I l 20 febbraio la polizia ha disperso con la forza un gruppo di manifestanti che si era radunato in piazza Puškin a Mosca – luogo di ritrovo dei dissidenti fin dall’era sovietica – per denunciare il rischio che Vladimir Putin abbia intenzione di attaccare l’Ucraina. I manifestanti, tra cui c’era Lev Ponomarëv, ex parlamentare e storico attivista per i diritti umani, sono stati arrestati appena hanno srotolato gli striscioni. Alcuni sono stati fermati dalla polizia e accusati di aver violato il rigido divieto di manifestazioni pubbliche imposto da Mosca a causa della pandemia. Naturalmente il divieto si applica solo all’opposizione: quando Putin ha tenuto un comizio davanti a ottantamila persone in uno stadio per celebrare l’anniversario dell’annessione della Crimea le autorità non hanno avuto nulla da obiettare.
La protesta del 20 febbraio è stata solo l’ultimo segnale del malcontento dei russi nei confronti di Putin sull’Ucraina. Questo sentimento ha trovato poco spazio sui mezzi d’informazione internazionale, di conseguenza molti occidentali sono convinti che tutti i russi siano a favore della guerra. Non è assolutamente così. Negli ultimi giorni le principali personalità della cultura russa – che tradizionalmente hanno un peso significativo nel paese – si sono schierati contro l’attacco. “La Russia non ha bisogno di una guerra contro l’Ucraina o contro l’occidente”, si legge in una dichiarazione firmata, tra gli altri, dal musicista rock Andrej Makarevič e dall’attrice Lija Achedžakova. “Nessuno ci sta minacciando, nessuno ci sta attaccando. La politica che spinge alla guerra è immorale, irresponsabile e criminale”. Ljudmila Ulickaja, una delle più importanti scrittrici russe contemporanee, ha definito “folli” i piani del Cremlino. Il grande pianista Evgenij Kisin ha dichiarato che i responsabili del conflitto saranno ricordati come “criminali assetati di sangue”. L’ex tennista Evgenij Kafelnikov ha detto che “solo una persona psicologicamente squilibrata può sventolare la minaccia di una guerra”. Il partito Jabloko, l’ultima vera forza di opposizione ufficialmente riconosciuta, ha lanciato una petizione contro un eventuale attacco all’Ucraina firmata da migliaia di persone in pochi giorni. “Questa non è la nostra guerra”, ha dichiarato Boris Višnevskij, uno dei dirigenti del partito, eletto nell’assemblea legislativa di San Pietroburgo. “Spero ancora che il conflitto possa essere evitato. E solo noi, cittadini russi, possiamo fermarlo, non l’occidente o qualcun altro dall’esterno”.
Anche se è difficile tastare il polso dell’opinione pubblica in uno stato autoritario – in cui tutte le reti tv sono controllate dal governo e molte persone sono comprensibilmente riluttanti a parlare delle loro idee politiche – i sondaggi disponibili dicono che i russi sono contrari a un’operazione militare. La maggior parte di loro non vuole mandare truppe in Ucraina e non crede ai tentativi del Cremlino di descrivere l’occidente come un nemico.
Una storia di proteste
È difficile dire se l’opposizione interna alla guerra possa avere qualche effetto concreto. Ma di certo gli esponenti dell’élite culturale russa che alzano la voce contro l’ennesima aggressione del Cremlino stanno difendendo l’onore della nazione come fecero i sette manifestanti che nell’agosto 1968 protestarono sulla piazza Rossa contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. “Una nazione senza di me non è una nazione intera. Una nazione senza dieci, cento, mille persone non è una nazione unita”, ha ricordato la poeta Natalja Gorbanevskaja, che era in piazza 54 anni fa. “Così facendo le autorità non potevano più dire che tutta la nazione approvava l’invasione della Cecoslovacchia”.
In tempi più democratici in Russia l’opposizione al Cremlino non proveniva solo da chi era abbastanza coraggioso da affrontare il carcere pur di opporsi a un regime autoritario. Nel gennaio 1991 più di centomila persone si radunarono in piazza Manežnaja a Mosca, appena fuori le mura del Cremlino, per denunciare l’attacco militare alla Lituania. Negli anni novanta ci furono proteste di massa a Mosca e a San Pietroburgo contro la brutale repressione in Cecenia. Quando i deputati comunisti cercarono di mettere in stato d’accusa l’allora presidente Boris Eltsin, nel maggio 1999, i loro colleghi liberali si opposero sostenendo che si trattava di una mossa politica di facciata. Eppure perfino alcuni di loro finirono per votare l’articolo che condannava la guerra in Cecenia (non arrivarono alla maggioranza richiesta dei due terzi per 17 voti appena).
A differenza di quello che vediamo oggi, all’epoca la Russia aveva un vero parlamento. La scorsa settimana la duma ha approvato una risoluzione per riconoscere formalmente le due enclave separatiste sostenute dal Cremlino nell’Ucraina orientale – senza molto dibattito – con 351 voti contro 16. Tutti i principali partiti di “opposizione” hanno votato a favore. Sono stati proprio i comunisti a presentare la mozione a beneficio del Cremlino.
Attaccando l’Ucraina, Putin correrebbe un rischio. In passato i leader russi non hanno avuto molto successo con le “piccole guerre vittoriose” lanciate per scopi di politica interna: dalle disastrose campagne del regime zarista in Crimea e in Giappone nell’ottocento e all’inizio del novecento fino all’invasione dell’Afghanistan negli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Il risultato di solito è l’opposto di quello sperato. “Per la Russia queste guerre finiscono non solo senza successo ma spesso in una catastrofe politica”, ha avvertito Andrej Zubov, uno storico che nel 2014 fu temporaneamente cacciato da una delle più importanti università russe per aver criticato l’annessione della Crimea. “Sappiamo quale fu la reazione della popolazione dopo la sconfitta nella guerra tra Russia e Giappone del 1905”, che contribuì alla prima rivoluzione russa. “Lo stesso potrebbe succedere oggi. I russi potrebbero rifiutare la scommessa del regime”.
Per un leader come Putin, ossessionato dalla storia russa, sarebbe una beffa inciampare in uno degli errori più comuni della tradizione politica nazionale. ◆ ff
Vladimir Kara-Murza è un giornalista, regista e attivista politico russo. È vicepresidente dell’ong Open Russia.
Questo articolo è stato pubblicato anche dal Washington Post.
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Questo articolo è uscito sul numero 1449 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati