealisti che s’incontrano principalmente in rete. Chi li critica li chiama generazione woke (vigile). Sono presenti in tutto l’occidente, ma il disagio per le questioni che sollevano è più forte in Germania, un paese che da 75 anni si vanta delle lezioni imparate dal passato nazista.

Fin da giovane Yaghoobifarah si è sentita una persona diversa. È cominciato tutto in uno studentato di Kiel, nel nord della Germania, dove suo padre faceva l’università. Dopo una serie di traslochi, la famiglia si stabilì in un appartamento di una sonnolenta cittadina della Germania settentrionale. Avendo ricevuto un’istruzione superiore, rispetto ad altri immigrati i suoi genitori erano meno svantaggiati, ma non erano certo ricchi.

In casa si rideva molto, “specialmente di noi stessi”, ma il futuro di Hengameh e di sua sorella, più piccola di quattro anni, era una cosa seria: dovevano studiare medicina o legge. Scrivere di mestiere, il sogno di Hengameh, per i suoi genitori era più che altro “un hobby”. Per questa sua indole sognatrice avevano scelto il liceo “con la migliore reputazione della zona”. E aggiunge: “Sappiamo tutti cosa significa”. Fa una pausa per lasciare la risposta a me. “Una scuola frequentata da tedeschi ricchi?”, le chiedo. “Esatto”.

In quel periodo cominciò a sperimentare la diversità. Capì che i segni strani che i neonazisti avevano fatto con lo spray sul muro di casa loro erano svastiche. “E come tutti gli scrittori tedeschi figli d’immigrati, ho avuto un insegnante di tedesco che alla fine del terzo anno ha segnalato sotto un mio tema che avevo ‘gravi lacune’ linguistiche. Ora che ho scritto un best seller mi viene da ridere”.

Sentimenti negativi

Non sono come sembro, pensava già allora Yaghoobifarah, ma l’autoanalisi è cominciata a Friburgo, quando studiava scienze della comunicazione all’università. In quegli anni ha scoperto la politica dell’identità. “Ho cominciato ad analizzare la mia identità e a chiedermi: cosa sono in realtà? Quali sentimenti negativi sono il risultato della visione della società? Mi ha reso più forte capire che alcuni sentimenti negativi non erano colpa mia, ma il risultato di fat shaming (gli insulti alle persone sovrappeso) o razzismo”. Ha scoperto che anche i bianchi privilegiati praticano la politica dell’identità, “solo che non viene percepita come tale”.

Da quando Yaghoobifarah ha cominciato a scrivere, prima per la rivista femminista Missy Magazine e dal 2016 per la Taz, molte persone si sono scandalizzate leggendo i suoi pezzi. Perché? “Hengameh Yaghoobifarah ha la fortuna e la sfortuna di rappresentare molto più di se stessa”, ha scritto la Süddeutsche Zeitung in un articolo. Yaghoobifarah la trova una definizione azzeccata. “Il mondo mi vede come qualcuno che si batte per l’antirazzismo, il femminismo queer e i transgender (la definizione non binario rientra nel concetto generico di transgender), come rappresentante di una generazione che non evita i selfie sui social media, e come una persona grassa”. Si mette a ridere. “Ce n’è per tutti i gusti”.

Ma Yaghoobifarah è una figura controversa soprattutto per la sua crociata contro la sinistra intellettuale, una categoria che la maggior parte degli opinionisti tedeschi non tocca. “Lo faccio perché dalla sinistra mi aspettavo di più. È ancora più doloroso scoprire che anche lì esistono razzismo e misoginia”. Yaghoobifarah non sopporta le persone bianche con i dread­lock – è appropriazione culturale – e definisce il festival Fusion, popolare tra i berlinesi di sinistra, un esempio di “supremazia bianca”.

Biografia

1991 Nasce a Kiel, nel nord della Germania. È figlia d’immigrati iraniani.
2014 Dopo aver studiato a Friburgo si trasferisce a Berlino e comincia a lavorare per la rivista femminista Missy Magazine.
2016 Il quotidiano Die Tageszeitung le assegna una rubrica.
2019 Insieme alla scrittrice e attivista Fatma Aydemir cura il saggio Eure Heimat ist unsere Albtraum (La vostra patria è il nostro incubo).
2021 Pubblica il suo primo romanzo, Ministerium der träume.


Rientra in questa categoria anche Annika, una caricatura ideata da Yaghoobifarah della donna ben istruita, una delle madri privilegiate all’uscita della scuola, abituata a ottenere quello che vuole, che sgomita e spettegola su chi è “diverso”.

Le chiedo: “Metti che io sia una Annika, e legga di come sono insopportabile in un tuo articolo, cosa pensi che succeda?”. In risposta, mi vedo di fronte un sorriso enigmatico, in stile Monna Lisa. “Non ci ho pensato con grande attenzione. So che l’80 per cento dei lettori della Taz è bianco, ma io scrivo per quel 20 per cento che è diverso, lgbt, nero o femminista. Per far ridere anche loro. I miei articoli non hanno uno scopo didattico. È stato scritto abbastanza sul razzismo. Ma quando mi legge un’Annika, spero che capisca che il suo comportamento è sbagliato”.

Yaghoobifarah paga un prezzo alto per le sue opinioni. Le minacce che riceve dal 2012 provengono quasi solo da destra. Dopo l’articolo sulla polizia la situazione si è aggravata al punto che ha dovuto traslocare. “La destra mi ha reso più grande di quello che sono. E questo spinge le persone ad alzare il tiro”. Nelle apparizioni pubbliche ora gira con le guardie del corpo. “Mi stressa, perché così la gente crede che mi senta ancora più importante. Anche alla Taz alcuni giornalisti hanno scritto che tenevo la rubrica solo per i clic”.

“Parlando di un immigrato omosessuale che vive in città si può generare più capitale nel mercato dell’attenzione che raccontando la vita di un piccolo borghese a Eisenhüttenstadt”, ha scritto il collega della Taz Stefan Reinecke in un articolo d’opinione in cui si definisce più volte “un uomo bianco”. “Quella critica mi è sembrata un po’ scorretta. Io stessa a volte nella mia rubrica ho criticato qualcuno della Taz e subito mi sono arrivate email per dirmi che non bisogna attaccare i colleghi. Quindi in quel caso non valeva? Mi sembrava che avessero trattato me come spazzatura”, risponde Yaghoo­bifarah.

Ci voleva un romanzo

Nel momento in cui si stavano placando le polemiche sulla rubrica, a inizio anno è uscito il suo primo romanzo. Ministerium der träume racconta la storia di Nasrin, una quarantenne iraniana fuggita in Germania con la madre e la sorella negli anni ottanta, subito dopo l’uccisione del padre per mano del regime. È una storia che parla di razzismo, di omosessualità e del fatto di crescere in un quartiere povero.

I personaggi principali del libro non sono vittime, sottolinea Yaghoobifarah, ma persone che nella vita non possono permettersi di distogliere lo sguardo dalle ingiustizie. Come dice la nipote quattordicenne della protagonista del libro, “la mamma mi ha avvertito. Se un giorno non ci sarà più, dovrò badare io a me stessa. Perché lo stato non lo fa”. Ministerium der träume, in cima alla classifica delle vendite curata dal settimanale Der Spiegel, parla di cosa significa crescere nell’angolo cieco dell’autocompiacimento tedesco e si legge come la versione più nera della gioventù di Yaghoo­bifarah. Il libro contiene gli stessi ingredienti della rubrica della Taz, ma il tono è un altro. È scritto in modo che nei lettori scatti l’empatia. Tutte le recensioni sono entusiaste. Vagamente sorpreso, il critico della Zeit ha scritto che nel romanzo c’è spazio per le sfumature, che invece mancano nella rubrica.

Di recente Yaghoobifarah ha ricevuto un’email da una lettrice, una donna che per l’occasione si è descritta come una “vecchia patata”. Il libro, così scrive, le aveva fatto capire perché nella sua rubrica c’è tanta rabbia e l’aveva messa di fronte al fatto che in Germania ci sono persone che vivono quotidianamente il razzismo. Lei non credeva ai suoi occhi: “Quindi attraverso un romanzo, una storia inventata, la gente di colpo si rende conto? Come se non esistessero statistiche sulla criminalità, documentari e giornali? Ci vuole un romanzo per aprire gli occhi alle persone, è sconvolgente”. ◆ cdp

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Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati