L’altro giorno chattavo online con un’amica che si sta sottoponendo alla procreazione medicalmente assistita (Pma) in Italia per avere un figlio con la sua ragazza. L’Italia non permette alle donne single o con una compagna l’accesso a questa procedura, a meno che non trovino un medico disposto a violare la legge.
La mia amica era entusiasta della sua ginecologa perché, testuali parole, “pur essendo totalmente contraria alle famiglie omogenitoriali, ci sta aiutando senza fare obiezioni”. La conversazione mi ha lasciato l’amaro in bocca e soprattutto mi ha confermato quanto ormai in Italia la comunità lgbtq+ si sia desensibilizzata alle discriminazioni quotidiane che subisce.
Limitare le aspettative
Da italiana che ha vissuto gran parte della sua vita adulta all’estero, osservo a distanza questa percezione falsata: dal mio punto d’osservazione privilegiato noto che la costante esposizione delle persone queer a trattamenti oppressivi spesso rende loro più difficile stanarli.
Come i bambini a lungo trattati male finiscono per abbassare la soglia di percezione del gesto violento, così le minoranze discriminate, inclusa la comunità lgbtq+, spesso non riconoscono l’abuso e anzi provano genuina gratitudine per quella che considerano un’accettazione parziale. Ho chiesto alla mia amica se fosse consapevole che le obiezioni – se anche considerassimo accettabile obiettare all’uguaglianza – non dovrebbero mai essere espresse in un ambiente medico dove si sta prestando un servizio che si è deciso di fornire e per il quale si è pagati. La mia domanda deve averla confusa, non perché non condividesse il mio punto di vista, ma perché, come mi ha spiegato più tardi, sentiva che lamentarsi sarebbe stato “troppo”.
Questo è solo un esempio di come le coppie lgbtq+ in Italia limitino le loro aspettative per paura di chiedere “troppo”, e di come questo atteggiamento abbia alzato drammaticamente la soglia oltre cui una legittima opinione personale è avvertita come discriminazione omofobica. Non c’è da sorprendersi, visto che il governo guidato da Giorgia Meloni è impegnato in una costante missione di cancellazione dei diritti delle persone queer. L’esecutivo si è rifiutato di firmare una dichiarazione dell’Unione europea sui diritti delle comunità lgbtq+, nella giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, trasformando in un giorno di lutto quello che doveva essere un giorno di dimostrazione di solidarietà.
Non si tratta di un caso isolato: nel 2023 la procura di Padova ha impugnato 33 atti di nascita di bambini nati da coppie lesbiche nel 2017, dopo che il governo – fermo sostenitore della cosiddetta “famiglia tradizionale” – aveva chiesto ai comuni di registrare solo il genitore biologico. Il tribunale di Padova ha respinto il ricorso della procura, ma il ministero dell’interno ha impugnato la decisione. Parecchi di questi sfortunati eventi discriminatori sfiorano il surreale, come in questo caso, in cui un certificato di nascita improvvisamente potrebbe perdere la sua validità. La vita di quei bambini – compresa la possibilità di vivere con la madre non biologica, in caso di morte dell’altra – non è considerata un diritto fondamentale, ma una questione sindacabile.
Nonostante nel 2020 la camera dei deputati avesse approvato il disegno di legge Zan – che accanto alle discriminazioni per etnia e religione (già riconosciute dall’ordinamento italiano) inseriva anche quelle per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità – nel 2021 il partito di Meloni, Fratelli d’Italia, ha contribuito alla bocciatura della proposta, facendo in modo che non fosse discussa in senato, e metà dell’aula ha applaudito.
Il risultato è che in Italia non si può essere perseguiti per discriminazioni basate su orientamento sessuale, genere e identità di genere. Non c’è quindi da meravigliarsi se nella Rainbow map stilata dalla ong Ilga-Europe l’Italia figura al 36° posto su 49, qualificandosi come uno dei paesi più omofobi d’Europa.
Una decina d’anni fa, a circa vent’anni, mi trasferii in una nuova casa con la mia ragazza e una coppia italiana etero che avevamo appena conosciuto. Una delle prime cose che la mia ragazza disse alla coppia fu: “Io e Viola stiamo insieme”. Il ragazzo rispose: “Non preoccuparti, per noi va bene”. Questa reazione rientra nella stessa categoria di quella della ginecologa semi-comprensiva: entrambe esprimono un’accettazione della coppia, ma non come un dato oggettivo, bensì come un atto di gentilezza.
Qualche anno dopo, un ragazzo con cui uscivo mi chiese se la mia bisessualità fosse dovuta a qualche trauma, presumendo che altrimenti sarei stata al cento per cento eterosessuale. Non aveva “niente contro le coppie dello stesso sesso”, mi rassicurò.
L’esempio aiuterebbe
Quando ho raccontato questi due episodi ai miei amici, non sembravano troppo colpiti. Non capivano dove fosse il problema. I loro sguardi non coglievano l’aspetto discriminatorio, perché immersi in una società che fatica a identificarlo.
Recentemente papa Francesco ha usato un’espressione omofoba per suggerire ai vescovi di non ammettere uomini queer nei seminari. Anche se poi si è scusato, nessuno si è chiesto come mai, nonostante l’intolleranza della chiesa nei confronti delle persone lgbtq+, tanti uomini gay scelgono il percorso ecclesiastico. Una risposta ovvia sarebbe che il mondo esterno è ancora meno accogliente.
Non aiuta il fatto che in Italia ci siano ancora pochissime figure pubbliche, come cantanti e attori, apertamente e orgogliosamente queer. Il loro esempio, più di ogni altra cosa, aiuterebbe a costruire una contronarrazione nella lotta per l’uguaglianza. Invece ci sono ancora celebrità che promuovono i cosiddetti valori della famiglia nucleare eterosessuale, come la cantante Carmen Consoli che, pur avendo scelto la fecondazione in vitro all’estero, da single, ha dichiarato di “essere per la famiglia tradizionale”.
Sapremo che l’Italia è finalmente una società più equa quando gli italiani queer saranno capaci di denunciare le discriminazioni che continuano a subire. Purtroppo è difficile che succeda presto nel paese di Giorgia Meloni. ◆ nv, vdg
Viola Di Grado è una scrittrice e traduttrice italiana. Il suo ultimo romanzo è Marabbecca (La nave di Teseo 2024).
“Alle Olimpiadi di Parigi le pallavoliste azzurre hanno conquistato una medaglia d’oro, battendo le campionesse in carica degli Stati Uniti. Paola Egonu, figlia di immigrati nigeriani, è stata votata come la migliore giocatrice del torneo. La street artist romana Laika le ha dedicato un murale davanti alla sede del Coni”. Il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung parte da questo episodio per spiegare come questo successo abbia riacceso in Italia il dibattito sulla cittadinanza. L’opposizione chiede che i figli degli immigrati possano diventare cittadini italiani dopo aver frequentato almeno cinque anni di scuola, il cosiddetto ius scholae. Richiesta presentata dal Coni, che ha molti atleti figli di immigrati, ma bocciata dai partiti di destra. “Il murale raffigura la giocatrice durante un’azione in campo”, prosegue il quotidiano tedesco, “con le scritte Stop Racism, Stop Hate e Italianità. Quest’ultima è un riferimento all’ex generale Roberto Vannacci, ora eurodeputato della Lega, secondo cui Egonu potrebbe avere la cittadinanza italiana, ma per le sue ‘caratteristiche fisiche’ non rappresenterebbe ‘l’italianità’. Il murale è stato deturpato da qualcuno che ha dipinto di rosa la pelle nera di Egonu”.
Anche il Financial Times dedica un articolo alla questione della cittadinanza, partendo dal successo nella pallavolo: “Diversi partiti, tra cui Forza Italia, chiedono di modificare le norme sulla cittadinanza per accelerare il processo di naturalizzazione per tutti i figli di immigrati che studiano in Italia”. Il quotidiano spiega che la presidente del consiglio Giorgia Meloni non si è ancora pronunciata, ma che la Lega si oppone a qualsiasi modifica alla legge. “Quasi 900mila bambini stranieri”, continua il Financial Times, “molti dei quali nati in Italia da lavoratori migranti che risiedono legalmente nel paese, sono iscritti al sistema scolastico italiano. Rappresentano il 10,6 per cento degli 8,2 milioni di bambini in età scolare del paese”. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati