In un periodo caratterizzato da forti tensioni internazionali, la Cina ha ritenuto che fosse arrivato il momento di effettuare alcune manovre militari attorno a Taiwan. L’esercito di Pechino ha dispiegato mezzi importanti, sia navali sia aerei, simulando un blocco e un attacco contro l’isola che vorrebbe conquistare a tutti i costi. Secondo il governo di Taipei, il 2 aprile decine di aerei militari, navi da guerra e imbarcazioni della guardia costiera hanno circondato l’isola per oltre sette ore.
L’obiettivo di Pechino era duplice. Innanzitutto, il governo cinese voleva mandare un messaggio perentorio al presidente taiwanese William Lai, colpevole di aver definito la Cina “una forza straniera ostile”. La parola più offensiva, in questo caso, è “straniera”, perché per il governo di Pechino esiste una sola Cina, di cui Taiwan fa parte.
Ma al contempo Pechino voleva mettere alla prova l’amministrazione Trump, che non ha ancora svelato tutte le sue carte in Asia orientale. Le manovre cinesi hanno spinto la Casa Bianca a condannare fermamente ogni tentativo di “cambiare lo status quo con la forza”. Si tratta della posizione tradizionale assunta dagli Stati Uniti, che però non era stata ancora ufficialmente espressa dall’amministrazione Trump. In questo ambito, dunque, non ci sono stati cambiamenti di dottrina, diversamente da quanto accaduto rispetto all’Ucraina o all’Europa.
Gli alleati di Washington nell’Asia Pacifico, però, non si sentono ancora rassicurati. La settimana scorsa il segretario alla difesa Pete Hegseth si è recato in Giappone e nelle Filippine per ribadire la solidità degli impegni degli Stati Uniti. Hegseth ha addirittura annunciato la costruzione in Giappone di un centro di comando bellico per la zona indo-pacifica, definendo il paese un “alleato essenziale” per scongiurare qualsiasi azione aggressiva della Cina, anche nello stretto di Taiwan.
Eppure il dubbio resta, perché la parola della Casa Bianca non ha più lo stesso valore di un tempo. Di recente, un diplomatico asiatico mi ha confidato la propria inquietudine per il fatto che gli Stati Uniti mescolano ormai le questioni commerciali con quelle di sicurezza, due aspetti che finora erano sempre rimasti separati.
La natura transnazionale del rapporto con Washington preoccupa molti alleati, così come l’imprevedibilità di Donald Trump. L’uomo del deal può stupire chiunque in qualsiasi momento, una caratteristica che non propende certo per la stabilità delle alleanze.
Nel caos della politica estera statunitense, di cui gli europei sono tra le prime vittime, l’ostilità nei confronti della Cina resta una costante. Era stato proprio Trump, durante il suo primo mandato, a scatenare la guerra tecnologica contro Pechino.
Una strategia di “contenimento” (come si diceva ai tempi della guerra fredda) portata avanti anche da Joe Biden e confermata dall’attuale presidente dall’inizio del suo secondo mandato.
Allo stesso tempo, però, è chiaro che siamo solo nella prima fase di un rimescolamento dell’ordine internazionale da parte di Trump. Il presidente ha teso la mano a Vladimir Putin sulla questione ucraina (finora senza successo) abbandonando gli europei, con cui ha cercato di fare il duro senza risultare più di tanto convincente.
Il rapporto tra Washington e Pechino resta la questione centrale del ventunesimo secolo, l’unica capace di rimettere in discussione l’egemonia statunitense.
Il problema è che il tarlo del dubbio attanaglia sempre di più gli alleati della Casa Bianca, che non sanno fino a che punto possano davvero contare sulla sua protezione. Le manovre cinesi degli ultimi giorni sono solo un primo test di questa volontà.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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