A metà degli anni sessanta, ogni lunedì sera, il jazz club Village Vanguard del Greenwich Village ospitava dei dibattiti. In una di queste serate, a tema “arte e politica”, intervenne il poeta e drammaturgo nero LeRoi Jones (che presto avrebbe preso il nome Amiri Baraka) insieme al sassofonista nero Archie Shepp e al pittore bianco Larry Rivers. Il pubblico era composto quasi tutto da persone come me e i miei amici: progressisti e radicali della classe media bianca, in molti casi con una lunga militanza per i diritti civili. Eravamo accorsi in massa al Vanguard convinti di fare fronte comune con gli oratori, ma Jones non ci vedeva di buon occhio. Anzi, ci disse subito che non eravamo graditi nel movimento per i diritti civili, che eravamo solo degli intrusi, che eravamo lì solo per sentirci a posto con la coscienza. Poi puntò il dito e sbraitò: “Il sangue scorrerà sulle poltrone del teatro della rivoluzione, e indovinate chi è seduto su quelle poltrone!”. Il locale esplose tra le urla e gli strepiti delle persone che respingevano le accuse lanciate contro di loro. Un uomo in particolare sembrava impazzito, continuava a gridare: “Ho pagato il mio debito. LeRoi, sai bene che ho fatto la mia parte”. Jones si limitò a scuotere la testa, come se fosse stupito della profondità del nostro comune autoinganno, poi disse: “Voi avete mandato tutto a puttane. Quando arriverà il momento faremo le cose in modo diverso”. Io restai lì seduta a pensare: “Sta confondendo classe e razza. Per arrivare a quel ‘momento’ deve diventare come noi, che più che bianchi siamo borghesi”. Però tenni la bocca chiusa. Poi andai a casa e rimasi sveglia quasi tutta la notte a scrivere. Sapevo di voler mettere il lettore nei miei panni, di fargli vivere la serata come l’avevo vissuta io, quindi mi sembrava giusto usare me stessa come narratrice in prima persona. Al mattino infilai il mio articolo in una busta, andai alla cassetta della posta all’angolo e lo spedii al Village Voice. Non avrei saputo dove altro mandarlo. Dopo tutto, avevo scritto un pezzo di giornalismo partecipativo e, come sapevano tutti nel mondo – cioè a New York –, il giornalismo partecipativo e il Village Voice erano una cosa sola.
Nei repressivi anni della guerra fredda, migliaia di statunitensi si sentivano privati di prodotti culturali che restituissero il senso della vita per come la stavano vivendo. Tra queste migliaia c’erano tre veterani della seconda guerra mondiale – Dan Wolf, Ed Fancher e Norman Mailer – che volevano fondare un giornale settimanale in grado di offrire un’alternativa ai quotidiani e alle riviste già affermate, la cui prosa eufemistica cominciava a suonare orwelliana. Così nell’autunno del 1955 lo fecero davvero.
La libertà accordata ai redattori e ai freelance era straordinaria. Si poteva scrivere quello che si voleva, con la lunghezza che si desiderava. Non c’erano vere e proprie revisioni
Il Village Voice uscì con un invito ai lettori a collaborare. “Non importa che siate scrittori o giornalisti professionisti”, proclamavano i redattori. “Mandateci quello che trovate interessante. Scrivetelo in modo convincente e lo pubblicheremo”. Ben presto, il Voice diventò il posto in cui un pubblico di lettori in costante aumento poteva leggere articoli su argomenti di reale interesse scritti con il linguaggio che si usava al lavoro, per strada, in metropolitana. Alcuni di questi primi collaboratori diventarono redattori del giornale facendo esattamente quello che io, un decennio più tardi, avrei fatto con la mia serata al Vanguard. In quel momento la controcultura era all’apice e il Voice era la sua pubblicazione di riferimento.
Ho fatto parte dello staff per due anni all’inizio degli anni settanta e per altri due alla fine del decennio.
La libertà – se così si può definire – accordata ai redattori e ai freelance era straordinaria. Si poteva scrivere quello che si voleva, con la lunghezza che si desiderava. Non c’erano vere e proprie revisioni. Gli autori imparavano da soli lavorando. Alcuni lo facevano bene, altri male. Il risultato era un caotico miscuglio di pezzi che andavano a segno e di pezzi che non ci riuscivano, a volte approfonditi e brillanti, a volte verbosi e assurdi, il tutto scritto in modo preciso e accurato oppure totalmente sopra le righe, ma sempre palpitante. Alla fine degli anni sessanta il Voice diventò il settimanale più venduto del paese, e lo rimase per anni.
Contro ogni previsione e nonostante le enormi trasformazioni sociali che da tempo hanno costretto alla chiusura quasi tutte le altre riviste alternative del paese, il Village Voice esiste ancora, anche se solo online. Tricia Romano, ex giornalista della testata, ha realizzato The freaks came out to write (I pazzi sono usciti a scrivere), una coinvolgente cronaca orale che riporta estratti da più di duecento interviste, condotte nell’arco di quattro anni con scrittori, redattori e proprietari del Voice per ripercorrere la sua storia, decennio per decennio. Nei passaggi migliori, il libro somiglia in modo incredibile al giornale stesso, così come è stato vissuto durante i suoi anni di gloria e per molto tempo dopo.
Nel Village Voice coesistevano il giornalismo partecipativo e quello d’opinione, e spesso era difficile distinguerli. Il giornale concepiva la sua missione come duplice: offrire giornalismo d’inchiesta di alto livello e critica spocchiosa. Il giornalismo investigativo doveva essere locale mentre la critica era esistenziale. Poiché per “locale” s’intendeva la città di New York, questo tipo d’inchiesta provocava una magnifica dipendenza. Due dei più grandi reporter investigativi del giornale sono stati Jack Newfield e Mary Nichols. Il mio ricordo (senza dubbio vago) è quello di loro due chini sulle scrivanie, con una cornetta del telefono attaccata a ciascun orecchio, che ascoltano soffiate da qualche informatore con una e le verificano con una fonte affidabile con l’altra. Per Newfield e Nichols la corruzione politica era il pane quotidiano. Nichols, in particolare, voleva crocifiggere tutti quei bastardi dell’amministrazione cittadina, ma riservava i suoi colpi migliori per Robert Moses, che voleva far passare una superstrada attraverso Washington square park, deformando il Greenwich Village. Per questo gli aveva dichiarato guerra. I suoi articoli sul Voice avevano mobilitato il quartiere, contribuito a respingere il progetto di legge e inflitto a Moses un colpo mortale.
Anche Newfield era un investigatore implacabile. Aveva pubblicato per anni le temutissime rubriche intitolate “I dieci peggiori proprietari di immobili” o “I dieci peggiori giudici”. Il suo stile era radicalmente esplicito. Mentre altri reporter potevano scrivere una storia che si concludeva con un’accusa di corruzione, Newfield cominciava da questa, poi andava a fondo. Per esempio, un suo pezzo apriva così: “Il giudice della corte suprema di Brooklyn Dominic Rinaldi è un tipico giudice della macchina” – dove “della macchina” significava che era stato comprato. “È stato repressivo nei confronti dei neri e al tempo stesso permissivo con gli spacciatori di eroina e i mafiosi”. Alla fine del pezzo il lettore era ormai convinto che il giudice meritasse la prigione. Per Newfield ogni storia sul marciume politico di New York era un piccolo Watergate.
In seguito, il giornale pubblicò i pezzi di James Ridgeway e Wayne Barrett, i cui reportage guadagnarono l’attenzione nazionale. A pensarci bene, non avrebbero potuto lavorare altrove. Nel libro Ridgeway racconta a Romano la storia di un colloquio con un redattore del New York Times, che gli chiedeva come secondo lui i giornalisti del Times potessero migliorare. Ridgeway aveva risposto: “Potreste prendere posizione e cominciare a fare attacchi personali”. L’uomo del Times ci aveva pensato per un momento, poi aveva detto: “Non credo che qui saresti felice”. Barrett racconta a Romano del suo rapporto con Ed Koch, uno dei sindaci più importanti della storia della città: “Koch e io siamo entrati in carica lo stesso giorno nel 1978. Lui è diventato sindaco e io sono diventato il suo tormento settimanale”.
Ma è nel magmatico mondo della critica artistica che il Village Voice, tra gli anni sessanta e ottanta, si dimostrò più influente. Con Robert Christgau sulla musica rock, Andrew Sarris sul cinema d’autore, Cindy Carr sulle arti performative e le vignette di Jules Feiffer che sbeffeggiavano il consumo borghese di tutto ciò, gli autori del Voice erano i principali cronisti di quelle che sembravano le novità nell’arte in un momento in cui tutto era nuovo. Qualcuno ha detto, riferendosi a Christgau, che “i migliori giornalisti che si occupavano di rock scrivevano di musica ai livelli della musica stessa”. Questo si sarebbe potuto dire di diversi critici del Voice, molti dei quali si sentivano posseduti dallo stesso ardore di Christgau ed erano in missione per far conoscere al mondo il valore vivificante delle arti. Il contributo definitivo della rivista al giornalismo è stato quello di aumentare la rilevanza di questo genere di articoli nei quotidiani, in un’epoca in cui le testate consideravano la critica artistica una “notizia d’intrattenimento”.
Poi arrivarono i due grandi movimenti di emancipazione degli anni settanta e ottanta: i diritti delle donne e la liberazione omosessuale. Il Voice ci si tuffò a capofitto, con Richard Goldstein alla guida delle tematiche gay e Susan Brownmiller di quelle femministe. Molti collaboratori trovavano entrambe le cause impegnative ed erano grati per il sostegno del giornale. Io, per esempio, mi schierai subito sulle barricate del femminismo radicale, cominciai a vedere sessismo ovunque e a scriverne senza sosta. Se leggevo un libro, andavo a una cena, prendevo la metropolitana, entravo in un negozio di alimentari, il sessismo era lì, vivo, palpabile, urgente. E il Voice mi lasciò fare: un pezzo dopo l’altro, tutti lunghi quanto volevo, polemici quanto volevo, combattivi quanto volevo. Riesco a sentirne l’urgenza sulla pelle perfino oggi.
Per la maggior parte delle femministe del Voice le grandi aree d’interesse erano due: il lavoro e il piacere sessuale. La mia era la prima. Volevo che ogni donna al mondo prendesse il lavoro più seriamente dell’amore. Altre scrittrici del Voice – Ellen Willis, per esempio – si battevano per la liberazione della vita erotica: stessa urgenza e stesso accanimento. Quanto ci prendevamo sul serio! Newfield ci ha definito “femministe staliniste”, e ovviamente lo eravamo. Ricordo che una volta, negli anni settanta, ero seduta alla mia scrivania del Voice quando entrò Jill Johnston, che non avevo mai incontrato prima. Jill era una stimata anomalia del Voice: scriveva la sua rubrica di danza senza maiuscole, punteggiatura o paragrafi, nessuno sapeva mai di cosa stesse parlando. Quel giorno venne dritta da me e senza una parola di presentazione mi disse: “Voglio che tu sappia che io ho orgasmi sia vaginali sia clitoridei”. Non battei ciglio e senza sorridere risposi: “L’orgasmo non è il mio settore, parlane a Ellen”. L’attenzione del giornale per le politiche femministe e queer si estese anche ai diritti civili e alla cultura politica nera, e il Voice diventò il trampolino di lancio per alcuni dei più talentuosi scrittori afroamericani, tra cui Stanley Crouch, Greg Tate e Colson Whitehead.
Nel 1970, Wolf e Fancher (Mailer se n’era andato da tempo) vendettero la quota di controllo del Voice a un’azienda di Carter Burden, figura di spicco della mondanità newyorchese e consigliere comunale, a condizione di mantenere il controllo editoriale. Burden, naturalmente, disse di aver comprato il giornale perché lo amava, non si sarebbe mai sognato di cambiare qualcosa o qualcuno al suo interno, ma meno di cinque anni dopo decise di vendere. Non perché il giornale stesse perdendo soldi (non era così), ma perché lui, Burden, aveva bisogno di denaro per affrontare altre spese.
È stato l’inizio del lento, progressivo sventramento del Voice che, in sostanza, si era legato agli interessi di chi ne aveva il controllo economico. Burden ha venduto il giornale a Clay Felker della rivista New York, che ha licenziato quasi subito Wolf e Fancher e nel giro di pochi anni ha perso il controllo finanziario ed editoriale. Felker ha venduto il giornale a Rupert Murdoch, che ha fatto lo stesso. Credo che siano seguiti circa otto proprietari, uno dopo l’altro, tutti attivamente responsabili nel declino del giornale. Ogni nuovo proprietario sosteneva di “amare il Voice così com’era” , ma appena ne prendeva il controllo cominciava a licenziare redattori e giornalisti, sostituendoli con nuovi redattori e giornalisti che presto venivano licenziati e sostituiti con altri ancora. In breve, per molti ricchi possedere il Village Voice era una fantasia insoddisfacente: nessuno di loro capiva il carattere originale del giornale o il suo rapporto con i tempi che cambiavano.
L’influenza della controcultura sulla società statunitense in generale è stata incalcolabile. Quando ha fatto il suo tempo, molte delle cose a cui si era opposta non esistevano più. Il Village Voice non è stato altro che un figlio della controcultura: a metà degli anni novanta la sua missione era finita. Aveva perso la sua ragione di esistere. Eppure, nel raccontare i trent’anni finali del giornale le testimonianze che riempiono The freaks came out to write sono accese quanto lo sono quelle dei primi, tanto è grande il desiderio di credere che il Voice abbia avuto un impatto negli anni duemila come negli anni sessanta. È un tributo all’universale desiderio di una vita lavorativa al servizio di qualcosa di più grande del proprio piccolo, isolato sé. ◆ svb
Vivian Gornick è una giornalista statunitense. È nata nel 1935 a New York, dove vive ancora oggi. Ha lavorato al Village Voice dal 1969 al 1977. Questo articolo è una recensione del libro di Tricia Romano The freaks came out to write: the definitive history of the Village Voice, the radical paper that changed american culture (Public Affairs 2024). È uscito sul quindicinale letterario britannico London Review of Books con il titolo Orgasm isn’t my bag.
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Questo articolo è uscito sul numero 1568 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati