I combattimenti che sono scoppiati l’8 luglio a Juba, capitale del Sud Sudan, sono talmente violenti che è impossibile conoscere con esattezza il bilancio delle vittime. Alcune fonti locali citate dall’Afp danno una cifra provvisoria di oltre trecento morti, tra cui due caschi blu cinesi. L’Onu ha riferito di colpi di mortaio, di lanciagranate e di “armi d’assalto pesanti”. È stata inoltre segnalata la presenza di elicotteri da combattimento e di carri armati.
Le piogge torrenziali che si sono abbattute su Juba nella notte di domenica, hanno reso ancora più precaria la situazione di migliaia di civili che hanno dovuto precipitosamente abbandonare i quartieri più colpiti dagli scontri. Quella cominciata a Juba è una guerra che minaccia di travolgere la popolazione, la regione e perfino l’esistenza stessa di questo paese, che il 9 luglio avrebbe dovuto festeggiare i suoi cinque anni di vita.
Chi sono i belligeranti?
Dopo l’indipendenza (raggiunta nel 2011 con la secessione dal Sudan), grazie anche alle ingenti risorse petrolifere in grado di sostenere la sua giovane economia, l’ottimismo del Sud Sudan era alto. Ma ben presto sono emerse forti tensioni tra i due principali leader del paese: il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar.
Nel dicembre del 2013 alcuni militari di etnia dinka fedeli a Kiir hanno cominciato a scontrarsi con altri soldati dell’esercito di etnia nuer, accusandoli di preparare un colpo di stato. I soldati nuer sono guidati da Machar, che era stato mandato via dal presidente Salva Kiir nel luglio del 2013. Kiir e Machar erano da molto tempo in disaccordo e si contendevano il controllo del governo e del loro partito, il Movimento per la liberazione del popolo sudanese (Splm).
Riek Machar è dovuto fuggire per evitare di essere ucciso e una parte dell’esercito si è schierata al suo fianco. Questa prima fase di guerra civile è durata trenta mesi e ha causato decine di migliaia di morti. Un accordo di pace, raggiunto nell’agosto del 2015 dopo forti pressioni da parte della comunità internazionale, ha portato alla creazione di un governo di transizione. Nell’aprile del 2016, Machar e i suoi uomini sono tornati a Juba e Machar ha riottenuto la sua carica.
Grazie anche alle forti pressioni regionali, i due nemici e le loro truppe hanno cercato di convivere nella capitale. Ma una parte dei loro uomini è contraria a questa soluzione e preferisce una guerra a oltranza. Sembra ora che queste persone abbiano nuovamente trascinato la situazione in uno stato di conflitto aperto.
Le tensioni sono andate crescendo negli ultimi giorni, senza che nessuno sembrasse in grado di fermarle, culminando negli scontri a larga scala di domenica. Le forze fedeli a Machar sono numericamente inferiori e non dispongono della stessa potenza di fuoco rispetto a quelle del campo avversario, che ha recentemente acquistato degli elicotteri e reclutato numerosi miliziani.
Perché questo conflitto è così pericoloso?
Per due motivi. Innanzitutto, è concreto il rischio che si estenda ad altre regioni del paese. Recentemente anche alcune zone che erano state risparmiate durante la prima fase della guerra civile sono state coinvolte nei combattimenti. Si teme quindi una guerra generalizzata.
Inoltre i combattenti del Sud Sudan risparmiano di rado i civili. Il conflitto tra il 2013 e il 2015 è stato segnato da atrocità e gravi abusi: gli uomini in armi considerano come “nemici” intere popolazioni sulla semplice base della loro appartenenza etnica. Una visione deformatache però funziona molto bene quando le violenze hanno ormai avuto inizio.
Se queste dovessero continuare ad aumentare d’intensità, bisogna temere più che dei semplici abusi, ma dei veri e propri massacri.
Cosa fa la missione dell’Onu?
La missione dell’Onu nel Sud Sudan, la Minuss, era stata concepita inizialmente per assistere il governo di Juba nel “consolidamento della pace”. I suoi obiettivi sono drammaticamente cambiati con il passare del tempo. Nonostante i suoi dodicimila caschi blu (ai quali si aggiungono civili, poliziotti e altro personale), la missione non sembra in grado di affrontare le recenti esplosioni di violenza, nonostante queste fossero state annunciate, negli ultimi mesi, da numerosi osservatori.
Il suo principale successo, a oggi, è stato quello di creare dei siti per la protezione dei civili, in cui le popolazioni in fuga dalle violenze dei soldati possono trovare riparo. Ma non si tratta di una garanzia assoluta. A Malakal, qualche mese fa, i soldati governativi hanno attaccato il campo dell’Onu. Domenica alcuni di questi siti, a Juba, sono stati oggetti di raffiche di colpi che però, finora, non sono state seguite da sconfinamenti.
È da venerdì sera che i caschi blu sono nell’impossibilità di operare nella capitale, ovvero da quando la violenza ha raggiunto i suoi massimi livelli. Domenica sera il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite ha invitato i paesi della regione a inviare delle truppe in aiuto.
Si tratta di un’ammissione di fallimento, in particolare per il contingente cinese. Un’ammissione significativa vista la dimostrazione di responsabilità, nelle questioni di sicurezza, che Pechino era desiderosa di dare.
C’è il rischio che il conflitto si estenda?
Il Sud Sudan è un paese nuovo, molto fragile e situato nel cuore di una regione complessa. È oggetto di alleanze incrociate, al punto che i combattimenti in corso rischiano di far salire le tensioni tra i paesi vicini. Il presidente Salva Kiir è sostenuto dal vicino Uganda. Durante la prima guerra civile (2013-2015) un corpo di spedizione ugandese era accorso a Juba e nei suoi dintorni, in soccorso di Kiir. All’epoca, era stato il Sud Sudan a pagare il conto dell’intervento militare, ma oggi le sue casse sono vuote.
Contemporaneamente l’Etiopia, un altro paese confinante, è ostile a questo intervento. Lo stesso vale per il Sudan, a nord, che cerca di trovare dei compromessi con i due belligeranti ma è sempre stato più vicino a Riek Machar e ha delle relazioni tese con l’Uganda. Alcuni membri del principale movimento armato del Darfur, il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (Jem), ostile a Khartum, hanno quindi ingrossato le fila di Salva Kiir nell’ultima fase del conflitto.
Il risultato? Non ancora una polveriera vera e propria ma un quadro regionale fragile che, se dovesse proseguire l’inasprimento del conflitto oggi in corso, minaccia di avere gravi conseguenze.
(Traduzione di Federico Ferrone)
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