Il pil è uno degli indicatori economici meno sofisticati, un singolo numero per descrivere i miliardi di eventi e decisioni che muovono l’economia. Ha sicuramente una sua utilità, e il suo principale obiettivo è raccontare la storia più semplice possibile su dove sta andando un’economia: sta crescendo o si sta contraendo? Le storie semplici, però, sono spesso fuorvianti. Prendiamo il parere espresso dal Fondo monetario internazionale nell’aprile 2024, secondo cui l’economia russa sarebbe cresciuta più in fretta di quella di qualsiasi paese del G7. Alcuni osservatori dicevano che “ruggiva”. In realtà le stesse misure che hanno permesso la crescita apparente dell’economia russa la stanno portando verso il disastro. Alcuni dati sembrano buoni. Mentre i paesi del G7 (a parte la Germania) scricchiolano sotto il peso del debito (il Regno Unito, la Francia e l’Italia hanno tutte un rapporto tra il debito pubblico e il pil superiore al 100 per cento), il rapporto tra il debito e il pil della Russia è inferiore al 15 per cento. I salari reali (adeguati all’aumento dell’inflazione) sono aumentati in modo significativo – più del 9 per cento nell’ultimo anno – e questo vuol dire che la maggior parte dei russi è nelle condizioni di comprare di più e stare meglio.
L’apparenza del successo economico però è una maschera sottile che copre profondi problemi strutturali. Qualsiasi paese che passa a un’economia di guerra registra un aumento del pil. La guerra, d’altronde, è un’attività economica, e la spesa russa per l’invasione dell’Ucraina è enorme. Secondo Adnan Vatansever, esperto di economia russa del King’s college di Londra, le spese del Cremlino per la guerra in Ucraina (comprese quelle collaterali, come l’aumento vertiginoso dei costi per reclutare soldati e i sussidi sociali per le vittime) potrebbero essere vicine al 10 per cento del pil nazionale. La guerra è inoltre alla base degli aumenti salariali: due milioni di persone sono state assunte nel settore dell’industria militare. Secondo le stime dei servizi segreti britannici, infine, la Russia ha avuto finora settecentomila morti. In un’economia che registrava già di fatto la piena occupazione tutto questo crea una forte carenza di personale nel mercato del lavoro, fatto che provoca un aumento dei salari in tutti i settori.
Vatansever spiega però che l’aumento dei salari sta anche facendo lievitare la domanda, un dato che a sua volta fa crescere i prezzi: ora l’inflazione in Russia è intorno al 10 per cento. Sui social media russi sono circolati video di persone che rubano burro, un prodotto il cui prezzo è aumentato di più del 25 per cento nell’ultimo anno. E, cosa ancora più grave, Mosca non sembra in grado di tenere sotto controllo quest’inflazione. Il 25 ottobre la banca centrale ha alzato il suo principale tasso d’interesse al 21 per cento, molto oltre i livelli fissati nelle economie occidentali perfino durante le crisi inflazionistiche degli anni settanta. In qualsiasi economia normale tassi d’interesse molto alti dovrebbero ridurre bruscamente l’inflazione e rafforzare la valuta, ma in Russia i prezzi continuano ad aumentare e il rublo ha toccato il suo valore minimo dall’inizio della guerra in Ucraina. Secondo Vatansever, questo succede perché “la Russia non è più un’economia normale”. Putin sta sovvenzionando pesantemente il tenore di vita dei cittadini con una spesa pubblica altissima.
La Russia ha inoltre gonfiato in modo artificiale il suo mercato immobiliare, sovvenzionando i mutui e dando vita a una pericolosa bolla. I prezzi delle case nelle città sono più che raddoppiati dall’inizio della guerra in Ucraina, ma quando a luglio i sussidi sono stati ridotti la domanda si è dimezzata, creando le condizioni per l’esplosione di una bolla che, secondo Vatansever, “potrebbe provocare presto o tardi una crisi finanziaria”.
Per l’economia rappresenta un rischio anche il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. La prosperità della Russia, infatti, dipende in ultima analisi dai consumatori occidentali. La Russia funziona grazie al petrolio: dopo che gran parte delle sue esportazioni di gas verso l’Europa è stata interrotta, Mosca sopravvive grazie a un’unica materia prima: finché il prezzo del petrolio resta alto, continuano ad arrivare soldi nelle casse statali. Il timore del Cremlino è che un rallentamento finanziario globale riduca i consumi in tutto il mondo e, di conseguenza, la domanda di petrolio. Ed ecco cosa potrebbe venir fuori dalle promesse di Trump: meno globalizzazione e più barriere doganali.
In passato, aggiunge Vatansever, la Russia ha usato le sue grandi riserve finanziarie per affrontare le crisi, ma ora le cose sono cambiate: parte della politica russa di “de-dollarizzazione” ha comportato la conversione di 207 miliardi di dollari delle riserve della sua banca centrale in attività denominate in euro, che però sono state congelate nel 2022 e non saranno sbloccate a breve. L’unico cuscinetto finanziario rimasto è il fondo sovrano di Mosca che tuttavia, se il prezzo del petrolio scenderà sotto i sessanta dollari al barile, potrebbe svuotarsi nel giro di un anno.
L’era sovietica
È difficile immaginare come in questo contesto le aziende russe possano giustificare investimenti, creazione di posti di lavoro e crescita. Se guardiamo al lungo periodo è già da tempo evidente che la presidenza di Putin si discosta poco dall’era sovietica: ha reso la Russia un gigante in campo militare e allo stesso tempo un nano economico. Il suo governo criminale non è mai stato in grado di diversificare l’economia. Mentre il mondo compra automobili cinesi e software statunitensi, l’unica cosa che arriva dalla Russia è il petrolio. E alla fine, con il graduale abbandono delle fonti fossili, sarà evidente l’agghiacciante distruzione di potenziale del paese.
Gli alti livelli d’istruzione che la Russia poteva vantare sono stati sprecati, perché sotto il regime di Putin la mancanza di diritti di proprietà intellettuale e di legalità hanno spinto gli innovatori e gli imprenditori ad andare all’estero. Con un governo diverso, secondo Vatansever, la Russia “sarebbe potuta diventare facilmente una delle prime cinque o sei economie al mondo”. Invece il paese più grande del mondo è finito fuori dalla lista delle dieci economie principali. “Assisteremo probabilmente al graduale declino della rilevanza economica della Russia sul palcoscenico internazionale”, conclude Vatansever. L’economia russa starà anche ruggendo, ma forse per lo sgomento. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati