Il sito di giornalismo d’inchiesta The Intercept ha pubblicato la prima parte di un’inchiesta che svela gli abusi della politica di uccisioni mirate compiute con i droni e organizzata dagli Stati Uniti in diversi paesi.
Il sito, fondato da alcuni giornalisti che hanno avuto accesso alle rivelazioni di Edward Snowden, tra cui Glenn Greenwald, Laura Poitras e Jeremy Scahill, ha potuto consultare numerosi documenti segreti, rapporti e presentazioni forniti da “una fonte all’interno della comunità dei servizi segreti”. L’inchiesta, frutto di diversi mesi di lavoro e di ricerche, traccia – in otto articoli accompagnati da documenti – un ritratto poco edificante della politica statunitense di uccisioni mirate.
Infatti questi documenti, scrive Scahill, mostrano prima di tutto che l’uso di droni da parte delle forze armate statunitensi è più una scelta politica che un semplice strumento. “I droni sono degli strumenti, non una politica. La politica è l’assassinio”, afferma il giornalista.
Catena di comando
I documenti ricostruiscono la procedura, posta sotto la diretta autorità del presidente statunitense, che permette di autorizzare l’uccisione di un sospetto. Le operazioni sono lanciate in funzione di una kill list (lista di persone da uccidere) in cui ogni nome entra solo dopo un’esplicita autorizzazione di Barack Obama.
In realtà la procedura è molto più complessa e articolata e si basa su una catena di comando, che The Intercept ha chiamato kill chain, che include più di una ventina di persone, incaricate di indirizzare al presidente dei rapporti – preparati con dati raccolti da agenti dell’intelligence e da tecnologie di sorveglianza – che servono a guidarlo nelle sue decisioni.
Prima di tutto su ogni possibile obiettivo vengono raccolte numerose informazioni, sintetizzate poi in una scheda “della dimensione di una figurina di giocatore di baseball”, cioè circa 6,5 centimetri per 9. Questa scheda deve salire “ai livelli gerarchici superiori” per essere convalidata. Un documento indica che ci vogliono in media 58 giorni al presidente per firmare un ordine di esecuzione. L’esercito poi ha 60 giorni per portare a termine la sua operazione.
Le autorità statunitensi falsano gran parte delle cifre disponibili mettendo nella categoria di ‘nemici’ le vittime non identificate
In attesa della loro esecuzione, gli obiettivi sono inseriti in una watch list che riassume la situazione della loro sorveglianza. The Intercept pubblica un esempio di questa lista così come appare sui monitor dei computer del personale incaricato di condurre le operazioni. Ogni obiettivo è identificato da un codice unico associato a diversi dati, ed è geolocalizzato grazie alla sim del suo cellulare.
L’inchiesta permette anche di accertare gli eccessi di queste operazioni mirate, in particolare sul numero e sulle identità delle vittime. Infatti, i documenti mettono in discussione la versione ufficiale secondo la quale il programma di esecuzioni mirate sarebbe sufficientemente preciso per limitare al massimo le perdite civili.
La mancanza di informazioni e di dati riguardanti molti paesi, come lo Yemen e la Somalia, non permette di avere un bilancio affidabile delle vittime degli attacchi dei droni. Inoltre, come mostra uno di questi documenti, le autorità statunitensi falsano gran parte delle cifre disponibili mettendo sistematicamente nella categoria di “nemici” le vittime non identificate, anche se non figurano sulla kill list.
Dipendenza dei militari dalle nuove tecnologie
The Intercept ha pubblicato i documenti legati a un’operazione particolare, l’operazione Haymaker, che permette di farsi un’idea dell’efficacia di questi attacchi. Condotta tra il gennaio del 2012 e il febbraio del 2013 nel nordest dell’Afghanistan, questa operazione aveva comportato la morte di 200 persone, ma solo 35 di loro erano obiettivi effettivi. In cinque mesi la percentuale di vittime collaterali era arrivata addirittura al 90 per cento.
Più in generale, The Intercept e la “fonte” denunciano una vera e propria dipendenza dell’esercito statunitense da queste nuove tecnologie, a scapito di tecniche di intelligence tradizionali e con il rischio di uccidere degli innocenti. “Complessivamente questi documenti segreti portano a concludere” che la politica di uccisioni mirate condotta negli ultimi 14 anni dagli Stati Uniti “soffre di un eccesso di fiducia nei mezzi elettronici e digitali di intelligence, con un bilancio di vittime civili apparentemente incalcolabile – dovuto alla preferenza per l’uccisione piuttosto che alla cattura – e soffre dell’incapacità di ottenere informazioni potenzialmente di grande valore dalle persone sospettate di terrorismo”, scrive The Intercept.
“L’esercito è capace di adattarsi facilmente al cambiamento, ma non gli piace interrompere qualcosa che gli facilita la vita e che gli è comunque utile”, spiega la “fonte”. “E senza dubbio per i militari si tratta di una maniera molto rapida e pulita di fare le cose. Si tratta di un modo molto furbo ed efficace di fare la guerra, senza dover fare i conti con gli errori delle invasioni di massa via terra dell’Iraq o dell’Afghanistan”. Ma i militari “sono diventati talmente dipendenti da questi strumenti, da questo modo di fare, che sarà sempre più difficile allontanarli da questi sistemi se saranno autorizzati a continuare a operare in questa maniera”.
Oltre a mettere in pericolo delle vite civili, questa dipendenza ha anche la conseguenza di privare i servizi di intelligence di informazioni che potrebbero rivelarsi preziose.
Una nuova fonte oltre a Edward Snowden
Nel 2013 un dipartimento speciale del Pentagono chiamato Intelligence, surveillance and reconnaissance (Isr) aveva condotto uno studio critico sull’uso dei droni in Yemen e Somalia. Questo studio era favorevole a operazioni di ricognizione più dettagliate, facendo ricorso ai droni ma anche alle navi, prima di stabilire la kill list. L’Isr raccomandava anche la cattura di un maggior numero di sospetti, invece di ucciderli, per poterli interrogare.
Lo studio dell’Isr rivelava inoltre dei nuovi elementi sull’esecuzione di Bilal al Berjawi, un cittadino britannico a cui stata tolta la nazionalità per essersi unito ad Al Qaeda ed è stato ucciso da un drone in Somalia nel gennaio del 2012. Il terrorista era in realtà sorvegliato da sette anni dai servizi americani e britannici che avrebbero potuto arrestarlo in diverse occasioni durante i suoi viaggi tra il Regno Unito e l’Africa orientale.
Questa inchiesta di The Intercept sembra la prima puntata di una serie alimentata dai numerosi documenti forniti dalla “fonte” sulla quale non è stata data alcuna indicazione.
Il sito precisa di aver “accettato di concedere l’anonimato alla fonte perché i documenti sono riservati e perché il governo statunitense si è impegnato in una campagna aggressiva contro i whistleblower (le gole profonde)”. A quanto pare il sito sarebbe entrato in contatto con una nuova fonte di informazioni oltre a Edward Snowden. Nel suo documentario Citizenfour, dedicato all’ex dipendente dell’Nsa, la giornalista Laura Poitras parlava insieme allo stesso Snowden e a Greenwald proprio dell’esistenza di una nuova fonte che disponeva di informazioni sui programmi dei droni.
(Traduzione di Andrea De Ritis)
Questo articolo è stato pubblicato su Mediapart.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it