Chiedete a qualunque musicista di parlarvi dell’Egitto tra il 2011 e il 2013, i due anni seguiti alla rivoluzione che rovesciò il presidente Hosni Mubarak, e probabilmente vi descriverà un paese “euforico”, un periodo esplosivo di possibilità apparentemente illimitate, in cui le arti visive, i graffiti, il teatro e le altre forme creative fiorirono per dare voce a un momento storico.
Molti musicisti indipendenti, prima ai margini di un’industria dominata da icone pop lontane dalla vita delle persone, inventarono inni che smuovevano i giovani del più popoloso paese arabo al culmine della sua “primavera”.
Cantando su palchi improvvisati durante le proteste e contestando l’oppressione, nacque una nuova generazione di artisti socialmente impegnati. E con la crescita delle piattaforme di streaming audio, come SoundCloud, YouTube e Anghami, alla fine degli anni duemila e all’inizio del decennio successivo non ci volle molto prima che questa scena musicale attirasse un pubblico più ampio e cementasse la popolarità degli artisti.
Ma quell’epoca non era destinata a durare. Quando il generale Abdel Fattah al Sisi è salito al potere nel 2014, controllare l’industria musicale che univa le voci dell’opposizione è diventata una delle sue priorità: dalle cancellazioni dei concerti per “misure di sicurezza” all’obbligo per i locali di ottenere vari permessi fino all’arresto degli artisti sulla base di presunte accuse di terrorismo, il regime di Al Sisi conduce dal suo inizio una guerra contro la musica indipendente. Gli spettacoli teatrali, i concerti, le proiezioni di film e le mostre, che incarnavano l’attivismo culturale di quel periodo, sono ormai una cosa del passato.
L’anno in cui Al Sisi è stato eletto la costituzione egiziana è stata modificata. L’articolo 67 tutela la libertà di espressione e vieta l’arresto di qualunque artista, scrittore o performer a causa del suo lavoro. “La costituzione è chiara e in linea con la convenzione internazionale sui diritti civili e politici, che l’Egitto ha ratificato e si è impegnato a rispettare”, dice Mahmoud Othman, avvocato e fondatore dell’organizzazione Assistenza legale e consulenza per gli artisti, con sede al Cairo. “Purché un’opera artistica non istighi al razzismo, alla discriminazione o all’odio, il suo autore non può essere incarcerato. Quindi il problema non sono le leggi in vigore, ma il fatto che non sono applicate”.
Datteri dolci
Un caso molto noto di censura riguarda il gruppo indie rock libanese Masrhou’ Leila, che non può più esibirsi in Egitto dal novembre 2017, quando un suo concerto al Cairo ha attirato più di 30mila spettatori. Nel corso dell’evento sono state arrestate sette persone – tra cui l’attivista lgbt Sarah Hegazy, che si è suicidata due anni dopo in Canada – per aver sventolato una bandiera arcobaleno in solidarietà con il cantante della band, dichiaratamente gay.
Un altro caso è quello di Ramy Essam, un musicista rock egiziano definito “il bardo della rivoluzione”, che è stato arrestato e torturato e nel 2014 è scappato dal paese, trasferendosi prima in Svezia e poi in Finlandia. Nel 2018 sette uomini sono stati arrestati con l’accusa di terrorismo per aver preso parte alla produzione della sua canzone Balaha, che sbeffeggiava Al Sisi chiamandolo “scintillante dattero marrone”. Il testo è un gioco di parole sulla leggendaria canzone Ya balaha zaghloul, opera del compositore anticoloniale Sayed Darwish, che prende in giro i despoti paragonandoli a datteri dolci. Nonostante la sua valenza storica e culturale, anche la canzone di Darwish è stata vietata, nel 2020. Nello stesso anno il regista del video di Balaha, Shady Habash, è morto mentre era in isolamento in carcere dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute.
Violando la costituzione, lo stato ha usato norme molto rigide per sorvegliare gli artisti e limitare i contenuti che ritiene pericolosi per il suo potere. Nel 2017 il regime ha ordinato la chiusura della grande catena di librerie Alef per i suoi presunti legami con i Fratelli musulmani. L’anno dopo ha stabilito condizioni quasi impossibili per tenere concerti o festival e ha concesso al ministero della cultura la facoltà di cancellarli arbitrariamente. Anche se a ottobre del 2021 è stata annunciata la fine dello stato di emergenza durato quasi cinque anni, il governo ha a disposizione leggi antiterrorismo che permettono la detenzione preventiva a tempo indeterminato, sottopongono i civili a processi militari e li inseriscono nelle liste dei terroristi.
Negli ultimi anni registi, scrittori e musicisti sono stati arrestati con l’accusa di terrorismo.
Un musicista diventato avvocato, che ha chiesto di restare anonimo per timore di rappresaglie, spiega che “il forte controllo poliziesco e le misure di sicurezza, i permessi irrealistici che bisogna avere e il rischio di essere arrestati se ne manca uno, il duro potere esecutivo e una censura storicamente tirannica rendono le cose molto difficili per gli artisti emergenti”.
Il sindacato dei musicisti, che all’apparenza lavora nell’interesse degli artisti, è diventato un altro strumento dello stato per controllare il settore. Dal 2015 può svolgere indagini giudiziarie, e il suo segretario ha assunto l’autorità di negare i permessi per gli spettacoli e di mettere al bando singoli musicisti o interi generi musicali. Guidato dal famoso artista pop Hany Shaker, negli anni il sindacato ha sanzionato numerosi artisti, limitando la crescita e la visibilità di categorie e forme musicali considerate inappropriate per motivi morali o politici.
Shaker è un’icona del pop arabo fin dagli anni ottanta e il suo ruolo nel promuovere l’omogeneità voluta dal regime è più di una mossa per mantenere lo status quo. Per certi versi, è stridente quasi quanto Kanye West che supporta lo slogan trumpiano Make America great again, se non fosse per il fatto che Shaker è una figura sostenuta dallo stato in un regime autoritario. Dopo aver costruito una carriera su testi romantici e una voce morbida, oggi Shaker guida campagne diffamatorie che demonizzano i rapper e prendono di mira le cantanti per il modo in cui si vestono. “Tra il mancato sostegno agli artisti da parte del sindacato e la loro condanna per motivi vaghi, arbitrari e incomprensibili come la violazione dei ‘valori della famiglia’, fare musica impegnata è quasi impossibile”, spiega l’avvocato ex musicista.
A ottobre il sindacato ha vietato l’esibizione di Marwan Pablo, rapper in vetta alle classifiche, dopo che il suo collega palestinese Shabjdeed lo aveva presentato sul palco come “Signore”. Il sindacato ha ritenuto l’episodio offensivo per l’islam, anche se le organizzazioni per i diritti umani affermano che nessuno dei due aveva fatto niente di illegale. Con il pretesto di proteggere i valori islamici in un paese moderatamente conservatore, lo stato decide cosa è accettabile.
Chi può esibirsi
Wael el Sayed suona la fisarmonica e si è esibito con molti musicisti diventati famosi al culmine della rivoluzione, come il gruppo rock Wust el Balad e la cantante e compositrice Dina el Wedidi. Secondo lui “la cosa frustrante è che la censura o i permessi negati non riguardano tanto specifici standard o azioni più o meno consentite, ma piuttosto chi può esibirsi e chi no. Gli attuali criteri usati dalla censura non sono definiti in modo chiaro”.
In particolare, il sindacato ha vietato le esibizioni dal vivo degli artisti di mahraganat, un genere che combina lo shaabi (la musica popolare egiziana dal ritmo incalzante che parla di povertà e problemi sociali) con elementi dell’hip-hop, del rap e della musica dance-elettronica. La popolarità del genere è esplosa con la primavera araba e ha un vasto e fedele seguito in tutta la regione. Il regime di Al Sisi si oppone al mahraganat, in parte perché i mezzi su cui è diffuso – come le app di streaming Anghami e YouTube – non sono sotto il controllo statale.
Questa musica si allontana anche dai suoni omogenei e superati della musica pop della fine degli anni novanta, incarnata dalla produzione di Shaker. Ma soprattutto lo stato teme che possa ispirare il tipo di dissenso che sta cercando in tutti i modi di far tacere.
Di recente il primo vicesegretario del sindacato, Mohammad Abul-Yazid, ha annunciato in un popolare programma tv che alcuni musicisti di mahraganat avrebbero potuto aderire al sindacato a condizione di rispettare una serie di regole, come cambiare i loro nomi d’arte in stile rapper con i più comuni nomi di nascita. Così il mahraganat è privato delle sue caratteristiche distintive.
La musica convenzionale è stata a lungo controllata da un’oligarchia di investitori privati. Dal 2018 il panorama editoriale egiziano è sempre più nelle mani dell’Egyptian Media Group, di proprietà dei servizi segreti, che cerca di manipolare il tono dei prodotti d’intrattenimento per fini propagandistici. Il monopolio statale sulla produzione cinematografica e teatrale, sulle radio e sui siti consente al regime di Al Sisi una sorveglianza quasi illimitata. Regolamentando e controllando il settore, lo stato decide chi può avere spazio e chi no.
Da quando Al Sisi è al potere, l’artwashing (la strategia di usare l’arte per ripulire la propria immagine) è la norma. Il successo degli artisti è subordinato al loro sostegno per lo status quo e alla disponibilità a farsi sfruttare nelle campagne di propaganda. L’arte è inserita nel programma nazionale del governo per lo sviluppo sostenibile, chiamato Egypt vision 2030 (molto articolato ma quasi esclusivamente di facciata), che rende praticamente impossibile qualsiasi deviazione dalla produzione culturale prediletta dal regime.
Distrarre il pubblico
Nel 2019 l’artista pop libanese Nancy Ajram ha pubblicato una canzone che sostiene il patriarcato ed elogia Al Sisi come “uomo di tutti gli uomini”, poche settimane prima di un referendum su una riforma costituzionale che avrebbe consentito al presidente di rimanere in carica fino al 2030. L’attore e cantante Mohamed Ramadan è diventato un testimonial delle campagne del governo. Anche se la sua musica rientra nel genere mahraganat, lui può esibirsi perché segue i copioni approvati dalle autorità. In una canzone del 2019 dice: “Cosa ne sai del sale della terra? Cosa ne sai della sicurezza garantita dalla polizia e dall’esercito?”, facendo riferimento ai musicisti in esilio come Ramy Essam.
Sotto questo apparato i musicisti non hanno più autonomia in un momento in cui (come in molti altri paesi) le fonti di reddito degli artisti sono legate agli eventi commerciali e alle pubblicità. “Il declino politico porta al declino artistico, soprattutto quando l’arte è strumentalizzata dalle istituzioni per colpire l’opposizione. L’arte diventa così un mezzo per distrarre il pubblico e fare pressione sui dissidenti”, afferma El Sayed.
Il potere dello stato sull’industria musicale non è però illimitato. Proprio come i social network hanno contribuito alle rivolte del 2011, le piattaforme digitali come Anghami – che ha 75 milioni di ascoltatori in tutto il mondo arabo – rendono difficile un controllo totale. Il mahraganat è riuscito a sfuggire alla morsa dello stato, e la sua ascesa è legata alla crescita di piattaforme simili. Caotico e chiassoso come le strade affollate del Cairo, non si fa ingabbiare. Questa musica è associata alla più vasta cultura mahraganat, che sovverte le convenzioni raccontando le esperienze dei giovani emarginati attraverso espressioni colloquiali tipiche delle classi lavoratrici e testi sarcastici e accattivanti. Questo aspetto è esemplificato in un recente brano di Pablo, che ha avuto parecchio successo: “Per quanto assenti, sempre presenti, la povertà abbiamo visto, tempi duri abbiamo vissuto. Cadi di nuovo, e dici ‘ce n’è ancora?’”.
◆ Il mahraganat (feste in arabo) è un genere musicale nato nei sobborghi popolari del Cairo intorno al 2006, ma si è affermato durante la rivoluzione del 2011. Unisce lo shaabi, la musica pop suonata in occasione di feste di strada o matrimoni, con l’elettronica, l’hip-hop, il rhythm and blues, il rap e la techno. Non è nato per essere una forma di contestazione politica, ma è stato preso di mira dal regime di Abdel Fattah al Sisi perché sfugge al suo controllo e per il linguaggio esplicito e i temi trattati, giudicati immorali. Gli artisti mahraganat non dipendono dai circuiti culturali ufficiali, ma sono popolari soprattutto su YouTube e SoundCloud.
Nel febbraio 2020 il segretario del sindacato dei musicisti, il cantante Hany Shaker, ha vietato a tutti gli artisti mahraganat di esibirsi in pubblico in Egitto. La decisione è stata presa dopo che due popolari esponenti di questo genere, Hassan Shakosh e Omar Kamal, avevano cantato allo stadio del Cairo il brano Bent el geran (La figlia del vicino) in cui si parla di “bere alcol e fumare hashish”. Tra il 2020 e il 2022 il sindacato è intervenuto quattro volte per proibire a Kamal di lavorare come musicista professionista. Il 28 marzo 2022 lui e il collega Hamo Beeka sono stati condannati a un anno di carcere e al pagamento di una multa per aver “violato i valori della famiglia” comparendo in un video del 2020 in cui cantano e ballano con una danzatrice del ventre brasiliana.
Middle East Eye, Human rights watch
Anche quando il cambiamento politico si è arenato, il mahraganat ha continuato a essere uno sbocco per trasmettere le esperienze della cultura urbana contemporanea del Cairo. Nel 2013, prima dell’ascesa di Al Sisi, quando al potere c’era il movimento tradizionalista e socialmente conservatore dei Fratelli Musulmani, la canzone Haty bosa ya bet (Ragazza, vieni qui e dammi un bacio), che aveva un testo piuttosto esplicito, si ascoltava in ogni chiosco, nei caffè di quartiere, nei tuk-tuk (taxi a tre ruote) e negli autobus.
Questi musicisti non convenzionali e spesso inesperti hanno conquistato la popolarità online, mentre i loro colleghi che rappresentavano altri generi musicali hanno faticato per sopravvivere sotto il controllo del regime. Oka e Ortega, i componenti del duo che ha aperto le porte al mahraganat, sono diventati economicamente indipendenti apparendo nelle pubblicità in tv o esibendosi ai matrimoni, dato che per suonare agli eventi privati non serve un permesso del sindacato.
Milioni di visualizzazioni
I servizi di streaming hanno permesso anche ad altri generi di mantenere un seguito. Nel 2017 i Cairokee, un gruppo rock egiziano che era salito alla ribalta durante la primavera araba, hanno dovuto cancellare diversi concerti perché l’ufficio della censura aveva bocciato le loro nuove canzoni. Quando quello stesso anno non hanno neanche potuto far uscire nei negozi il loro album Noaata beda (Goccia bianca), hanno deciso di distribuirlo online. Nel giro di qualche settimana tutte le tracce hanno avuto decine di milioni di ascolti su YouTube, dimostrando quanto la censura sia disconnessa dai gusti del pubblico. Per mantenere una presenza pubblica, in seguito i Cairokee hanno attenuato la loro vena politica, accontentando le autorità quel tanto che basta per poter fare concerti.
Il mahraganat dimostra che la scena musicale e artistica egiziana è in grado di aggirare i divieti dello stato. E anche se negli ultimi due anni alla censura si è aggiunta la precarietà dovuta alla pandemia di coronavirus, una realtà sempre più digitalizzata offre delle opportunità. Per questo la spinta ad affrontare questioni prima poco presenti nella musica, soprattutto attraverso il mahraganat, resta valida, anche in un momento in cui il regime sembra intenzionato a ridurre gli egiziani all’apatia politica.
La musica e l’arte contemporanee dell’Egitto potrebbero sembrare irriconoscibili rispetto al panorama post-rivoluzionario. Eppure, anche se devono autocensurarsi o lottare per sfuggire ai vincoli politici ed economici, gli artisti hanno i mezzi per raggiungere il pubblico senza dipendere dai canali di distribuzione controllati dallo stato. La popolarità del mahraganat è una dimostrazione di quello che è possibile. ◆ fdl
Yasmin el Banhawy è lo pseudonimo di una scrittrice e giornalista che vive al Cairo, in Egitto.
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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati