Durante un comizio a Detroit l’8 agosto, Kamala Harris stava sottolineando i pericoli del programma di Trump quando un piccolo gruppo di manifestanti l’ha interrotta. Gridavano qualcosa a proposito di Gaza. La candidata del Partito democratico ha reagito dicendo: “Adesso sto parlando”. I manifestanti hanno insistito. I toni di Harris si sono fatti più duri. “Sapete una cosa? Se volete che vinca Donald Trump, fate pure. Altrimenti, io sto parlando”. E ha continuato il discorso, tra gli applausi, mentre i contestatori venivano scortati fuori.
Il video della scena mi ha ricordato quello che successe 32 anni fa a una raccolta fondi per i democratici a New York. Bill Clinton stava parlando quando Bob Rafsky, un attivista di Act up, si alzò in piedi chiedendogli cosa intendeva fare per contrastare l’epidemia di aids. “Stiamo morendo”, disse Rafsky. Clinton all’inizio dialogò con lui, spiegando che si candidava “per fare qualcosa al riguardo”. Rafsky continuò a urlare. E Clinton s’infuriò: “Si vuole dare una calmata?”.
Kamala Harris pensa a battere Trump, non a un genocidio che avviene a diecimila chilometri di distanza. Questo modo di ragionare è emotivamente sordo
Conoscevo Rafsky. All’epoca facevo parte di Act up e mi occupavo della questione dell’aids per la stampa gay. Quando Clinton pronunciò la frase “Si vuole dare una calmata”, quello che sentii nella mia testa era: “Ci sono cose più importanti della tua vita”. Nei calcoli della campagna elettorale probabilmente era così: solo una piccola percentuale degli statunitensi conviveva con quella malattia. Clinton aveva questioni statisticamente più rilevanti da affrontare.
Sì, prima del suo intervento a Detroit Harris ha avuto un incontro sbrigativo con un gruppo di attivisti solidali con la Palestina. Ma nel rimprovero che ha fatto ai contestatori ho sentito quello stesso calcolo politico: deve pensare a battere Trump, non a un genocidio che sta avvenendo a diecimila chilometri di distanza e che tocca due milioni di persone, alcune legate a una percentuale esigua dell’elettorato statunitense. Come chi nel 1992 combatteva l’aids, i palestinesi statunitensi e tutti gli altri che vogliono la fine della guerra d’Israele devono sapere che l’altro candidato sarebbe peggio.
Questo modo di ragionare è tanto valido per le statistiche quanto emotivamente sordo. Sembra che almeno uno dei contestatori fosse di origini palestinesi. E, considerate le caratteristiche demografiche di Detroit, è verosimile che nel pubblico ci fossero altri palestinesi statunitensi, molto probabilmente con familiari e amici a Gaza che rischiano di essere uccisi, se non sono già morti.
Rafsky morì nel febbraio 1993, un mese dopo l’insediamento dell’amministrazione Clinton. Nel novembre 1992, alla vigilia delle elezioni, pronunciò un discorso accanto alla bara di un altro attivista di Act up, Mark Fisher, che aveva chiesto che il suo corpo fosse portato per le strade di New York in segno di protesta. Pioveva. Rafsky era pelle e ossa, gli restavano pochi mesi di vita. Era furioso: “George Bush, sarai sconfitto perché crediamo che c’è ancora un po’ di compassione nel popolo degli Stati Uniti”. Si rifiutava di credere a un mondo in cui un presidente che era stato indifferente alla morte di più di centomila statunitensi potesse essere rieletto.
L’amministrazione Biden ha appoggiato Israele e ha continuato a mandargli armi mentre proseguiva l’offensiva contro Gaza. La Casa Bianca ha solo mitigato il suo sostegno nonostante siano morte, secondo i dati diffusi dalle autorità palestinesi, più di quarantamila persone, in maggioranza donne e bambini. Una vittoria di Trump renderebbe Israele ancora più spavaldo. Se invece sarà eletta Harris, c’è la possibilità – non la certezza – che gli Stati Uniti gradualmente abbandonino la loro politica ultradecennale di appoggio incondizionato allo stato ebraico.
Pur sapendo che questo non porterà benefici immediati al popolo palestinese, la maggioranza degli elettori democratici pensa di votare per Harris, perché è consapevole che su questo e su altri temi sarà meglio di Trump. Ma alcuni sono come Rafsky: non riescono a sopportare una vittoria elettorale della vicepresidente di Joe Biden, che non si è mai espressa contro le sue scelte politiche in Medio Oriente.
Se a novembre voteranno per Harris, cosa potranno dire alla popolazione di Gaza? Che si sono turati il naso mentre la gente moriva? Per questi elettori il prezzo psicologico del voto è alto. Forse potranno convincersi a pagarlo perché sanno, come me, che la politica mediorientale di Harris sarebbe infinitamente preferibile a quella di Trump. Ma devono essere convinti, non ignorati.
Harris deve riconoscere la loro sofferenza, il senso di alienazione da un mondo che sembra indifferente alle bombe e a una carestia provocata intenzionalmente. Per una campagna che si fonda sull’altruismo e sulla gentilezza, l’incapacità di vedere questo dolore è una stonatura particolarmente stridente. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati