Che qualcosa non andava, Masayuki Iwasa l’aveva capito dai biscotti ripieni di cioccolato. All’epoca era un fan delle barrette Chocoliere. Un pacco ne conteneva sedici, ma un giorno si era accorto che erano diventate quattordici. Il prezzo era rimasto uguale, e fin qui poteva accettarlo. Tempo dopo, però, aveva notato che le barrette erano diventate più corte, sempre allo stesso prezzo e senza alcun avviso. “A quel punto mi arrabbiai, volevo che tutti lo sapessero”, dice Iwasa.

Oggi Iwasa, 45 anni, agente di borsa, gestisce un sito dove elenca tutti i prodotti che diventano più piccoli mantenendo lo stesso prezzo. Da allora si è fatto un nome come esperto della shrinkflation (inflazione da rimpicciolimento), una forma d’inflazione, molto diffusa in Giappone, che si misura con la riduzione delle dimensioni dei prodotti. “In tutto ho contato quattrocento prodotti”, dice Iwasa. “Soprattutto merendine, dolci e gelati”. Qualcuno aumenta anche i prezzi, ma le aziende in genere compensano i costi più alti risparmiando sugli ingredienti.

Shrinkflation sembra il titolo di una commedia di Hollywood, ma è un fenomeno da prendere sul serio. Da tempo gli economisti si chiedono come faccia la terza economia del pianeta ad andare avanti con una politica monetaria iperespansiva e un debito pubblico record. Dal 2012 detta legge la cosiddetta abenomics, la politica economica introdotta dal premier conservatore Shinzō Abe. Al suo cuore ci sono essenzialmente programmi di spesa pubblica finanziati con l’appoggio della banca centrale giapponese, che compra i titoli di stato mantenendo estremamente bassi i tassi d’interesse del debito pubblico e indirettamente alta la liquidità dello stato. In altre parole, il Giappone vive con i soldi che gli prestano i suoi cittadini, stampa il denaro di cui ha bisogno e s’indebita senza pensare al domani.

La politica monetaria giapponese ha fatto tendenza. Gli Stati Uniti e l’Europa l’hanno presa a esempio registrando convincenti successi nonostante la situazione globale sfavorevole. Anche il Giappone ha registrato buoni risultati, ma la sua economia non è mai stata troppo dinamica: poca crescita, salari sempre uguali, un tasso d’inflazione molto al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento.

E ora? Negli Stati Uniti e in Europa le potenti misure contro la crisi provocata dalla pandemia e le difficoltà della catena globale delle forniture hanno portato i prezzi a livelli record. Anche l’industria giapponese ha qualche problema. Tokyo ha speso somme enormi per rilanciare l’economia in seguito alla crisi sanitaria, come per esempio i centomila yen (circa 700 euro) per ogni figlio destinati alle famiglie con un reddito annuo inferiore ai 9,6 milioni di yen (circa 74mila euro). In Giappone, però, l’inflazione non cresce. In cambio i prodotti diventano più piccoli. Cosa succede?

Un quadro più ampio

“Interessante”, dice Frank Rövekamp a proposito del lavoro di Iwasa. Rövekamp è un economista che dirige l’istituto per l’Asia orientale della Hochschule für Wirtschaft und Gesellschaft di Ludwigshafen, in Germania. Anche se per il momento il rimpicciolimento dei prodotti è un fenomeno legato al commercio al dettaglio, per Rövekamp rivela un quadro più ampio. Si dice che un’inflazione ben dosata stimola i consumi perché tutti vogliono prevenire il prossimo aumento dei prezzi. Ma in Giappone sembra prevalere il senso d’insicurezza.

Sono passati più di trent’anni da quando si è sgonfiata la bolla immobiliare giapponese. “All’epoca il palazzo imperiale valeva quanto la California. Il 40 per cento del mercato azionario mondiale era concentrato nelle borse giapponesi”, racconta Rövekamp. Ma il mercato si surriscaldò e i prezzi dei terreni e delle azioni crollarono. Da allora, il Giappone aspetta invano un altro boom. Ci si è abituati al fatto che salari, prezzi e pensioni non aumentano. E dopo l’esperienza degli anni novanta, nessuno è più disposto ad accettare il minimo rischio. “All’epoca abbiamo imparato che gli investimenti possono essere pericolosi”, spiega Iwasa. Anche lui, come operatore di borsa, si definisce cauto. Molti non affidano più i loro risparmi agli investitori, preferiscono tenerli il più possibile sul conto in banca. Oppure a casa, in contanti. Il cambiamento demografico contribuisce al diffondersi di questa tendenza e la pandemia l’ha rafforzata. “Senza investimenti ci sono meno soldi, e anche questo è un rischio”, dice Iwasa, “ma la paura del futuro è più grande”.

Questo vale anche per il settore finanziario. Quando la banca centrale compra titoli di stato, le banche commerciali ottengono molta liquidità, che potrebbero sfruttare per concedere prestiti e investire nella crescita dell’economia giapponese. Invece succede qualcos’altro. “Abbiamo notato che i soldi depositati dalle banche commerciali presso la banca centrale crescono enormemente”, spiega Rövekamp. In pratica quello che la banca centrale preleva dai risparmi della nazione torna al punto di partenza. “Una situazione singolare”, dice l’economista tedesco.

“La banca centrale potrebbe costringere gli istituti finanziari a portare il denaro tra la gente, per esempio attraverso un tasso d’interesse che penalizzi i loro depositi”, afferma Rövekamp. Ma non lo fa. Perché? “Teme che nel mercato giapponese arrivino troppi soldi troppo in fretta”. Ecco perché è così importante che i prezzi restino stabili. Anche se in compenso i prodotti diventano più piccoli.

Per ora lo schema funziona. Ma per quanto ancora? “Non per sempre”, dice Rövekamp. “Se le persone perdessero seriamente la fiducia nello yen e dubitassero della sicurezza dei loro risparmi, sarebbe una catastrofe”. L’inflazione esploderebbe. La banca centrale dovrebbe correre ai ripari con tassi d’interesse più alti e con la vendita dei suoi titoli di stato. Si rischierebbe un’enorme crisi del debito sovrano.

Per il momento uno scenario simile è lontano, almeno secondo Rövekamp. E Iwasa non pensa che i suoi connazionali non possano mai dubitare che gli yen custoditi nei conti in banca o a casa siano al sicuro. Nell’aria c’è troppo pessimismo. Il primo ministro Fumio Kishida vuole stipendi più alti, perfino un nuovo capitalismo. Anche Iwasa pensa che le persone abbiano bisogno di segnali positivi per ritrovare la fiducia. Ma il Giappone può permetterselo? Nel dubbio anche Iwasa spende con parsimonia. Da quando i suoi biscotti al cioccolato preferiti sono diventati più piccoli non li compra più. ◆ nv

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Questo articolo è uscito sul numero 1444 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati