Un estratto da Sbucciando la cipolla (Einaudi), l’autobiografia in cui Günter Grass ha raccontato la prima parte della sua vita, dall’infanzia agli anni cinquanta.

Günter Grass nel 1995. (Sophie Bassouls, Sygma/Corbis/Contrasto)

La tentazione di camuffarsi dietro la terza persona rimane allettante, oggi come in passato: quando lui già si avvicinava ai dodici anni, però gli piaceva ancora star seduto in grembo alla mamma, qualcosa cominciò e finì. Ma quello che iniziò, quello che terminò, è possibile definirlo con precisione? Per quanto mi riguarda, sì.

La mia infanzia si concluse in uno spazio ristretto, quando là dove sono cresciuto la guerra scoppiò in diversi punti, con sincronia. Cominciò, e non si poté non sentirla, con le bordate di un’unità di linea e l’arrivo dei bombardieri da picchiata sopra il sobborgo portuale di Neufahrwasser, la base militare polacca situata di fronte alla Westerplatte, a cui si aggiunsero, più lontani, i colpi mirati di due panzer da ricognizione durante la battaglia attorno all’edificio delle Poste Polacche nella città vecchia di Danzica, e fu ben presto annunciata dal nostro apparecchio radio, di tipo economico, che troneggiava sul buffet del soggiorno: in un appartamento al pianterreno di una modesta casa a tre piani nella Labesweg di Langfuhr, parole inflessibili proclamarono la fine dei miei anni d’infanzia.

Persino l’ora pretese di essere indimenticabile. Da quel momento, il campo d’aviazione della città libera, vicino alla fabbrica di cioccolata Baltic, non accolse più solo traffico civile. Visto dagli abbaini della casa, un fumo nerastro si levava dal porto, rinnovandosi sotto i continui attacchi e spinto dalla lieve brezza che spirava da nord-ovest.

Ma appena mi accingo a ricordare il lontano rombo di cannoni della Schleswig-Holstein, che in realtà era stata messa a riposo in quanto veterana della battaglia dello Skagerrak e ormai serviva solo da nave scuola per cadetti, come anche lo strepito digradante degli aerei chiamati Stukas, perché alti sopra la zona dei combattimenti si piegavano di lato e trovavano il loro bersaglio in picchiata con le bombe finalmente sganciate, la domanda si completa: perché mai dev’essere ricordata un’infanzia e la sua fine così irrevocabilmente datata, quando tutto ciò che mi accadde a partire dai denti da latte e poi dai permanenti si è da un pezzo trasformato, insieme all’inizio della scuola, alle biglie e alle ginocchia sbucciate, ai primi segreti del confessionale e ai successivi tormenti religiosi, in scartoffie che da allora gravano su una persona che appena messa per iscritto non volle crescere, che con la voce spaccava vetri destinati agli usi più diversi, aveva due bacchette di legno a portata di mano e grazie al suo tamburo di latta si è fatta un nome che da allora ha continuato a esistere, citabile, tra le copertine dei libri e pretende di essere immortale in non so più quante lingue?

Va ricordata perché è necessario integrare questo e quel dettaglio, perché potrebbe mancare qualcosa che finirebbe per mettersi sfacciatamente in mostra. Perché tutto quello che è fuggito dalla stalla: le mie mancanze solo in seguito occultate, la mia irrefrenabile crescita, il mio rapporto linguistico con oggetti perduti. E sia citata anche questa ragione: perché voglio avere l’ultima parola.

Il ricordo ama giocare a nascondino come i bambini. Si rintana. È incline all’adulazione e gli piace abbellire, spesso senza necessità. Contraddice la memoria, che si comporta con pedanteria e vuole avere litigiosamente ragione.

Se viene molestato con domande, il ricordo assomiglia a una cipolla che vorrebbe essere sbucciata perché, carattere dopo carattere, possa venire allo scoperto quanto c’è di leggibile: di rado univoco, spesso in scrittura a specchio o comunque enigmaticamente confuso. Sotto la prima tunica, ancora secca e cricchiante, si trova la successiva che, appena staccata, ne libera una terza, umida, sotto alla quale una quarta, una quinta attendono e bisbigliano. E tutte quelle successive trasudano parole troppo a lungo evitate, anche disegni a ghirigori, quasi che qualcuno, volendo fare il misterioso fin da giovane, quando la cipolla era ancora in germoglio, avesse cercato di codificare se stesso.

Già si risveglia l’ambizione: questi scarabocchi devono essere decifrati, quel codice forzato. Già viene confutato ciò che di volta in volta vuole avere fondamento di verità, perché spesso la bugia o la sua sorellina minore, la voglia di barare, costituisce la parte più inalterabile del ricordo; messa sulla carta suona credibile e ostenta particolari che dovrebbero avere l’esattezza di una fotografia: in assenza di vento, il tetto di cartone catramato della rimessa nel cortile interno della nostra casa, sfarfallante sotto la canicola di giugno, sapeva di caramelle d’orzo…

Il colletto lavabile della mia maestra elementare, la signorina Spollenhauer, era di celluloide e stringeva talmente che il collo faceva le grinze…
I fiocchi elicoidali delle ragazze sul pontile di Zoppot, alla domenica, quando l’orchestrina della pubblica sicurezza suonava allegri motivi…
Il mio primo porcino…
Quando noi scolari avevamo vacanza per il troppo caldo…
Quando le mie tonsille erano di nuovo infiammate…
Quando soffocavo la voglia di domandare…

La cipolla ha molte pelli. Se ne parla al plurale. Appena sbucciata si rinnova. Tagliata butta lacrime. Solo quando la si sbuccia dice la verità. Quello che accadde prima e dopo la fine della mia infanzia bussa con i fatti e si svolse peggio di quanto si sarebbe voluto, chiede di essere raccontato ora in un modo ora nell’altro e induce a storie menzognere.

Quando, con un tempo di tarda estate che si manteneva insistentemente sul bello, a Danzica e dintorni scoppiò la guerra, nel sobborgo portuale di Neufahrwasser, raggiungibile in poco tempo con il tram passando da Saspe e Brösen – i difensori polacchi della Westerplatte avevano appena capitolato dopo sette giorni di resistenza –, raccolsi una manciata di schegge di bombe e granate che, nello spazio di tempo in cui la guerra sembrò esistere solo nei comunicati straordinari della radio, quel ragazzino che a quanto pare ero io scambiò con francobolli, figurine a colori dei pacchetti di sigarette, libri consumati dalle molte letture o anche freschi di stampa, tra cui il viaggio attraverso il deserto di Gobi di Sven Hedin, e non so cos’altro ancora.

Chi ricorda in modo confuso, talvolta arriva comunque vicinissimo alla verità, sia pure per vie traverse.

Per lo più sono oggetti, contro i quali urta il mio ricordo, mi sbuccio il ginocchio o che mi lasciano in bocca il sapore del disgusto: la stufa di ceramica… Le stanghe per battere i tappeti nei cortili interni… Il gabinetto sull’ammezzato… La valigia in soffitta… Un pezzo di ambra, grande quanto un uovo di piccione… Chi ha conservato la sensazione tattile del fermaglio per capelli della mamma o del fazzoletto di papà annodato ai quattro capi sotto la calura estiva o del particolare valore di scambio di schegge di bombe o di granata variamente dentellate, a costui vengono in mente – sia pure come piacevole pretesto – storie in cui c’è più realtà che nella vita vera.

© 2006 Steidl Verlag, Gottingen
© 2008 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino
Traduzione di Claudio Groff

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